«Ho bisogno di solitudine, ma voglio essere amato»
Una casa piena di libri e solitudine. Piena di amici che non ci sono più. Goffredo Parise, Giovanni Comisso, il cugino Pier Paolo Pasolini. Nico Naldini abita nella prima periferia di Treviso, dove si ritirò una quarantina d’anni fa per lavorare alla biografia di Comisso, abbandonando le luci di Cinecittà dopo la tragica morte di PPP e scegliendo di proposito le ombre della provincia letteraria.
Vive qui, in compagnia dei suoi 91 anni spericolati e della personalissima ricerca del tempo perduto, in bilico tra autoironia e amarezza. Questa solitudine incolmabile fa venire alla mente «il desiderio di essere amato» di Michel Houellebecq «e la riflessione» che non può «farci niente».
È pronto?
«Non voglio essere pronto».
Come sta Nico Naldini?
«È un argomento che non voglio affrontare. I miei amici sono tutti morti».
Novant’anni in questa casa, tre stanze e un piccolo giardino.
«In questa casa… uguale a tutte le altre case. A ogni anfratto, a ogni cloaca, a ogni caverna del mondo».
Chi è Nico Naldini?
«Non so chi è. Non facciamo diatribe, mi ripugna sapere chi è».
Un poeta, un artista, uno sceneggiatore, uno scrittore, un grande biografo?
«Posso essere classificato in tutti questi modi. Però l’unica mia vera ambizione è scrivere tre versi che siano tre. Come faceva il mio amico Sandro Penna».
La sua vera ambizione è la poesia?
«Non è un’ambizione, è uno stato esistenziale, il fondo di ogni atto e di ogni pensiero. Qualcosa che dovrebbe reagire e sentire che ce l’ha fatta».
Uno stato esistenziale profondo che ce l’ha fatta ad affiorare in versi?
«Non ogni stato esistenziale può essere rappresentato da tre versi».
È soddisfatto della sua produzione poetica?
«Neanche per idea, neanche per sogno. Ogni tanto mi sveglio di notte e dico a me stesso: che cazzate».
Turbe degli artisti sempre insoddisfatti?
«Sono categorie alle quali non appartengo».
«Era un’esagerazione, una cosa provocatoria. Pasolini l’ha detto dopo cinquant’anni che abbiamo vissuto insieme… Improvvisamente si era accorto che ero troppo timido? Lo diceva per polemizzare con altri poeti».
Era una provocazione affettuosa verso di lei?
«Più affettuosa di così. Pensando in quali bolge infernali mi ha fatto entrare era il minimo che doveva dire».
Bolge infernali?
«Le bolge infernali sono bolge infernali. C’è un grande poema che si occupa di loro».
È un po’ reticente, me ne descriva una o teme le vendette di qualche attore o regista?
«Si figuri se mi faccio intimidire dal mondo del cinema. La realtà è il contrario di ciò che diceva Pasolini con quella battuta. Ero io a seguire lui per proteggerlo piuttosto che lui proteggere me».
La sua è una vecchiaia proustiana come fanno intendere L’alfabeto degli amici (L’Ancora del Mediterraneo, 2004) e Il treno del buon appetito?
«Dati i miei novant’anni, la mia generazione non può non essere proustiana se vuol essere qualcosa di diverso dalla volgarità, dall’abitudine a credere che si possa cavarsela facilmente. Aggiungendo una parolina dopo l’altra, ecco, ho fatto tutto. Invece, poi, dalla lettura di Marcel Proust, che è un castigamatti della letteratura, si viene fuori tutti frustati a sangue».
Frustati a sangue?
«Sotto ogni cosa, qualsiasi essa sia, un etto di caramelle o un chilo di patate, uno può sprofondare e ricavare impressioni o dati di fatto. Questo è l’insegnamento di Proust».
È la sua capacità analitica?
«Più che questo, ogni sua frase ti assesta un pugno».
Perché è in gioco quello stato esistenziale, il mistero che abbiamo dentro?
«Perché questo mistero Proust lo sbatte fuori; motivo per cui bisogna leggerlo recitandolo».
Perché un libro come Il treno del buon appetito è rimasto di nicchia?
«A dire il vero è stato recentemente ripubblicato con mia soddisfazione. Comunque sì, non è certo un libro di grande diffusione… perché si scansa dalle soluzioni facili. Ma paradossalmente ne sceglie una ancora più facile, che ha dentro il mistero della sua nascita. Bisogna pensarci molto, perché ogni cosa che dici, anche “buonasera signore”, ha un suo contenuto. A volte ci si adagia su frasi fatte. Ma se io dico “buonasera signore”, può darsi che questa espressione contenga anche la sua contraddizione».
Scrive che non ha «mai appartenuto né al vittimismo né all’orgoglio omosessuale»: che cosa ne pensa?
