Tag Archivio per: Bezos

«L’algoritmo ci sfrutta, ma ci crediamo potenti»

Ho letto d’un fiato La dittatura degli algoritmi – Dalla lotta di classe alla class action (Krill Books) di Paolo Landi, consulente di comunicazione per imprese e studioso di new media. Ma più procedevo nella lettura più ne ero turbato e, contemporaneamente, cresceva la tentazione di scendere da questo mondo iperconnesso e ipersorvegliato.

Noi utilizzatori dei social network viviamo in un gigantesco «Truman show»?

«Non so se vorrei scendere dal sistema in cui siamo sprofondati perché la vita è troppo bella e, più che scendere da qualcosa, preferisco salirci e capire dove sto andando».

È proprio questo capire a produrre spavento?

«Quando si capiscono certe cose si possono avere risposte sgradevoli».

Nell’ultimo capitolo parla di «un capitalismo che evolve verso un’unità del mondo sempre più fittizia, dove la rappresentazione del reale si sovrappone al reale stesso»: è la descrizione del «Truman show»?

«Far sembrare le nostre vite in un certo modo anche se non sono in quel modo è uno dei dogmi dell’èra digitale. Non è un caso se si parla di avatar, di nickname, di virtuale, di metaverso. Noi siamo le persone reali e poi siamo quelli che ci rappresentiamo sui social. Non sempre queste due persone coincidono, ma i social sono così pervasivi che l’autorappresentazione virtuale vince su ciò che siamo realmente».

Gli algoritmi sono il dispositivo di questa distopia dolce?

«Come in Truman show la realtà parallela diventa la realtà vera. Viviamo in una dimensione di cui non conosciamo i dati. Nell’èra analogica era più facile capire chi deteneva il potere, oggi è più difficile perché è un potere quasi astratto e tanto raffinato da farci credere di esser noi a comandare e a determinare le sorti della vita e del mondo. In realtà, continuiamo a essere strumenti».

«Cibo per gli algoritmi» ci ha ammonito papa Francesco qualche giorno fa.

«Sarebbe bello non esserlo, ma purtroppo è difficile sottrarsi perché i social arrivano ovunque e sono usati da una massa in continuo aumento».

Nella sua riflessione usa i testi di Karl Marx come termine di paragone perché il capitalismo industriale è divenuto capitalismo digitale?

«Non mi atteggio a filosofo, ma resto un comunicatore che si appassiona alla rivoluzione digitale perché oggi sembra che il mondo sia fatto solo di comunicazione. C’è un esempio che rende la trasformazione da un capitalismo all’altro. Gli ultimi della scala sociale, quelli che Marx chiamerebbe sottoproletari, sono i runner che ci portano la pizza a casa. Il capitalismo digitale fa credere loro di essere imprenditori perché gestiscono il loro tempo, possono guadagnare di più se rispondono a più chiamate e vanno più veloci. È un cerchio perfetto: dallo sfruttato che sapeva di esserlo perché conosceva il padrone allo sfruttato di oggi che crede di essere lui il padrone».

Come cambia il concetto di merce?

«Se guardiamo a Chiara Ferragni capiamo il nuovo modo di concepire la merce. Chiara Ferragni lavora sempre senza lavorare mai. Chi la paga non è proprietario delle sue braccia né del suo tempo, lei è imprenditrice e operaia allo stesso tempo. È merce, ma esaltando al massimo la sua individualità».

Da questo deriva anche la dematerializzazione dell’economia?

«Il paradigma finanziario prende il sopravvento e l’economia perde di materialità, come la perdono l’impresa e la fabbrica. Assistiamo a una specie di terziarizzazione del mondo. Gli italiani non vogliono più fare determinati lavori perché si sentono almeno potenzialmente ricchi. I criteri che prima stabilivano il censo, sui social sfumano fino a sparire. Il parrucchiere e l’avvocato, la dogsitter e il funzionario di banca sembrano uguali e la scala sociale si ridisegna».

I giovani non vogliono più fare l’ingegnere o il medico perché bisogna studiare troppo?

«La Silicon Valley ci ha abituato a pensare la ricchezza come frutto di un’idea. Si diventa ricchi non perché si lavora duramente o si studia, ma perché si ha un’idea. Come Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Elon Musk. Le corporation sono nate da un’idea avuta in età giovanile. Il sistema basato su sacrificio e costruzione quotidiana è obsoleto. Dire guadagnati da vivere “con il sudore della fronte” oggi suona ridicolo».

Scrive che «la rivoluzione digitale è il sovvertimento delle regole che proietta il nostro secolo nella speranza o nell’illusione di un mondo nuovo». Quale delle due?

«Punto sulla speranza perché credo che la fase pionieristica che stiamo vivendo ci alleni a essere uomini nuovi che utilizzano strumenti inventati da noi. Penso che il progresso lavori in direzione del miglioramento della vita dell’uomo. Tuttavia, certe volte mi vengono dei dubbi e un po’ di paura».

Siamo immersi in un’avvolgente illusione?

«A volte lo penso, ma non perdo la speranza».

Possiamo dire che il caso Chiara Ferragni è emblematico di questa incertezza?

«È sicuramente emblematico dell’epoca in cui viviamo, ma soprattutto prefigura il nostro futuro. Chiara Ferragni è stata una pioniera perché ha capito prima di tutti che lei stessa era il brand e non c’era bisogno di altre sovrastrutture attorno a questo brand. Lei rappresenta il livello più alto di retribuzione e ricchezza, i runner il livello più basso degli imprenditori di sé stessi. Ci fanno credere di essere artefici del nostro destino solo perché non timbriamo il cartellino, mentre dipendiamo da chi manovra queste tecnologie e siamo più sfruttati degli operai delle fabbriche fordiste».

