«Chiedi chi era Etty Hillesum morta nel lager»

In una foto scattata qualche anno fa da Giuseppe Pino ed esposta nella sua casa a due passi dal Corriere della Sera per il quale ha scritto una vita, Edgarda Ferri somiglia a Audrey Hepburn. Eppure sul web circola un testo in cui scrive: «A sedici anni volevo essere bionda e provocante come Brigitte Bardot». Niente di più distante. Oggi Edgarda Ferri è un’elegante signora dai capelli bianchi e lo sguardo brillante come l’intelligenza di certe ragazze interpretate da Audrey Hepburn nei film di Blake Edwards e William Wyler. Per lavoro ha viaggiato, letto e scritto. Attualmente collabora con La Repubblica. È autrice, tra numerose altre pubblicazioni, di biografie di donne importanti, da Giovanna la pazza a Caterina da Siena, da Matilde di Canossa a Letizia Bonaparte. L’ultima, appena uscita per La nave di Teseo e intitolata Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore, è dedicata a Etty Hillesum, giovane donna ebrea e figura di culto non solo in ambienti cattolici. Durante la guerra, Etty andò spontaneamente nel campo di transito olandese di Westerbork dove, prima di essere trasferita ad Auschwitz e morirvi men che trentenne, tenne dei folgoranti diari.

Allora, signora Ferri, ho letto su internet che a 16 anni voleva essere bionda e provocante come Brigitte Bardot.

«È un testo inventatissimo, nel quale è sbagliata persino la data di nascita. Dovrei andare da un avvocato per farlo cancellare, ma sono distratta su ciò che mi riguarda. In realtà, volevo diventare bianca come mia madre e mia nonna. Per noi i capelli bianchi sono un segno distintivo».

Edgarda Ferri in uno scatto di Giuseppe Pino

Edgarda Ferri in uno scatto di Giuseppe Pino

Anche lei vittima delle fake news. Come isolare i vantaggi della rivoluzione digitale tralasciandone gli effetti collaterali?

«Lo so che ci sono dei vantaggi, ma mi fanno orrore gli svantaggi, come il fatto di mettere in piazza tutto. Mi chiedo perché certe cose vanno in giro? Non è la macchina che lo fa. È l’uomo che si fotografa davanti a un piatto di pasta, o mentre sgozza un povero innocente. Sono i bulli che postano un compagno di scuola che infila la testa di un altro nella tazza del water».

Perché ha scritto tante biografie, soprattutto di donne?

«Perché le ho sempre lette con passione. Mio padre ne aveva un’intera biblioteca: Otto von Bismark, Klemens von Metternich, Francesco Giuseppe. Io andavo a cercare le donne. All’inizio mi sono dedicata alla saggistica. Ho scritto Il perdono e la memoria, mi ha sempre incuriosito il tema del perdono. Andai a trovare una donna che nella strage di Bologna aveva perso marito, figlia, nuora e nipotini. Era una pollivendola di Como che si era fatta suora di clausura. Le ho parlato attraverso la grata. Un’altra era sopravvissuta all’eccidio di Marzabotto sotto una montagna di morti. Aveva 11 anni. Quando il comune di Marzabotto indisse un referendum per uno sconto di pena a Walter Reder, votò sì solo lei. Scoprii che era anticlericale, atea e comunista. E che aveva perdonato per stanchezza. Poi mi sono dedicata alle donne che hanno a che fare con il potere».

Etty Hillesum però no. Perché l’ha scelta?

«Mi chiedevo quale storia ci fosse dietro quegli aggrovigliati diari. Volevo conoscere questa ragazza che si era prefissa di testimoniare la vita dentro il campo di Westerbork e che, prima di partire “per la Polonia”, non sapendo che la meta era Auschwitz, aveva consegnato le sue riflessioni a un’amica. Per documentare non solo le vessazioni dei nazisti, ma anche i soprusi e la corruzione nella comunità ebraica».

Come ci ha lavorato?

«Sono andata ad Amsterdam. Ho fatto le sue strade e contato i suoi passi. Recuperato fotografie, pezzi di diario, lo spartito del fratello con i disegni. Purtroppo non ho potuto entrare nella casa di piazza Rijksmuseum. Dove c’è una targa e vive una coppia che non apre mai perché è stanca di mostrare la casa. Ma grazie a due ragazzi italiani che hanno una pizzeria e abitano nello stesso edificio ho potuto vedere da sopra il terrazzino, l’albero…».

Che cosa le piace di Etty Hillesum?

«La vivacità e l’amore per la vita. Muore giovane, ma la sua è una storia vitale. È andata a Westerbork per condividere il destino del suo popolo. È una ragazza che sta in piedi nonostante tutto quel che le accade: la malattia, la morte di uno degli uomini più amati, la deportazione della famiglia. Tutto ha sempre una rivincita. Quando muore Julien Spier, colui che le apre gli occhi sulla tragedia e che la conduce verso un percorso ignoto, afferma che, entrando nella sua stanza ha dovuto fare l’espressione di circostanza perché il suo istinto sarebbe stato di dire che “la vita è bella, nonostante tutto”».

Oggi si parlerebbe di resilienza.