«Per me l’omosessualità è stata forse soprattutto una facile uscita dalla guerra. Il vittimismo l’ho citato così. Anche la vanità omosessuale per me è incredibile. È qualcosa di spregevole, perché trasforma un problema serio e antico come il mondo in una modernità imbecille».
La messinscena un po’ carnevalesca dei gay pride?
«Massì, anche quel bresciano, Aldo Busi. Tanti hanno un gran successo, ma poi spariscono».
Ce ne fossero come Busi, con il suo travaglio…
«Forse dico cose inesatte a causa della mia ignoranza. Se vogliamo chiudere il discorso sull’omosessualità dobbiamo prendere in esame la produzione di Aldo Palazzeschi e naturalmente Sandro Penna. E anche se vogliamo chiudere il discorso su Proust: è nelle biografie di Giovanni Comisso, Filippo De Pisis, Penna e Pasolini che mi avvicino di più al mondo proustiano».
Che cos’è per lei scrivere?
«Che domanda… Scrivere qualcosa che non sia una lettera alla mia cameriera è il bisogno di raccontare qualcosa di sé stessi che non era noto, non era alla portata di chiunque. Rivelarlo, rivelandosi».
E riguardo a sé?
«È esattamente questo. Degli altri non m’importa niente, son felice se dicono: “Che bello…”. Ma in realtà non m’interessa».
La sua è una solitudine amara?
«È una solitudine nella quale precisare i termini della propria esistenza. Precisare i termini e le possibili fughe dall’esistenza».
È un’espressione un po’ inquietante.
«Siamo qua, mi prenda a schiaffi se vuole. La solitudine è uno stato assolutamente necessario a me stesso. Non potrei convivere con qualcuno, un Adone o un Antinoo… Tornerei a vivere da solo».
Secondo l’insegnamento di Montaigne: «Abbiamo vissuto abbastanza per gli altri, viviamo per noi almeno quest’ultimo resto di vita»?
«Montaigne aveva una biblioteca meravigliosa e ha fatto rinascere molta parte della cultura classica».
Quella citazione significa che anche lei è geloso della sua solitudine?
«Ça va sans dire. La custodisco come qualcosa d’indispensabile».
Una solitudine orgogliosa?
«Una solitudine che qualcuno spero capisca e la concili con me, cioè le dia il senso che voglio io».
Può esistere un nostro simile che la capisca così?
«La solitudine si trova in tantissimi poeti, artisti, scrittori. Pensi a Caravaggio, per me grande come Proust. Anzi no, come Rimbaud. Caravaggio è il mio Rimbaud».
Però la pittura di Caravaggio esprimeva qualcosa di preciso.
«No, per carità. Non entriamo nel merito, lui era un gran teppista, io non sono un teppista come lui. Di fronte a Caravaggio mi metto in ginocchio e sto in silenzio».
Non vuole seguirmi?
«Non posso seguirla. Uno stronzo come me che parla di Caravaggio…».
Nella letteratura chi apprezza?
«Carlo Emilio Gadda riempie tutto. Poi, senza essere grande come lui, Alberto Moravia. E l’autore del Giardino dei Finzi Contini, come si chiama… Giorgio Bassani. Giovanni Comisso copre tutto».
I contemporanei?
«Non li leggo, sono un vecchio di 91 anni, penso di poterne fare a meno».
Chi è l’intellettuale cui è rimasto più affezionato?
«Sono morti tutti i miei amici, ho poco da scegliere».
Nel ricordo, quello che ritorna nelle sue madeleine?
«Più che un ricordo ammirato, il mio è un ricordo di malinconia e di disperazione. Il vuoto che mi hanno lasciato Goffredo Parise e gli altri mi imprigiona nella sua assolutezza. In questa assolutezza cerco di trovare degli elementi vivi canti».
In un’intervista, a una domanda simile, ha nominato Federico Fellini.
«Forse l’avrò detto come frase fatta. Fellini non lasciava impressioni su nessuno perché se le teneva per sé, quel vecchio porco. Non scriva vecchio porco…».
Detta da lei è un’espressione affettuosa.
«Gli ho fatto da ruffiano per tanto tempo. Giulietta Masina mi voleva bene perché sapeva che quando usciva con me poteva stare tranquilla. Divenne anche madrina del premio Comisso e ci veniva volentieri, con Fellini. No, non era un vecchio porco… Avrebbe desiderato esserlo, si metteva in situazioni in cui il porco si esprime con una pacca sul culo di qualcuna, ma poi le cose finivano così. Non aveva una reale sessualità. In tre o quattro volte che siamo usciti insieme l’ho visto una sola volta scopare… Scopare… Chissà».
Parlando di Parise, cita il suo suggerimento: «Niente eccessi di zelo». Negli ultimi suoi anni abitavate vicini, ma non vi siete frequentati.