Che cos’è il «comunismo distopico» di Chiara Ferragni?

«Paradossalmente, il suo turboliberismo individualista coincide con il comunismo di Marx. Il prevalere dell’uomo sullo sfruttamento realizza la liberazione dall’alienazione del lavoro che Marx aveva immaginato».

Che cosa ha sbagliato nelle campagne del pandoro Balocco, delle uova di Dolci preziosi e della bambola Trudi?

«Secondo me, niente. Le responsabilità sono delle imprese che l’hanno ingaggiata. Lei ha fatto il suo mestiere e credo non debba rendere conto a nessuno se fa beneficenza o no. Forse un errore è stato devolvere un milione di euro dopo le accuse perché è sembrata una excusatio non petita».

Si è prestata a una campagna ingannevole?

«Penso che la Balocco abbia molta responsabilità. Accade spesso che si destini in anticipo la cifra della beneficenza, perché spesso queste campagne producono poco. Se invece si sono venduti molti pandori, allora si poteva conguagliare la cifra anticipata. Ma su questo Chiara Ferragni non c’entra».

Ha prestato sé stessa per una campagna fasulla?

«Al massimo avrebbe potuto dire alla Balocco di devolvere 100 euro in più del cachet riconosciuto a lei. Vedo più la responsabilità dell’azienda di quella della testimonial».

La procura di Milano parla di «unico disegno criminoso».

«Mi sembra un’esagerazione. Vedremo».

Il governo ha deciso di regolamentare la beneficenza.

«Ha fatto bene».

Alcuni seguaci di Chiara Ferragni sono passati alla class action?

«Naturalmente c’è un’onda emotiva, ma non credo scalfirà l’immagine che si è costruita nel tempo e che mi sembra abbastanza solida».

Com’è visto chi si arricchisce con dei selfie e dei sorrisi da chi non arriva a fine mese?

«Bella domanda. Purtroppo, l’economia che ci aspetta emarginerà ancora di più i poveri. Il divario digitale è questo».

Come convivono ricchezza virtuale e povertà reale?

«Convivono perché siamo in una fase di passaggio tra fabbrica fordista e mondo digitale. Il mio libro è un tentativo di svelare l’inganno di far credere ai poveri di non esserlo mentre continuano a esserlo profondamente».

Il frazionamento in community e minoranze è funzionale al capitalismo globalizzato?

«Sia il capitalismo digitale che quello analogico si basano su “divide et impera”. Perciò si rilancia il corporativismo, donne contro uomini, neri contro bianchi, gay contro etero. È un capitalismo molto individualizzato, che ci spinge a essere sempre più soli».

Perché la sinistra ha sposato formule e linguaggi delle corporation digitali?

«È un grande equivoco. Il tema delle disuguaglianze è solo in parte un problema di linguaggio. A noi europei sofisticati risulta ingenua la riduzione linguistica del problema delle ingiustizie sociali e della parità di genere che arriva dall’America».

Abbiamo scoperto le echo chamber, le camere dell’eco: le piattaforme giocano al gatto col topo con gli utenti?

«I social sembrano il massimo della democrazia, in realtà separazioni e divisioni si consolidano nei social. Veniamo canalizzati nelle echo chamber, bolle nelle quali interagiamo con chi la pensa come noi e ha gusti simili ai nostri».

È una libertà condizionata.

«Non ci rendiamo conto che i social sono prodotti commerciali. E che le piattaforme dove postiamo un parere sono come un marchio di scarpe o una bevanda. Fatichiamo a comprendere che quando scriviamo su X stiamo arricchendo chi lo possiede perché non siamo abituati all’astrattezza del prodotto».

I social sono un luogo di conformismo e omologazione?

«Totalmente».

Il capitalismo digitale preferisce individui soli, isolati, perché sono consumatori più manovrabili?

«Il capitalismo tradizionale aveva creato i sindacati. Oggi nessuno lotterebbe per un diritto pensando che potrebbe servire a chi verrà dopo di lui. L’individualismo è così radicalizzato che si preferisce licenziarsi piuttosto che unirsi agli altri e lottare per dei diritti come si faceva un tempo. Siamo nell’epoca della solitudine».

Il single è più orientato al consumo di un padre di famiglia?

«È più orientato all’edonismo che alla responsabilità».

La disillusione della fiaba digitale è iniziata?

«Le masse sono ancora preda della fiaba. Una parte delle élite comincia a essere consapevole dell’illusione e dell’inganno».

Cominciano a essere più interessanti, più liberi e indipendenti coloro che non frequentano i social?

«Chi sta completamente fuori guadagna in libertà, ma perde stimoli e opportunità. Si è contemporanei se si vive il proprio tempo in ogni suo aspetto. Uno dei miei più grandi amici non frequenta i social e non guarda la tv. Quelli che stanno fuori sono nascosti, non si sa chi sono».

Hanno già fatto la class action dai social?

«Non c’è ancora class action dai social, ci sono disamoramenti temporanei. Ormai, i social network fanno parte della nostra vita».

