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Addio alla Carrà, Grande Sorella Televisione

Raffaella Carrà, che ieri a 78 anni ci ha lasciati a causa di un male di cui pochi sapevano, trasferendosi «in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre» (Sergio Japino, annunciandone la morte), è stata una di quelle persone, rare anche nel mondo dello spettacolo, nelle quali, per una felice congiunzione degli astri, si combinano armonicamente virtù e doti che solitamente confliggono tra loro. È il tocco lieve della natura, l’impronta della grazia. Se si riflette sui doni di tanti artisti, si scopre che gran parte di loro esprimono un carattere originale, favorito da sensibilità e doni particolari e perciò rivolti a platee più raffinate o, al contrario, a pubblici più popolari. Raffaella Carrà, vero nome Raffaella Maria Roberta Pelloni, era invece l’artista di tutti. Una star globale, si potrebbe dire. Una figura universale, in grado di abbracciare l’audience più larga e composita. Nazionalpopolare e raffinata. Showgirl intelligente. Energia travolgente ma equilibrata. Ballerina, cantante, presentatrice, attrice, perfetta per i musical, mosse i primi passi con Lelio Luttazzi e con Domenico Modugno. È passata da Hollywood respingendo Frank Sinatra («Non volevo essere la pupa del gangster»). Icona pop, amata dai gay. La risata larga e contagiosa. Il caschetto biondo che si rovescia all’indietro. Il body glitterato. Il ballo trascinante, spesso su motivi orecchiabili. Ma che musica, maestro, Rumore, Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, Ballo, ballo. Una presenza entrata nell’immaginario italiano, e non solo, senza mai diventare eccessiva. «Ho più paura che la gente dica: “Ancora lei!”, piuttosto che: “Dov’è andata a finire?”». All’opposto di Pippo Baudo pensava che dalla televisione bisognava saper stare lontano. Bisognava anche solo guardarla. E guardare la gente per strada, per capire meglio chi sono quelli che schiacciano i tasti del telecomando e alla fine devono scegliere te, tra tante opzioni. E così, dosandosi, sapendo sparire per anni, anche aiutata dall’ansia di prestazione (come Fiorello) e dal timore di non riuscire a mantenere i suoi standard di successo, ma poi ritornando senza però mai invadere stucchevolmente i media, riservata e persino timida, lontana dalla mondanità sebbene protagonista di storie d’amore importanti con Gianni Boncompagni e Japino, Raffa è entrata nell’album di famiglia. Compagna divertente ma sobria. Presenza affidabile. Donna che non tradisce. Una garanzia per decenni. Grande sorella della televisione: Canzonissima, Milleluci, Fantastico, Carràmba, Sanremo

