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Favola di Natale: Il fattore umano del Milan

Massì, scriviamolo: quest’anno la favola di Natale è quella del Milan. Scriviamolo, rischiando un po’, perché poi magari la storia non sarà a lieto fine. È molto possibile, se non proprio probabile. Però scriviamolo lo stesso perché, in tempi di sofferenze e tragedie, forse la favola del Milan può alleggerirci un po’ e aiutarci a ritrovare un briciolo di leggerezza.

Qualcuno tra gli osservatori inizia ad accorgersene. Comincia a cogliere che nella parabola della squadra che un anno fa perdeva 5 a 0 in casa dell’Atalanta e ora è in testa al campionato di Serie A, c’è qualcosa di più di un mero fatto tecnico. Rileggiamo l’incipit di Luigi Garlando sulla Gazzetta dello sport dopo il successo all’ultimo respiro contro la Lazio: «Stefano Pioli ha la faccia radiosa di George Bailey quando alla fine abbraccia i suoi ragazzi a un passo dal Natale: La vita è meravigliosa! Neanche Frank Capra avrebbe immaginato un film del genere…». Sempre dopo il fischio finale di Milan-Lazio i giornalisti di Sky Calcio Show hanno chiesto al capitano Alessio Romagnoli che cosa sia scattato nella squadra che, da ingenua e fragile, si è trasformata in un gruppo mai rassegnato e dalle infinite risorse? Quale alchimia si sia instaurata tra i giocatori e l’allenatore? «C’è un’intensità nel Milan che nessun altro ha, qualcosa di antico, di poco descrivibile, che copre i limiti di giornata… Una squadra di amici», ha sintetizzato Mario Sconcerti sul Corriere della sera. Poi, certo, potrà accadere che lo scudetto lo vinceranno l’Inter o la Juventus come quasi tutti gli addetti ai lavori pronosticano. I valori tecnici alla fine non mentiranno e le rose sono di valore diverso. Il Milan, per dire, è la squadra più giovane del campionato, nonostante il trentanovenne Zlatan Ibrahimovic. Eppure è lì, per ora. Eppure ha superato mille avversità, finora. Compreso il Covid dell’allenatore, del vice e del giocatore più determinante.

La chiameremo «fattore umano» la favola di questo Milan. Un fattore nel quale Pioli ha i meriti principali. Insieme a Paolo Maldini. E anche agli altri dirigenti, compreso Zvonimir Boban che si è dimesso. Basta tornare all’inizio di questo disgraziato 2020. Poco dopo quello 0-5 patito a Bergamo, Maldini e Boban convincono l’amministratore delegato del fondo Elliott Ivan Gazidis a richiamare Ibrahimovic dal viale del tramonto dei Los Angeles Galaxy. Sarebbe arrivato da salvatore della causa. Da deus ex machina. E l’investitura avrebbe stuzzicato assai il suo considerevole ego. Nel frattempo il destino di Pioli il traghettatore è segnato. Al suo posto viene allertato Ralf Rangnick, coach teutonico circondato da un alone messianico, depositario di un calcio moderno e dogmatico. È tutto fatto. Motivo per cui il poco diplomatico Boban rilascia un’intervista dopo la quale non può che andarsene. Ma, a sorpresa, dopo il lockdown la squadra inizia a dare segnali di risveglio e il brutto anatroccolo a trasformarsi. L’assenza dei tifosi sulle tribune, la minor pressione e un clima più disteso resettano la scheda madre dell’ambiente. La cura Ibra e il nuovo modulo tattico fanno il resto. 2-0 alla Roma, 3-0 in trasferta alla Lazio, vittoria in rimonta sulla Juventus, pareggio con l’Atalanta mostrando un calcio prolifico. Nel frattempo, interrogato sul suo futuro, Pioli non fa una piega, nessuna smorfia di amarezza o di orgoglio. «Io faccio il mio lavoro fino all’ultimo giorno, giochiamo una partita alla volta. Poi la società prenderà le sue decisioni». Un autocontrollo raro nel mondo del calcio (e non solo) dove, alla prima difficoltà, dirigenti e coach sono abituati a sbottare e a togliersi sassoloni dalle scarpe, magari anche maltrattando giornalisti e commentatori. Pioli vuol far parlare i risultati. E il fattore umano inizia a lasciare il segno. I giocatori sono compatti dalla sua parte. Gli osservatori cominciano a dire che meriterebbe di portare avanti il lavoro iniziato. La sera del 21 luglio (vittoria sul Sassuolo), tornando clamorosamente e meritoriamente sui suoi passi, Gazidis ufficializza la conferma dell’allenatore. Il resto è storia recente. Il Milan non perde in campionato da 26 partite e ha conquistato i sedicesimi dell’Europa League. Chi ha visto i filmati dei tifosi che hanno accompagnato il pullman allo stadio nella luce rossa dei bengala o le facce dei giocatori a fine partita inizia a capire che, dentro tutto questo, c’è qualcosa di speciale. «Giochiamo con il fuoco dentro», ha sintetizzato Pioli.