 

La Verità, 27 gennaio 2024

 

«Bezos e gli altri? Geniali, ma senz’anima»

Un produttore di vino con la fissa dei giornali. È Giancarlo Aneri da Legnago (Verona), 74 anni portati alla grande, inventore del premio «È giornalismo». Uno che fa dire a tanti che lo vedono per la prima volta: «O è matto, oppure…». Successe al portinaio della Ferrari a Maranello, quando si presentò senza appuntamento per incontrare il mitico Enzo. E a Tony Mantuano, ristoratore di Chicago, al quale fece giurare che Barack Obama avrebbe fatto il primo brindisi da vincitore con il suo Prosecco. Insomma, un genio del marketing. Scienza appresa e applicata da direttore delle relazioni esterne delle Cantine Ferrari di Trento, il marchio del più celebre spumante italiano. Poi lasciato per fondare la sua Aneri Srl.

Cosa racconterebbe ai nipoti per sintetizzare la storia dell’azienda che porta il suo nome?

«Racconterei la prima bottiglia bevuta con i miei tre maestri di vita: Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giorgio Bocca. Quel brindisi ha portato fortuna».

Perché lo fece con loro?

«I momenti importanti si festeggiano con le persone che si stimano di più».

Che vino era?

«Prosecco. Eravamo a casa di Bocca, 1997. Montanelli si complimentò, ma da toscano disse che adesso aspettava un buon rosso. Due anni dopo avrebbe assaggiato il primo Amarone».

I suoi sono vini per presidenti, star e grandi marchi?

«Siccome il mondo non è solo dei ricchi, se l’Amarone è l’eccezione, il Prosecco è la normalità. Penso di rappresentare una delle poche cantine al mondo che in 25 anni ha fatto bere i suoi vini a tutti i Capi di stato».

Come ha fatto?

«Ero da vent’anni alla Ferrari spumanti quando mio figlio mi disse: “Papà, io non lavorerò mai con te, perché voglio costruire qualcosa di mio”. Da quel momento ho iniziato a pensare a un’azienda di famiglia».

I presidenti e le star?

«Mia moglie dice che sono un po’ montato. Invece, ho avuto fortuna, non ho fatto il fighetto, ma il piazzista».

Un aneddoto da piazzista.

«Dopo aver visitato il Senato, ospite di Ted Kennedy, al momento della foto gli ho messo in mano la bottiglia: “Insomma, scrivono già che bevo troppo”, brontolò. Ma io ero così contento che non mi accorsi di fare qualcosa d’inopportuno».

A Ted Kennedy e al Senato americano bisogna arrivarci.

«Da sempre, quando vado in una città, m’informo sui migliori alberghi e ristoranti. Ted Kennedy me l’ha presentato un grande ristoratore italiano di Washington. Sono stato ospite con mia moglie di Ronald Reagan, ho visitato la Casa Bianca con una sua assistente. Non mi sono mai fatto troppi problemi. Sa chi mi ha insegnato a essere sicuro di me stesso?».

Dica.

«Enzo Ferrari. La prima volta che sono andato in America ho chiesto consiglio a lui che non aveva mai preso un aereo: “Se hai un prodotto che consideri buono ma vedi che non ti ascoltano, alzati e va’ via”».

Alla Ferrari auto si arriva passando dalla Ferrari spumanti?

«Vedevo che quando il Cavallino rampante vinceva i Gran premi brindava con lo champagne… Ma perché, se è il simbolo dell’Italia? Un giorno mi presentai a Maranello con sei bottiglie… “Sono Giancarlo Aneri, vorrei parlare con il commendator Ferrari”. Il portinaio era basito: “Ha un appuntamento?”. “No, però vorrei incontrarlo”. “Guardi che l’ingegnere ha l’agenda piena per i prossimi sei mesi”. “Io vengo da Legnago, in provincia di Verona, e ho portato un piccolo presente che vorrei consegnargli personalmente”. Allora spunta Valerio Stradi, il segretario personale: “Se mi dà il pacchetto glielo consegno io”. “No, guardi, posso aspettare anche tutta la giornata, mi metto qui…”. Stradi si allontana e ritorna: “L’ingegnere può dedicarle un minuto”. Rimasi con lui un’ora e mezza».

Diceva che la Aneri è nata per dare un futuro a figli e nipoti.

«Il Pinot bianco porta il nome di mia moglie Leda, l’Amarone di mia figlia Stella, il Pinot nero è intitolato a mio figlio Alessandro. I quattro prosecchi alle mie nipotine e al nipotino, Lucrezia, Ludovica, Giorgia e Leone. C’è una storia dietro e un futuro roseo davanti».

Com’è riuscito a portare i suoi vini sulle tavole del G20?

«Il merito è di Silvio Berlusconi, il primo premier che ha usato l’Amarone Aneri come biglietto da visita del made in Italy. Il giorno della firma della Costituzione europea nel 2004 ne ha regalato una bottiglia a ogni capo di governo con il loro nome inciso. Invece, il Prosecco è arrivato sulla tavola di Barack Obama».

Come?

«Sei mesi prima delle elezioni, lessi sul New York Times che, in caso di vittoria, Obama avrebbe festeggiato con Michelle alla Spiaggia, il suo ristorante preferito di Chicago. Presi un aereo e andai a trovare il ristoratore Tony Mantuano per farmi promettere che il primo brindisi sarebbe stato con il mio Prosecco. Mantuano mi guardava interdetto: “Questo qui è più sicuro di Obama”. Conservo la mail arrivata nella notte che dice che Obama e sua moglie hanno brindato con il Prosecco Aneri».

Tutto merito della sua fissa per l’informazione?