Aveva vent’anni quando si presentò a un provino davanti a un compiaciuto dirigente: «Lei è fortunata. La vede quella scalinata? La scenderà ogni settimana con un abito meraviglioso e una benda sugli occhi. Nell’ultima puntata se la toglierà per annunciare i premi della Lotteria Italia». Lei lo guardò e replicò: «Grazie, ma odio le scale, in giro ci sono almeno ottomila ragazze più belle di me e questa cosa può farla chiunque. Lei forse non lo sa, ma io sono bravissima». Era questo il piglio molto emiliano di una ragazza cresciuta tra Bologna e Bellaria, nella gelateria della nonna, con una madre energica e precocemente separata. «La vita è una partita a carte e a me piace avere il mazzo in mano», rivelò in una delle ultime interviste a Malcom Pagani di Vanity Fair. Ma lei era tutto meno che la fiera delle vanità. Piuttosto: lavoro, applicazione, volontà. Da coreografa che voleva diventare s’impose come ballerina. Nel 1971, una delle prime edizioni di Canzonissima, dopo un paio di puntate il Tuca tuca con Enzo Paolo Turchi fu censurato dalla Rai. Ci volle Alberto Sordi per sdoganarlo e far ricredere anche l’Osservatore romano che aveva puntato il dito. E l’immagine dell’Albertone nazionale che le sfiora giocosamente l’ombelico è tra i fotogrammi della memoria di chi non è più giovanissimo. In un Fantastico di vent’anni dopo toccò a Roberto Benigni violare un altro tabù con la celebre scena della «patonza». Raffa stava al gioco borderline sempre con autoironia e senza mai essere volgare. Era stata confidente delle casalinghe, complice delle donne e delle massaie con quel Pronto, Raffaella? che, inventato da Boncompagni, all’inizio degli anni Ottanta aveva inaugurato la tv di mezzogiorno. Prima c’era il telescopio, adesso milioni di telespettatori erano catalizzati nel tentativo d’indovinare quanti fagioli conteneva quel vaso trasparente. Una telesagra paesana, forse. Ma anche qui, la Carrà stava al gioco senza darsi importanza, un’italiana come noi. Continuò a esserlo anche dopo la parentesi in Mediaset (allora Fininvest), un paio d’anni prima di tornare in Rai. Ma soprattutto, prima di ricominciare in Spagna. Dove scoprì il format di Carràmba!, i ricongiungimenti familiari che la fecero sciogliere in lacrime e, con lei, milioni di telespettatori che la seguivano il sabato sera. Era stato Japino a segnalarglielo, ma fu Brando Giordani, allora direttore di Rai 1, a toccare le corde giuste e convincerla, facendo incazzare il suo compagno. Ebbe grandi ospiti e grandi ascolti, nonostante un certo snobismo della critica, che la adombrò: si ricorda molto di più una critica cattiva e gratuita che un bel complimento. E ancor più si ricordano certi attacchi feroci. Come quando, a proposito della storia con Japino, di dieci anni più giovane, ci fu chi scrisse: «La bella incontra la bestia». «Furono cattivi, anzi mostruosi». Però, niente: volontà, applicazione e lavoro. Non era tipo da farsi troppi problemi nemmeno di fronte alle avance di dirigenti e produttori: la cura Carrà ara «lo smataflone, detto in bolognese. Un sonoro ceffone capace di smontare ogni ardore di sopraffazione sessuale». Quando Paolo Sorrentino le chiese il permesso di usare A far l’amore comincia tu per La grande bellezza era scettica. «Pensavo ai soliti 20 secondi in un film commerciale, non avevo capito si trattasse di Sorrentino». Ma poi quando il film vinse l’Oscar «ero gonfia come un pavone».

Quando una volta chiesero a Fruttero e Lucentini se Gabriele D’Annunzio sarebbe andato ospite della Carrà risposero: «Sarebbe lui la Carrà!».

 

La Verità, 6 luglio 2021

Arbore: «Non è una tv ad Alto gradimento»

Come una madeleine di gioventù, se ancora oggi, trascorso mezzo secolo, rimbalzano nell’aria le note del rock and roll che annunciava Alto gradimento, una scarica di euforia si propaga a tutto il corpo. Il programma che Renzo Arbore e Gianni Boncompagni condussero dal 7 luglio 1970 al 2 ottobre 1976 su Radio2 è stata la più dirompente, anticonformista ed eversiva trasmissione dei nostri migliori anni. Perciò, per estensione nient’affatto iperbolica, la più bella di ogni tempo e luogo. Eccoci al telefono con Arbore dalla sua casa romana, lo studio di Striminzitic show, il programma che conduce con Gegè Telesforo nella notte di Rai2.

Quale fu la scintilla di Alto gradimento fra lei e Boncompagni?

Lo vuole sapere? Ero appena stato caciato da Per voi giovani che avevo inventato io. Il direttore della radio, Giuseppe Antonelli, allargò le braccia, affranto: «È stata una scelta politica».

Di chi?

Dei cattocomunisti che allora sembravano dover dominare.

Nomi?

Non posso, alcuni sono morti.

La scintilla?

Boncompagni veniva da Chiamate Roma 3131, ideato da Luciano Rispoli. Per la prima volta, il telefono era a disposizione del pubblico, ma presto era diventata una radio del dolore…

Le rispettive cacciate vi accomunarono?