Andrà come andrà. E non è affatto detto che sarà «tutto bene» come preconizzavano i balconi del primo lockdown o come, appunto, favoleggiano i film natalizi di Capra. I valori tecnici contano e sono dalla parte di squadre che hanno investito e investono di più. E poi, tutta questa storia messa su solo per l’incornata allo scadere di Theo Hernandez. Tutto vero: pura fortuna e puri dettagli. Chissà.

Di Pioli, leader mite, si è sempre detto che con le sue squadre partiva bene ma si spegneva presto. Ora è sotto monitoraggio. La mattina del 4 marzo 2018 allenava la Fiorentina quando nella camera di un albergo di Udine dove, al pomeriggio, avrebbe dovuto sfidare l’Udinese, Davide Astori fu improvvisamente trovato senza vita. Quel giorno la Serie A fu sospesa. Pioli dice spesso che la morte di quel giocatore esemplare lo ha segnato come uomo e come allenatore. Chissà se quella tragedia c’entra qualcosa con la favola di oggi.

Il mondo di Boban: calcio, viaggi notturni, libri e fede

Una mia intervista a Zvonimir Boban del dicembre 2014 per Style, il magazine del Giornale. All’epoca Boban era uno dei «talent» di Sky Sport, «il più severo opinionista di calcio della televisione italiana», prima di diventare vicesegretario generale della Fifa presieduta da Gianni Infantino, e di essere chiamato da Paolo Maldini e Ivan Gazidis a ricoprire l’incarico di Chief Football Officer del Milan. Forse sarà un’intervista un po’ datata, ma c’erano già i viaggi notturni in auto da Zagabria a Milano e un’idea abbastanza delineata di futuro: «Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà…». Poi parlava dei suoi cinque figli, dell’amore per i libri e della sua formazione cristiana. Una chiacchierata per capire il tipo… Raro nel calcio di oggi. E non solo.

 

Zvonimir Boban arriva in jeans e chiodo nero vissuto. Ha sulle spalle 630 chilometri di autostrada, ma la cera è buona. «Sono cinque ore di guida, non mi pesano», sorride. Di lì a poco andrà in onda per commentare il posticipo di Serie A su Sky Sport Uno. Solitamente riparte la mattina dopo, sempre in macchina – «Non c’è un aereo comodo, devi andare a Malpensa, fare il check-in…». Stavolta, causa impegno di famiglia, partirà appena finito il post-partita con Ilaria d’Amico, Giorgio Porrà, Luca Marchegiani e Massimo Mauro. Altri 630 chilometri, di notte. Nella reception di Sky ogni due metri lo ferma qualche ragazzo per una foto con lo smartphone. Lui sorride e si presta. Ma per parlare ci rifugiamo nella sala longue dove, in una domenica di partite a raffica, si vedono quelle del pomeriggio.

Zvone Boban è il più severo opinionista di calcio della televisione italiana. Il più imprevedibile, diverso da tutti. Non è severo per motivi di natura tecnica, per lo stop impreciso o la diagonale fatta male. Il suo è un rigore particolare. «Prima di tutto è una libertà che mi è permessa qui dentro», dice. «Poi deriva dal fatto che non c’è tempo da perdere anche nel dare opinioni. Infine è una questione di sincerità, l’ambizione di dire sempre quello che si pensa. Credo che questi dovrebbero essere i pilastri del giornalismo. Non voglio usare parole grosse, ma credo che su queste cose si dovrebbe basare non solo il giornalismo, ma la nostra vita e anche la nostra società. Il giornalismo forte schietto maturo ci può migliorare. È quello che ho imparato quando sono stato, per quattro anni, amministratore delegato di un quotidiano sportivo in Croazia». Si potrebbe tradurre sinteticamente come guerra alla banalità. Ai luoghi comuni. Qualcuno osserva che Boban è ipercritico e non gli va bene niente. Che: tolti Pelé Maradona e Ronaldo sono tutti brocchi. «Non è vero… Desidero solo elogiare il bel gioco. Ma si ricordano più facilmente le critiche. Nel giornalismo televisivo ci sono troppi superlativi. L’errore più frequente è dispensare patenti di fuoriclasse. Non è una critica dire che invece uno è un ottimo giocatore».

Piedi per terra, realismo, niente iperboli, Boban va dritto per dritto. Il calcio di oggi è preda di «un processo di hollywoodizzazione. Basta vedere questi ragazzi. Tatuaggi, tagli di capelli improbabili, quelle recite dopo un gol. Roba da popstar. Non è neanche colpa loro. Sono più vittime che protagonisti. Ma dovrebbero saperlo le persone che gli stanno attorno. Il calcio è un riflesso della società in cui viviamo, la cultura del selfie. Lo sport non riesce a isolarsi. Le società hanno perso carisma e autorità. L’ingranaggio è spietato: allenamento, partita, interviste. Non è facile orientarsi, non si pensa troppo, non si riflette su se stessi. Anche ai miei tempi si viveva su un piedistallo, in una dimensione surreale. Poi, a carriera finita, ogni giorno è un piccolo dramma per rientrare e raggiungere gli altri nella realtà. Credo sia un buon lavoro far capire che lo sport ha dei contenuti. Che si può imparare il rispetto degli altri, la cultura della solidarietà e del sacrificio».