«Il vino si apprezza prima di tutto con il profumo, ma ha un suo profumo anche l’inchiostro dei quotidiani. Ne compro sei al giorno: Corriere della Sera, Sole 24 ore, Il Giornale, Libero, La Verità e L’Arena».

Qualche giorno fa su una pagina del Sole 24 ore un tale G. A. chiedeva al filantropo Jeff Bezos di annullare il licenziamento di 10.000 dipendenti pensando prima all’uomo che al pianeta. Ne sa qualcosa?

«Sì perché l’inserzione è mia. Bezos aveva annunciato l’intenzione di donare metà del suo patrimonio per salvaguardare il pianeta, ma quello stesso giorno il New York Times informava che Amazon licenziava 10.000 dipendenti. Mi sono detto: perché prima di salvaguardare il pianeta non difende subito 10.000 persone rinviandone il licenziamento di un paio d’anni?».

È l’ultimo di una serie di messaggi affidati ai giornali?

«I cinesi usavano i tazebao, io uso una pagina di giornale per lanciare un messaggio o dire grazie».

Altri tazebao?

«Quando Mario Draghi lasciò la Bce feci pubblicare un ringraziamento sul Sole 24 ore per il buon lavoro svolto. Era firmata “È giornalismo, Aneri”. Il giorno dopo i membri della giuria mi chiamarono per ringraziarmi. Poi al momento dell’incarico a Draghi ho fatto pubblicare sul Corriere una pagina anonima con “Grazie presidente Mattarella. Grazie presidente Draghi”».

Qualche tazebao rimasto anonimo?

«Quando in piena pandemia la tv francese Canal+ mostrò un pizzaiolo italiano che, cantando tossiva sulla pizza, ho fatto pubblicare una pagina sulla Verità che recitava “Viva la pizza. Abbasso lo champagne”, firmata con le iniziali di nipotine e nipotino».

Per l’incarico a Giorgia Meloni, niente tazebao?

«Sono felicissimo che una donna in gamba come lei abbia in mano le sorti dell’Italia per i prossimi anni. La guardo con gli occhi di chi vuole farsi un’idea più precisa nei prossimi sei mesi».

Cosa pensa dei big dell’economia digitale come Bezos, Bill Gates e Mark Zuckerberg?

«Sono dotati di grande genialità e hanno creato un modo di vivere e di comunicare più veloce ed efficiente. Ma non vedo l’anima. Mi sembra che le donazioni servano a promuovere la loro immagine. La persona che mi convince meno è il banchiere filantropo George Soros. Ha fatto guerra per anni alla sterlina e alla lira, complicando la vita a milioni di famiglie inglesi e italiane. Non basta finanziare il restauro di un monumento per compensare tante speculazioni».

Com’è nato il premio «È Giornalismo»?

«Avevo l’ambizione di avvicinare Montanelli, Biagi e Bocca che si stimavano molto, ma si frequentavano poco. Oggi la giuria è composta da Giulio Anselmi, Paolo Mieli, Gianni Riotta, Gian Antonio Stella e Mario Calabresi. Ma il premio è stato fondato dai tre giganti del giornalismo e da un loro amico sincero. Ne parlo al presente perché per me sono ancora vivi».

Un aneddoto su Montanelli.

«Qualche volta andavamo in vacanza insieme. Un anno m’incarica di scegliere un albergo sulla spiaggia di Punta Ala. Individuo l’Alleluia e ragguaglio la padrona su esigenze e orari dell’illustre ospite. Quando arriva il momento, scendo in un altro hotel due giorni dopo di lui e gli chiedo se vada tutto bene. “Insomma, sono tutti vecchi in questo albergo”. Immagino pullman d’inglesi novantenni… La sera m’invita a cena: il più vecchio avrà avuto 65 anni, lui ne aveva 84. Questo era Indro, come si fa a non volergli bene?»

Enzo Biagi?

«Le riunioni si facevano da Bocca, ma una volta lui arrivò in ritardo subendo i rimproveri del padrone di casa. “Sono andato a fare le analisi, oltretutto sono tutte sballate”, confidò Biagi. “Anch’io le avevo sballate”, replicò Giorgio. “E come hai fatto a guarire?”. “Ho smesso di farle”».

Il premio si sta aggiornando ai nuovi media?

«Nel 2013 abbiamo premiato Hal Varian, capo della sezione economica di Google, chiedendogli di aiutare i giornali con la pubblicità».

Intanto vi siete allargati ai volti televisivi.

«Sempre in rapporto all’informazione. Già nel 2003 avevamo premiato Antonio Ricci come capo del vero tg della televisione italiana. Nel 2015 è toccato a Fiorello per Edicola Fiore, un programma che aiuta il giornalismo come piace a me».

Altri premiati: Fabio Fazio, Massimo Gramellini, Mario Calabresi, vince il mainstream?

«Feltri ha ribattezzato “È giornalismo” come il “Premio Stalin”. Ma guardando l’elenco troviamo anche suo figlio Mattia, Milena Gabanelli, Natalia Aspesi, Sergio Romano. Io non interferisco sulle scelte della giuria perché sono contento di essere il patròn».

Forse bisogna cambiare la giuria?

«Qualche anno fa Natalia Aspesi chiese di farne parte, ma Montanelli suggerì di aspettare un po’ perché aveva appena vinto. Conservo la sua mail: “Caro Aneri, si ricordi che noi donne siamo più brave degli uomini ed è un peccato che in giuria non ce ne siano”. Forse ora i tempi sono maturi. Dopo un paio d’anni di sospensione, mi piacerebbe che il premio tornasse per festeggiare la ripresa di una vita serena come quella foto del bacio in Times Square dopo la Seconda guerra».