Dissi a Gianni: «Tu vieni dalla radio del dolore e io sono stato mandato via, ma il direttore ha promesso di aiutarmi». Così pensammo a un programma di risate. In quegli anni di ideologie e terrorismo ridere era vietato. Perciò, andammo da Antonelli e gli proponemmo Musica e puttanate.

E lui?

«Con questo titolo non può passare, inventatevene un altro».  Siccome io prediligo i titoli negativi, tipo Indietro tutta o Meno siamo meglio stiamo, pensai Basso gradimento, che Gianni corresse con Alto. C’erano Giorgio Bracardi e Mario Marenco, fuoriclasse assoluti. Il programma esplose.

Se dovesse sintetizzare con un episodio quella follia?

Ricorderei il colonnello Buttiglione, che diventò subito un simbolo. Il fatto è che Buttiglione esisteva davvero e non ne poteva più di essere apostrofato per strada. Ci chiamò il ministero dell’Interno per chiederci di modificare lo scherzo. Così nacque il generale Damigiani.

Un altro ricordo?

Andai dai segretari di partito per chiedere la licenza di sfottò: furbamente me la concessero tutti.

Nella sigla finale di Indietro tutta, con sapido doppiosenso cantava «vengo dopo il Tg»: ora Striminzitic show viene dopo che cosa?

Purtroppo viene durante. Ho constatato che la seconda serata è defunta in quanto la prima, cominciando tardi e prolungandosi per far lievitare lo share, salta direttamente alla terza. Qualche sera fa ho perso l’inizio di Striminzitic per vedere come finiva Fuga da Alcatraz.

E quando ha girato su Rai2 Telesforo e Arbore erano già avanti.

Esatto, ma mi consolo perché il nostro show è seguito dagli «arborigeni» ed è molto apprezzato sui social.

Il meglio arriva late?

Come in America, dove ci sono i Late night show. Senza snobismi, è un tipo di televisione che conta sul pubblico più acculturato perché non si deve svegliare alle 5 di mattina. L’importante è che non sia too late, troppo tardi.

L’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini dice che vuole ripristinare la seconda serata.

Speriamo, ma se non si mettono d’accordo tutti, Rai, Mediaset, La7 eccetera, non se ne farà niente. Senza presunzione, la seconda serata l’abbiamo inventata nel 1985 io e Giovanni Minoli, allora capostruttura di Rai2. Alle 23 c’era il monoscopio, non a caso il programma s’intitolò Quelli della notte.

La seconda serata era la palestra dei nuovi autori.

Infatti, sono scomparsi. La carenza di oggi è proprio l’assenza di autori e talenti per la tv leggera.

Salini vuole anche ridurre l’influenza degli agenti esterni.

È una bella battaglia perché loro conoscono molto bene il cosiddetto prodotto.

Colgo una certa ironia.

Appartengo alla generazione che parlava di programmi più che di prodotti. Gli autori erano Antonello Falqui, Enzo Trapani, Corrado, Pippo Baudo… Ora si rincorrono i format stranieri.

Pochi autori bravi, agenti influenti e società di produzione esterne sono i lati della tv di oggi: la Rai è uno scheletro?

Se ci si affida alle produzioni esterne è difficile recuperare quelle interne. Anche perché, di grandi tecnici Rai ne sono rimasti pochi. E quei pochi se ne vanno, com’è accaduto con Eleonora Andreatta, per tanti anni capo della fiction. I veri inventori di programmi sono rari. L’intrattenimento è il genere che si è meno rinnovato e il pubblico ricorda ancora Raffaella Carrà, Mina e i grandi show della tv senza tempo. Il contrario della fast tv di oggi.

Per questo in Striminzitic show estrae dal suo archivio chicche da far invidia alle Teche Rai?

Non ho voluto se non qualche piccola citazione di Indietro tutta e Quelli della notte. In tanti anni ho creato parecchi format, perciò posso pescare dal repertorio meno sfruttato. Poi ci sono i filmati fatti con telecamere e telecamerine che mi sono sempre portato dietro quando m’invitavano come ospite o in certe incursioni stradaiole. Infine, c’è internet: con un click passi da un blues d’annata a Walter Chiari. È una miniera di cui solo Roberto D’Agostino ha colto le potenzialità.