La vita di campo non gli manca. Ha fatto il corso da allenatore, ma non ci crede più di tanto. «Ho una famiglia numerosa, cinque figli, non posso isolarmi dalla vita che ho creato. Il calcio resta sempre il mio mondo. Rimarrò tutta la vita Boban il calciatore e ne vado orgoglioso. Magari in un ruolo manageriale potrei impegnarmi, chissà… però mi piace quello che faccio, mi piace il giornalismo. Quando ci sono eventi importanti come i mondiali scrivo su Sportske Novosti,  la Gazzetta dello sport croata. Anziché parlare con i giornalisti, scrivo direttamente io. E mi diverto».

La verità è che Zvone Boban è troppo. Ha troppi interessi, troppe passioni per limitarsi al calcio. Era ancora trequartista del Milan quando s’iscrisse alla facoltà di storia dell’Università di Zagabria. Sosteneva gli esami senza frequentare. Appesi gli scarpini si è laureato e ha preso il dottorato. Da un po’ di tempo segue letteratura comparata. «Amo i libri. Ogni libro migliora il mondo. Come si fa a stare senza libri? Leggo perché “so di non sapere”. Ho cominciato da ragazzino. Un mio zio mi regalò Il Gabbiano Jonathan Livingstone. Poi Il piccolo principe, Siddhartha», sorride. «Poi ho letto i russi, i francesi, gli italiani… E via così… Oggi sto leggendo un libro su Venezia di Predrag Matvejevic che ti porta in una dimensione diversa di questa magnifica città… Linguaggio semplice, caldo, pieno di una Venezia sorprendente».

Sulle televisioni scorrono le immagini dei match delle 18: «Bel gol», s’interrompe. «Guarda come ha colpito il pallone, ha voltato il piede perché la palla non scappasse verso l’alto… Un po’ come si fa nel tennis, quando si colpisce in top spin». A differenza di molti suoi ex colleghi, che terminata l’attività agonistica si sono dedicati al golf, Boban pratica il tennis. «Per il golf ci vuole troppo tempo, intere giornate. A me piace sudare, lottare. Il tennis è uno sport straordinario, l’esatto contrario del calcio. Devi farcela da solo, devi reggere la pressione psicologica. E poi c’è tutto: tecnica, tattica, atletica, concentrazione, autocontrollo. Sì, in Croazia e in Serbia ci sono tanti campioni. Abbiamo la testa giusta e una certa capacità di soffrire. Tutto è cominciato da Ivanisevic. Cilic, Djokovic, la Ivanovic dimostrano lo straordinario talento dei popoli della ex Jugoslavia… Adesso sta esplodendo Coric. Ma non c’è una vera scuola tennistica slava. Sono tutti progetti familiari. Abbiamo fame, siamo disposti ad andar via di casa, ad allenarci tanto, vivere in albergo. È una vita separata, quasi ascetica».

Calcio, giornalismo, letteratura, tennis, la famiglia. Come fai a tenere insieme tutto? «Dormo poco, vado a letto alle tre di notte, anche dopo. Era così anche quando giocavo, più o meno…». Parliamo dei tuoi cinque figli, quattro adottati. «Io e mia moglie abbiamo cominciato presto. La più grande adesso ha 19 anni. Poi abbiamo preso un maschietto e poi due gemelli, un maschio e una femmina. Infine è arrivata una figlia naturale. Ma nell’educazione la biologia non ha alcuna influenza». A proposito di educazione, che cosa vorresti prendessero da te? «La nostra formazione cristiana ci porta a dare molta importanza ai figli ed è giusto. Ma loro prima di essere figli sono esseri umani che diventeranno persone autonome. Perciò ci vuole equilibrio. Vorremmo che ci amassero di più. Ma non possiamo pretendere che ci amino come li amiamo noi. Noi genitori siamo solo delle piattaforme per la realizzazione dei loro bisogni. Che cosa vorrei trasmettere loro? Questa passione per la vita. La voglia di essere buoni, di avere rispetto, di non essere egoisti. Di lasciare una buona traccia in questo mondo. Ci riempiamo di tante cose e non lavoriamo su noi stessi, sulla nostra crescita interiore. Stiamo perdendo la cultura cristiana dalla quale veniamo. Spero che i miei figli prendano questa strada. Che non significa dematerializzarsi. Spero che sappiano costruirsi un futuro dignitoso». Tua moglie che cosa dice di tutto questo? Non protesta che vieni a Milano tutte le domeniche? «Mia moglie Leonarda si occupa dei ragazzi. Ha un locale con altre amiche. Ma sta molto a casa. No, non mi crea alcun problema per le mie attività. Ci siamo incontrati da ragazzi, in un’epoca in cui i ruoli erano un po’ più chiari… Mi piace giocare una specie di tressette ed esco spesso. Per noi è normale. E poi dopo il “carcere calcistico”, mi sembra giusto. Quando rimango a casa guardiamo qualche film con i bimbi». E poi? «Loro a letto e io a leggere…».

Style, magazine del Giornale, dicembre 2014