Oggi i giornali sono in crisi e le edicole chiudono: lei è l’ultimo romantico?

«Sicuramente sono uno dei pochi ottimisti rimasti. Prendo la lezione che viene dal mio mondo: c’è stato un momento in cui si parlava solo dei ristoranti stellati e si diceva che le trattorie stavano morendo. Oggi in Italia sono i locali in maggior espansione. Perciò, spero che si possa superare il momento difficile e, magari con un aiuto pubblico per le edicole, riportare i giovani a frequentarle».

 

La Verità, 3 dicembre 2022

«Con un libro da mezz’ora do l’assalto ad Amazon»

Una vita da film. O da grande documentario. Fate voi. Se un regista, un produttore o un editore s’imbattessero in Riccardo Ruggeri potrebbero farsi venire delle idee. Vivesse negli Stati uniti, lo coprirebbero di chissà quanti premi e onorificenze. Di self made man così ne nasce uno ogni vent’anni. Da operaio della Fiat a Ceo di società quotate a Wall Street, tipo la New Holland (fusione Fiat-Ford di macchine per movimento terra ndr). Dalla portineria di 12 metri quadri, camera e cucina per cinque persone, alla corte della regina Elisabetta d’Inghilterra che lo premiò personalmente con il Queen’s Award. Licenziato dalla Fiat  per eccesso di successo (parole di Umberto Agnelli), si è specializzato nella ristrutturazione di aziende tecnicamente fallite: «Gli imprenditori mi davano le chiavi perché si fidavano e io, da amministratore delegato, agivo come fossi il padrone, rianimando il cadavere». Poi consulente strategico di Enel, Rai, Ferrero… Negli anni Novanta ha battezzato una serie di startup: «Quattro, per l’esattezza. Una è stata un flop colossale che mi è costato parecchi soldi. Due sono andate molto bene e le ho vendute. La quarta si è trasformata in azienda di famiglia, il cui successo non è merito mio». Ora, a 86 anni, Ruggeri sta scrivendo un altro capitolo della sua storia e continua a sfornare idee con la vivacità di un trentenne. L’ultima delle quali è il rivoluzionario «Libroincipit». Sul sito di Zafferano.news è acquistabile il primo, a sua firma: Editoria & Amazon. Romanzo autobiografico.

Ci racconta quest’ultima genialata?

«Certo. Ma dobbiamo arrivarci per gradi perché è il traguardo di un processo intellettuale molto lungo e complesso».

Mi armo di pazienza.

«Finita la stagione delle startup ho deciso che avrei continuato a lavorare a titolo gratuito, come per un servizio pubblico. Nel 2006-2007, a più di 70 anni, mi sono chiesto quale fosse il settore più difficile nel business. L’editoria tutta, giornali e libri, stava entrando in una crisi profonda. Mi ci sono buttato».

E sono nati Grantorino Libri e Zafferano.news, giornale online per abbonati seppur gratuito e senza pubblicità.

«Prima è nato il Cameo, il mio format giornalistico. Un adattamento del “Gonzo journalism” inventato da Hunter Stockton Thompson che ho conosciuto a Washington nel 1980. Un giornalismo molto sofisticato che può essere veritiero senza essere rigidamente oggettivo, fatto di racconti di 15 – 20.000 battute, che mescola elementi reali a interpretazioni soggettive ed esperienze personali. Il Cameo ne è una versione ridotta e Zafferano è la sua estensione a livello di testata alla quale collaborano autori a titolo gratuito».

Una testata di commenti e riflessioni?

«Zafferano è un simil-quotidiano, non c’è bisogno che esca tutti i giorni. Le notizie arrivano dalla tv e da internet, ma i commenti non scadono come lo yogurt. Prendiamo il caso Morisi: è fuffa o estremizzazione? A me interessa la riflessione sul potere. In un tweet ho scritto “Il Potente è colui che durante il giorno esercita il potere in purezza e al calar delle tenebre si fa sopraffare dall’impudicizia”».

Torniamo all’editoria e al «Libroincipit».

«Qualsiasi idea consta di due fasi, la visione e l’execution, la realizzazione. In questo caso la visione è cambiare il processo editoriale dei libri, ripensando la filiera editore autore lettore. Oggi tutti i costi sono a carico dell’editore che si deve avvalere di editor, grafici, informatici e di una serie di strutture che valutino il ritorno economico del prodotto. I grandi editori che hanno assorbito i marchi minori e gestiscono le due maggiori catene distributive controllano la filiera completa. Ma il cuore se l’è preso Amazon, che sta cambiando radicalmente il mercato».

Cosa può fare il «Libroincipit»? E qual è la sua execution?

«Cambiare il libro e il modo di produrlo. Se vogliamo che sia letto e non solo pubblicato dobbiamo fare in modo che non richieda più di mezz’ora del nostro tempo».

Perché?

«Trenta minuti sono il tempo standard di tutte le attività umane 2.0, dal sesso al cibo, dal parto col cesareo al morire con l’eutanasia olandese, alla messa domenicale. Mezz’ora è il tempo di lettura di 30.000 battute, in pratica un lungo incipit. E in 30.000 battute si può dire tutto. Esempio: sulla filosofia di Amazon avrei potuto scrivere 600 pagine, ma chi le avrebbe lette?».