Lei è stato il primo a raccogliere la provocazione di Pupi Avati a fare del lockdown un’occasione teleculturale: è un’intesa tra amanti di jazz?

Io e Pupi siamo amici, certo. Entrambi abbiamo constatato che i millennials non conoscono il nostro cinema migliore. Quello del neorealismo e della grande commedia che ebbe successo in tutto il mondo perché era pieno di idee.

Ci vorrebbe un Per voi giovani del cinema?

Se pensa che non conoscono Miracolo a Milano, La grande guerra, Umberto D., Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi… Adesso per fortuna Cine 34 qualcosa ripropone.

Ha guardato molta tv durante il lockdown?

Moltissima. A Natale avevo avuto la bronco polmonite perciò sono entrato in clausura in anticipo. Ne ho approfittato per ordinare l’archivio e l’angolo della casa da dove con Gegè trasmettiamo lo show con due sole telecamere. Noi che abbiamo visto la guerra e il dopoguerra non ci scoraggiamo, ma quando leggo certi paragoni…

Cosa pensa?

Che allora c’erano il buio, la fame, il freddo, non c’era il riscaldamento. E manco la radio.

Chi le piacerebbe riportare in televisione?

Adriano Celentano, il protagonista dello spettacolo del Novecento e anche del Duemila.

L’ha visto su Canale 5? Anche lui ha bisogno di autori?

Sì, ma è sempre originale. Credo sia giusto si faccia conoscere dai giovani come artista, cantante, attore. Lui e Mina sono i più grandi, lui ha fatto anche film che andrebbero riletti, come Joan Lui

Puntualmente stroncato dalla critica.

Ma pieno di novità. E l’altro, Juppy Du: andrebbe studiato a scuola. Prisencolinensinanciusol è stato il primo rap al mondo.

Ha riproposto un Benigni ballerino sulle note di un brano di Elvis Presley. Le piace il Benigni esegeta e pedagogo?

Roberto ha arricchito il suo umorismo istintivo con la ricerca culturale. A me piaceva molto Tuttobenigni. È un talento straordinario, come abbiamo visto al cinema anche insieme a Massimo Troisi. Gli auguro di trovare un altro film di grande successo che ci faccia sorridere e pensare.

Chi può reggere il confronto con lui?

Forse Checco Zalone, passato anche lui dal cabaret al cinema.

Tra i giovani vede qualcuno che si avvicini a Marenco, Bracardi, Riccardo Pazzaglia, Nino Frassica, D’Agostino, Maurizio Ferrini?

Che improvvisi come loro no. Noi eravamo jazzisti della parola, oggi prevale il pop. Quella razza di improvvisatori è in estinzione.

È vero che era l’incubo di Baudo?

Sono malignità di Antonio Ricci. Siamo diversissimi, ma siamo amici e «conterroeni».

Lei era socialista e lui democristiano.

Simpatizzavo. Anche Craxi aveva simpatia per me. Una volta mi fermò e mi disse: «Non ho capito se mi vuoi bene o mi sfotti».

E lei si guardò dal risolvere il dubbio?

Votavo repubblicano, ma nella stagione della Milano da bere, con Craxi che era appassionato d’arte e di canzoni c’era un rapporto di cordialità.

Il presidente Mattarella è riuscito a procurarsi un televisore funzionante per vedere il suo show o è rimasto ostaggio di protocolli e gare d’appalto?

(Ride) Ha ancora il televisore di Pertini. È amabilissimo il presidente nell’accettare le nostre facezie…

Che cosa le dice il fatto che il portavoce di Palazzo Chigi sia un ex concorrente del Grande fratello?

Abbiamo visto tanti talenti cresciuti nei villaggi turistici, non mi pronuncio.

Tra migliaia di gadget possiede una statuetta di Abramo Lincoln: cosa pensa della profanazione del suo monumento a Washington come manifestazione di antirazzismo?

Sono profondamente antirazzista. Però profanare i monumenti, come quello di Montanelli che mi onorava della sua amicizia, o altri, è una deformazione di opinioni politiche momentanee che disapprovo.