«Resilienza e resistenza. Ogni martedì partivano i convogli per Auschwitz e anche lei viveva nella paura. Si chiedeva come aiutare chi era nella lista dei partenti. “Fino a che punto si può resistere a questo dolore”, scriveva. “Posso solo sedermi al loro fianco, a volte anche una mano sulla spalla può essere pesante”».

Etty Hillesum mostra che c’è più vita nella nostra interiorità che fuori.

«Prima di partire anche lei decide di liberarsi delle cose che ha. Lo zaino può contenere poco, meglio un libro che un maglione. Straccia le lettere e le fotografie dei suoi cari e scrive: “Li ho già appesi alle pareti del mio cuore”».

Etty Hillesum morì a 29 anni ad Auschwitz

Etty Hillesum morì a 29 anni ad Auschwitz

Ha un ampio club di cultori, dall’Associazione Vidas, che assiste malati terminali, al professor Eugenio Borgna, alla scrittrice Marina Corradi. Che cosa dice Etty Hillesum al nostro tempo?

«Borgna mi ha scritto una lettera struggente per questo libro. Marina è figlia di Egisto Corradi, grande inviato e scrittore, oltre che amico. Ci sono molti gruppi di studio su Etty, cattolici più che ebrei. Anche se non è una figura catalogabile, il suo senso del perdono è profondamente cristiano. Etty perdona non perché è buona, ma perché s’immedesima nell’altro. Di fronte a un giovane soldato che la maltratta si domanda che storia abbia, se ci sia della sofferenza dietro l’apparente rigidezza. Nella religione ebraica il perdono non esiste. Solo Gesù perdona. Per noi uomini non è facile, vorrei raccontarle un fatto».

Prego.

«Lavoravo come inviato al Corriere d’Informazione, stesso palazzo del Corriere della Sera. Un giorno o l’altro scenderai di un piano e verrai al Corriere, mi dicevano i colleghi. Io me l’auguravo. A un certo punto alcuni di noi erano effettivamente scesi di un piano, mentre io ricevetti la lettera di licenziamento. Il giornale chiudeva. Da quel momento, per certi colleghi con i quali avevo condiviso stanze d’albergo e situazioni drammatiche divenni invisibile. Una volta sul tram incontrai Egisto Corradi, lui era già con Montanelli al Giornale, e gli confidai il dolore per l’assenza di solidarietà. Mi rispose: “Da quando ho partecipato alla ritirata di Russia e ho visto abbandonare fratelli morenti nella neve non mi meraviglio più di niente”».

Etty Hillesum si chiede se «dobbiamo odiare tutti i tedeschi?». Viene in mente Abramo che chiede a Dio se sterminerà tutta Sodoma anche se ci vivono solo dieci giusti.

«È una domanda che trovo ancora più attuale in tempi in cui abbiamo a che fare con l’islam. Siamo portati ad avere paura di tutti i musulmani, senza essere capaci di distinguere».

Per molti osservatori il germe della violenza è nel Corano.

«Già. Ma dovremmo conoscerlo meglio, anche per controbattere a chi sostiene che è una religione di pace. Nel campo di Westerbork Etty riconosceva che esistevano ebrei cattivi. Era addolorata per le liti tra ebrei olandesi ed ebrei tedeschi».

A chi le chiede le ragioni del suo «altruismo radicale» risponde: «Sì, vedi: io credo in Dio». Che Dio è quello di Etty Hillesum?

«Non un Dio di pace e d’amore, ma un Dio crudele, indifferente. Non a caso, in una lettera in cui lo chiama “Signor Dio”, scrive che lo perdona. L’amore per la vita di Etty scaturisce dalla bellezza della natura che la apre al trascendente. In questo la sento molto vicina. Quando ho intervistato l’atea Margherita Hack mi ha confidato che quando scrutava la meraviglia del firmamento anche a lei veniva la tentazione di credere. Ecco: io questa realtà la chiamo immediatamente Dio».

Però questo Dio non basta a perdonare.

«Infatti è Etty che dice a Dio: “Ti perdono”. Nel campo di concentramento si batte per difendere il pezzetto di eternità che c’è dentro ognuno di noi. E che è l’inizio della salvezza».

Dove ritrova un Dio così?

«Lo cerchiamo. Nel dolore, non certo nelle sale da ballo. Quando avverto che c’è amore vero, che non è la bontà, allora ci vedo Dio. A volte basta un gesto».

Pensa che le persone del secolo scorso siano più profonde dei millennial?

«Il millennio ha cambiato molte cose: le tecnologie, l’atteggiamento di fronte alla vita, sono aumentate le guerre. Il denaro e l’apparire vengono prima di tutto. Noi del Novecento, che avevamo nonni dell’Ottocento, ci consideriamo parte di una scia lunghissima. Non è che ho paura di confrontarmi con i millennial. Ma abbiamo linguaggi diversi. I sentimenti no, quelli sono uguali, ci sono ragazzi generosi, che hanno ancora dei valori. È il linguaggio che è diverso. Spesso, per farla breve, diciamo che la società è peggiorata. Ma dicevano così anche i nostri nonni: è la nostalgia. Vorrei vivere ancora a lungo per vedere come si mette. Spero che un giorno o l’altro arrivi un nuovo San Francesco. Certo, abbiamo già il Papa. Ma nei miei sogni vedo un giovane Francesco che cammina sulle rovine».

La Verità, 18 giugno 2017