Come fa l’autore a diventare editore?

«Il più penalizzato dal mutamento del mercato è l’autore. Ognuno di noi lo è potenzialmente. Molti giornalisti, accademici, persone comuni sognano di pubblicare un libro perché è una grande soddisfazione per chi vive di lettura e scrittura. Ma la corte degli autori di regime monopolizza la fascia dei lettori abituali, una fetta che va riducendosi. Per questo bisogna trasformare l’autore in editore a basso costo e per questo io metto a disposizione Grantorino».

In che modo?

«Non avendo scopo di lucro, posso fornire il protocollo del format “Libroincipit”, la competenza editoriale, marchio compreso, grafici e informatici per la versione digitale e stampatore per quella cartacea. In cambio chiedo solo un fee, un piccolo canone per l’affitto del know how di Grantorino. Inoltre, metto a disposizione la piattaforma di Zafferano con i suoi 15.000 abbonati ai quali far conoscere la pubblicazione. Infine, l’autore può andare autonomamente dai grandi distributori o gestire un proprio mercato e l’incasso è tutto suo. Non ci sono percentuali di diritti e costi superflui».

Che differenza c’è rispetto agli editori che già pubblicano a pagamento?

«Gli editori a pagamento vivono sugli “autori a proprie spese” che Eco chiamava la “vanity press”. Alla base c’è un accordo a pubblicare un certo numero di copie a spese dell’autore. L’editore stampa giusto quelle e si prende anche i soldi dell’autore, che però appaga la propria vanità vedendo pubblicato il suo libro. Io invece cedo le facility dell’editore e se il libro vale l’utile è tutto dell’autore».

Sparisce la disintermediazione degli editori com’è avvenuto con i social network e il giornalismo professionistico?

«In un certo senso uccido l’editore per salvare l’autore. Trasformandolo in editore, lo rendo protagonista. Puntando sulla logistica, Amazon fa il contrario e ci trasforma in consumatori. Tra qualche anno ci porteranno anche il cibo e vivremo stesi sul divano di cittadinanza».

Da disoccupati retribuiti?

«Ma sempre più sudditi di Jeff Bezos, il più intelligente dei tycoon della Silicon valley».

Perché?

«Perché ha capito che se al posto del prodotto metti al centro il processo, cioè la logistica puoi dominare il sistema. Amazon è avviato a diventare uno dei grandi monopoli mondiali. Non a caso sta entrando nel cinema e nella tv, settori apparentemente lontani. Presto sarà nel sistema bancario perché conosce lo stato patrimoniale di tutti i suoi clienti. È il più grande negozio virtuale del mondo, costruito sull’abbattimento dei costi. Adesso Bezos va sulla luna. Estremizzando, si può dire che il vero presidente dell’Occidente è lui».

Cosa vuol dire, come scrive, che la sua aspirazione non è la ricchezza, ma un mondo a immagine e somiglianza di Amazon?

«Per esempio, che negli Stati uniti sta investendo cifre importanti sugli asili».

Perché?

«Sull’immediato ci rimette, ma ridisegna il metodo educativo. Va nelle periferie più scalcinate e finanzia un asilo per avere gente adatta a quella che chiamo “atmosfera Amazon” o addirittura “stile di vita Amazon”. Partendo dai giochi la vita diventa un grande negozio. Dalla culla alla tomba, come si diceva del sistema svedese, Bezos lo applica sul serio. Ha investito miliardi di dollari su qualcosa che appare marginale, ma in termini strategici non lo è».

Scrive che Amazon è la nostra nuova Bibbia laica: dobbiamo rassegnarci?

«Io non lo faccio. Intanto, cominciamo a conoscere il sistema di cui si decantano meraviglie perché ti consegna un libro in 24 ore. Mi chiedo: salvo casi eccezionali, che bisogno c’è di avere un libro in 24 ore? Non è mica una medicina. È un processo che non accetto, devo poter scegliere. Con Amazon sono totalmente dipendente come lo erano gli imperatori romani dal cavallo che gli portava i dispacci di guerra. Se si azzoppava il cavallo, perdeva la guerra. Noi però non siamo in guerra. Per questo ho creato Grantorino libri e Zafferano».

Come spazi di libertà?

«Non producendo utili, rifiutando la pubblicità che mi viene costantemente offerta, siamo indipendenti dall’Agenzia delle entrate e non facendo politica politicante indipendenti anche dalla magistratura».

Perché affida questo progetto alle sue nipoti come il chiostro nel quale resistere al Ceo capitalism?

«I miei figli e le mie nuore si dedicano all’azienda di famiglia. Alle mie nipoti non costerà niente e non ci guadagneranno niente. Non sono creature concepite per il business, ma per una forma di resistenza, uno spazio di libertà. Prima di dormire esco sul terrazzo e guardo le stelle o quando mi alzo al mattino e vado a guardare le erbe aromatiche e officinali. Con questo modello di vita mi posso permettere dei privilegi intellettuali ormai rari».

Per questo vive in Svizzera?

«È un’altra scelta d’indipendenza. Premesso che è trent’anni che vivo all’estero, amante feroce della libertà, senza ismi, considero solo la Svizzera e Israele gli ultimi due “chiostri” di libertà. Stare qui vuol dire stare in un luogo tranquillo, dal quale si vede il mondo come da un balcone fiorito. Modalità ottima per chi ha il privilegio di riflettere e di scrivere».