«È una storia lunga, che non ho ancora capito. Non ho capito perché a un certo punto ha cominciato ad avercela con me. Saranno state le donne? In realtà, non credo potessero avere così tanta influenza. Parise era così, amava tanto qualcuno e qualcosa per poi improvvisamente rifiutarlo. Si annoiava. Ma non mi sarei aspettato di essere buttato nel cestino. Tanto che un giorno, venne a trovarmi qui a Treviso: “Basta, basta, torniamo amici, vieni a cena a casa mia a Ponte di Piave”. E io, un po’ da checca vendicativa, gli ho risposto di no, “Vengo un’altra volta”. Mi aveva molto turbato il suo cambio di comportamento, perché lui e Dacia Maraini avevano presentato al Premio Strega la mia Vita di Giovanni Comisso con la quale arrivai secondo. Pensavo che quel risultato fosse anche merito suo ed ero pieno di gratitudine. In quel momento scattò in lui il rifiuto».
Il sentimento dominante delle amicizie con Parise, Comisso e lo stesso Pasolini è l’incompiutezza?
«Sarei pronto a dire di sì se ci fosse stata. Sono stati rapporti profondi. Ho reso felice Comisso negli ultimi giorni della sua vita».
Il treno del buon appetito narra numerosi rapporti più o meno passeggeri, ma si legge poco o forse mai la parola amore: sbaglio?
«Non sbaglia. Si può pronunciare la parola amore dopo aver fatto ben altre esperienze che quelle che racconto lì. Soprattutto dopo aver sentito la sofferenza dell’amore. Comunque, per me questo libro è di secondaria importanza, quelli veri sono le biografie di Comisso e di De Pisis».
E di Pasolini.
«Quella non la cito per pudore. Grazia Cherchi mi considerava un grande biografo. Per scrivere una biografia vera bisogna perdere mezza vita. Ora non lo farei più. Farei una biografia di me».
Un’autobiografia, vuol dire?
«No, una biografia di me».
La differenza?
«L’autobiografia è un genere, peraltro di moda, che ha le sue formule e i suoi schemi. Una biografia di me significa che dovrei dire chi cazzo sono io».
Siamo tornati alla domanda di partenza: chi è Nico Naldini?
«Ce ne sono tanti. Ognuno di noi si moltiplica in tanti ego. È anche un fatto di vanità. Per cui è impossibile… Dire chi sono sarebbe un lavoro immane».
Niente autobiografia e biografia di sé a sua firma, ma qualcuno dovrà pur scriverla…
«Quando sono arrivato a Treviso, per documentarmi su Comisso, la prima persona che ho conosciuto è stato Nicola De Cilia. Abbiamo trascorso lunghe serate durante le quali gli ho raccontato quello che potevo».
La scriverà lui?
«No, perché è eterosessuale. L’omosessualità è una cosa che ha un suo intimo labirinto. È essa stessa un labirinto. E non vedo come lui possa essere il mio Teseo».
Non a caso è stato lei a scrivere le biografie di Comisso, Pasolini, De Pisis, Penna, tutti omosessuali. Chi scriverà la sua?
«Nessuno, mi auguro. Perché chiunque volesse provarci, rischierebbe di perdersi nel mio labirinto».
Come trascorre le giornate?
«Guardo documentari della Rai, i testi sono molto belli».
Riesce ancora a leggere?
«Poco, mi stanco presto. Rileggo le Lettere dal Ponto, ma non solo. Ovidio è il mio autore».
In Lettere dal Ponto chiede di essere perdonato e riammesso alla corte di Augusto.
«Non si può dire per cosa chiede perdono perché non si capisce il motivo per cui è stato mandato in esilio. Si sa che cos’è il carmen, ma l’error no: perché ha avuto varie interpretazioni nel corso dei secoli».
Ma lei per che cosa vorrebbe essere perdonato e da chi?
«La mia ammirazione per Ovidio è estetica e basta. Personalmente, non ho niente da farmi perdonare. E da chi? Sì, qualche volta penso a mia mamma e vorrei che me lo chiedesse lei».
Vorrebbe essere perdonato da lei?
«Vorrei che me lo chiedesse lei, solo a lei avrei permesso una simile domanda. Le avrei risposto che non ho nulla di cui discolparmi. Non sto rispondendo a lei, è sempre un colloquio con mia madre».
Qualche giorno fa ho pensato a lei quando ho letto questa riflessione di Michel Houellebecq: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».
«Condivido totalmente. È un discorso lungo e complicato, che però non voglio fare. Anch’io ho il desiderio di essere amato».
Nico Naldini è morto il 9 settembre scorso. Questa intervista inedita è contenuta in Fabula veneta (Apogeo editore), dal 14 settembre in libreria