 

La Verità, 2 ottobre 2021

«Titanic Italia? No, vedo un lento decadimento»

Professore, in Italia si può cambiare posizione politica senza essere etichettati come traditori? «Sì, si può a due condizioni. La prima è che non si traggano vantaggi personali dal proprio cambiamento, perché allora sarebbe un cambiamento tacciabile di opportunismo. La seconda è che si spieghino le ragioni del proprio mutamento». Qualche mese fa Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista principe del Corriere della Sera, autore di interventi di grande lucidità sul momento della nostra Italia, ha mandato in libreria per Il Mulino un saggio intitolato Credere, tradire, vivere. È un’articolata riflessione, in parte autobiografica, che prende le mosse dalla parabola vissuta dalla generazione protagonista del ’68, nella quale molti, lui tra questi, dopo aver idealmente ucciso i padri sostituendoli con nuovi maestri, sono rimasti delusi dalle loro lezioni, oltre che dagli eventi della storia, e hanno deciso di allontanarsi dalle rive della sinistra comunista, chi avvicinandosi alla fede, chi scegliendo altre appartenenze.

In questi giorni Galli della Loggia sta invece preparando l’introduzione a un nuovo saggio in uscita da Marsilio che si concentrerà sugli ultimi vent’anni, per analizzare la crisi delle identità politiche e ideologiche, le nuove emergenze sociali, etiche e ambientali, la perdita dei legami tradizionali.

Da qualche tempo stiamo assistendo all’avverarsi della profezia del filosofo Augusto Del Noce che sosteneva che il vecchio Pci si sarebbe trasformato in un «partito radicale di massa». Sembra anche a lei che oggi la sinistra persegua traguardi di natura etica più che di equità sociale?

«È ciò che sta avvenendo. Ma va detto che, all’epoca, a Del Noce potevano sfuggire alcuni aspetti dell’evoluzione sociale italiana. Oggi non ci sono più gli operai e per i partiti di sinistra votano pensionati, professoresse della Cgil, strati dei ceti medi. Tuttavia, quel che resta del Pd mantiene un minimo collante sociale. Se dovessimo cercare una profezia sulla destra non sapremmo a chi rivolgerci. L’idea di rappresentare il popolo delle partite Iva si è rivelata un’illusione. La destra ha un elettorato, ma non sa esattamente quale sia».

Il filosofo Augusto Del Noce

Il filosofo Augusto Del Noce

Forse perché non ha più un partito perno come qualche anno fa?

«Credo che la causa principale sia la mancanza di argomenti. Oltre l’idiosincrasia nei confronti degli immigrati non riesce ad andare. Anche la promessa di abbassare le tasse è illusoria finché persiste questo mostruoso debito pubblico».

La nuova emergenza sono i temi etici: eutanasia, nuove genitorialità, uguaglianza a tutti i livelli delle coppie dello stesso sesso. Il pensiero unico che sostiene l’emergenza etica è il politicamente corretto?

«Il politicamente corretto è un’ideologia che riguarda una minoranza della popolazione. Forse un milione di persone tra addetti alla comunicazione, intellettuali, strati colti. Dopo il caso del ristoratore di Lodi, ho visto un servizio in tv su una sezione del Pd di Bologna. Bene, gli iscritti erano tutti a favore della libertà di sparare per difendersi. Un’opinione che non differiva in nulla dalle posizioni leghiste. Per il resto, sì: il politicamente corretto è la nostra ideologia ufficiale, non lo è in Francia e Gran Bretagna. Italia e Germania sono politicamente corrette perché devono farsi perdonare il loro passato scorretto».

Non trova che su questi temi il punto di vista dei cattolici sia sottorappresentato?

«I temi etici non possono essere presi in blocco. Anche la Chiesa concorda con la necessità di ridurre l’accanimento terapeutico. Tutt’altra faccenda è l’utero in affitto, una mostruosità che va avversata e punita. Come mostruosa è stata la sentenza di quel tribunale che ha tolto la figlia ai genitori perché ritenuti troppo anziani».

In tema di adozione per le coppie omosessuali i nostri tribunali sono sordi al pronunciamento della Corte di Strasburgo che ha stabilito la necessità di un legame biologico.

«La nostra magistratura opera con l’idea di tutelare i diritti, sostituendosi ai legislatori. È una scimmiottatura del diritto anglosassone per il quale il giudice, anziché applicare la legge come prescrive il diritto romano, difende e instaura dei diritti in modo creativo. Agli intellettuali e ai giornalisti bisognerebbe aggiungere i giudici tra le categorie politicamente corrette».

A destra sembra che si pensi che la risposta al correttismo siano i modi spicci, un certo massimalismo negli argomenti, anziché il discernimento. Concorda?

«Al tuo partito preso contrappongo il mio. L’importante è non affrontare il merito delle questioni. I talk show sono la messa in scena di questi radicalismi simmetrici utili a innalzare gli ascolti. La destra non riesce a organizzare una proposta che vada oltre il rifiuto degli immigrati e il rifiuto delle tasse. Questo la candida a essere votata solo come anti sinistra, non come portatrice di un discorso propositivo autonomo».

Possono essere i populismi la risposta al politicamente corretto?

«Non mi convince il modo in cui viene usata questa parola. Essendo governo del popolo ogni democrazia è in un certo senso populista. È questione di misura, certo. La xenofobia, l’isteria anti islamica e il nazionalismo sono sbagliati. Anche l’uso del termine sovranismo va precisato. La nostra Costituzione dice che la sovranità appartiene al popolo. Da parte leghista si tende a confonderla con la difesa dei confini. La sinistra manifesta disprezzo per i cosiddetti sovranisti, ma quando difende la nostra autonomia dalle ingerenze di Bruxelles, il governo di sinistra si mostra sovranista, e giustamente. In generale, la gente desidera essere padrona a casa propria e governata da persone che parlino la propria lingua. Non mi sembrano esigenze antidemocratiche».

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg

Che cosa pensa dell’affinità elettiva tra il renzismo e i marchi della new technology?

«Parlerei di innamoramento culturale. I grandi marchi americani hanno visto in Renzi il loro portabandiera in Europa. Ma il recente viaggio in California dell’ex premier è sembrato la gita di un ragazzo di Firenze. Che i vari Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e George Soros siano i profeti del futuro è una favola che fa sorridere. Come fa sorridere questa ideologia universalistica in cui siamo tutti pacifisti, animalisti, vegani, propugnatori delle nuove genitorialità e degli uteri in affitto, un po’ new age, il cristianesimo ci fa schifo… È una poltiglia buonista che nasconde certi inferni che si vivono nel mondo. A cominciare da quello delle miniere del Congo, dove in condizioni di schiavitù, si estrae il silicio che arricchisce i big della Silicon Valley. E sul quale il nostro ex premier dovrebbe avere informazioni sufficienti».

Tra ideologia del politicamente corretto da una parte e popolazione poco ascoltata dall’altra che ruolo può avere la Chiesa di papa Francesco?

«Avendo radici sudamericane, Bergoglio non ha lo stesso rapporto drammatico con il Vecchio Continente che aveva il tedesco Ratzinger. In Europa, che crede ormai scristianizzata, Francesco si fa portavoce delle istanze dei poveri del mondo. Le origini sudamericane si notano anche nella critica al capitalismo di sapore anti yankee».

Sui temi etici però sembra allineato con la cultura di Obama…

«Ha scelto una posizione non contrappositiva. Dobbiamo ricordarci che Bergoglio è un gesuita e i gesuiti sono maestri del “caso per caso”. Francesco applica questo spirito gesuitico, non inquisitoriale. Con la possibilità che alla fine risulti vincente nel dialogo con parti importanti della società. La Chiesa ha uno sguardo più lungo, ragiona con i secoli. I cattolici tradizionalisti dovrebbero leggere più libri di storia e riflettere sulla sconfitta del Risorgimento, in cui si è visto che contrapporsi alla modernità e ai valori liberali può essere catastrofico».

A volte certe espressioni di papa Francesco lasciano perplessi.

«Perché parla spesso a braccio. “Chi sono io per giudicare” ha messo in discussione secoli di magistero. Se la sua apertura al dialogo e la sottolineatura della centralità delle periferie porteranno a un concordato con la Cina e il suo miliardo e mezzo di abitanti, avrà avuto ragione lui. Capisco che una parte dei cattolici europei sia in imbarazzo, ma dobbiamo ricordare che la partita si gioca nel mondo intero».

Papa Francesco in una sua tipica espressione

Papa Francesco in una sua tipica espressione

Proviamo a proiettarci nel futuro. Come vede quello di Renzi?

«Ci vorrebbe la sfera di cristallo. Se il 30 aprile vincerà le primarie, avrà davanti la sfida più difficile. Cioè, superata la salita del Pd ne troverà una più ripida. Mi chiedo: alle prossime elezioni il candidato sarà lui o Gentiloni? Infine, bisognerà prendere un voto in più del M5s».

Berlusconi riuscirà a ricompattare il centrodestra?

«Berlusconi è un genio della comunicazione. Con la foto al McDonald’s nella quale leggeva con attenzione il menù, ha parlato a chi frequenta i fast food, agli investitori pubblicitari, a chi guarda la tv. Berlusconi conosce il suo pubblico, ma non sempre il pubblico vota per lui. Però a destra non si vede nessuno che possa essere suo concorrente. Nonostante gli sconfinamenti a Napoli, un leader nazionale non parla come Salvini».

Moriremo grillini?

«Tutto sembra convergere in quella direzione. Anche se in Italia ci sono sempre le intercettazioni…».

Cosa vuol dire?

«Che ci sono tante incognite».

Che cosa pensa dello scambio di favori tra Pd e Forza Italia nel voto sulla mozione di sfiducia al ministro Lotti e per la decadenza da senatore di Augusto Minzolini?

«È evidente che il Pd e Forza Italia sono destinati a governare insieme. Le alleanze si costruiscono anche così, non mi scandalizzo. Detto questo, c’è una faziosità nella politica italiana che spesso impedisce una riflessione approfondita. I grillini non applicano lo stesso criterio quando le indagini riguardano qualche loro esponente. Lotti era in una situazione oggettivamente complicata e anche se non è automatico che scattino sempre le richieste di dimissioni, credo che avrebbe fatto bene a fare un passo indietro. Come in passato fecero i ministri Annamaria Cancellieri, Federica Guidi e Maurizio Lupi».

Ci sono margini di ripresa per il nostro Paese?

«Sono pessimista».

Titanic Italia?

«Non vedo un iceberg, ma una decadenza progressiva. Stiamo già uscendo dal gruppetto di testa delle potenze mondiali in cui pensavamo di stare per diritto. I nostri marchi storici sono preda degli stranieri. Nessuno si occupa dell’assetto idrogeologico del Paese che sta fisicamente sgretolandosi. Ponti, argini…».

 

La Verità, 19 marzo 2017