Panorama, 1 luglio 2020

«La canzone napoletana? Materia per l’Unesco»

Vuole prima vedere la casa o fare l’intervista?». «Assolutamente prima la casa». Renzo Arbore abita in un attico a un quarto d’ora di taxi da Viale Mazzini, ma Guarda… stupisci (modesta e scombiccherata lezione sulla canzone umoristica napoletana), il programma dei record di Rai 2, va in onda dal Centro di produzione di Napoli. Anzi, esattamente da un’aula universitaria idealmente intitolata a Totò. Ma di questo parleremo tra poco. La casa, dunque. Inesauribile museo del kitsch e dell’effimero. Alberi di Natale stracarichi di addobbi, carillon, luminarie, statuette sue con e senza clarinetto, radio d’epoca di tutte le forge, targhe di Copacabana intestate a lui, presepi, un suo ritratto-installazione luminosa di Marco Lodola, orologi con pappagallini che ti fanno il verso, gazebi, bar tropicali, la bambolina della dea Yemanja di Bahia, ninnoli incomprensibili, statuine di jazzisti, di pin up, una finta finestra davanti al golfo di Napoli, il papiro della Laurea honoris causa post mortem a Totò («nella Lectio magistralis lo dipinsi come il Grande consolatore del dopoguerra»).

Mentre al telefono amici, colleghi, dirigenti Rai applaudono al boom di ascolti della sera prima (14.5% di share, la media di Rai 2 è del 6%), la visita prosegue al piano superiore, «che io chiamo pomposamente gli Studios, perché qui abbiamo registrato sketch, programmi e programmini». Ecco il divano rosso, poi adottato da Parla con me, realizzato da Alida Cappellini e Giovanni Licheri, scenografi e designer dei programmi tv e dell’abitazione arboriana. La collezione di vinili e di cd, una libreria, scrivanie, pianoforti, cuscini commemorativi dei film, Stanlio e Ollio in porcellana, strumenti vari, armadi stipati con i gilet di Quelli della notte e la divisa da ammiraglio di Indietro tutta!, la stanza delle madonne dipinte, scolpite o in plastica. «Mancano parecchie cose che ho usato per la mostra di due anni fa al Testaccio», si duole Arbore. «La collezione di juke box, flipper e pianoforti antichi invece è in un’altra casa, dove mio nipote ha allestito uno studio discografico. Lo so, la fantasia può diventare patologica. Ma quando vedo qualcosa che mi attira mi dico che non posso non averlo».

È più kitsch casa sua o quella di Roberto D’Agostino?

«Roberto è un grandissimo rivale. Però lui possiede opere d’arte, io ho tante stronzate».

Cos’è questa smania di accumulo?

«Malgrado sia nato in una famiglia benestante, mio padre ci educava all’austerità e io non possedevo giocattoli. Ora, da adulto, me li posso comprare. Questo è il mio giocattolume, un regno di gioco e affetti. Camuffo questi acquisti inconsulti con il fatto che non ho vizi costosi, gioco, alcol, donne…».

Da qui non si può non avere una visione scanzonata della vita?

«La più grande soddisfazione me la diede Vittorio Gassman quando un giorno venne a trovarmi: “Se dovesse tornarmi la depressione”, disse, “devi promettermi che mi ospiterai perché in questa casa non si può essere depressi”. Sono nato con la positività di mio padre che, da dentista, curava il sorriso dei pazienti raccontando le barzellette: quando si aprivano alla risata gli staccava il dente. I medici che stanno in mezzo ai dolori della gente amano l’allegria».

Perché, con tutti quelli che ci sono stati, ha pensato di dedicare un programma alla canzone napoletana?

«I compositori napoletani da metà Ottocento fino a Pino Daniele hanno scritto pagine sublimi, imparagonabili per melodiosità e per poeticità dei testi a qualsiasi altra produzione musicale, non solo italiana».

Addirittura?

«Certamente. Bisogna adoperarsi perché l’Unesco la elegga patrimonio dell’umanità. Se ne conoscono una trentina… sono centinaia. S’incazzeranno certi sedicenti storici, ma sono canzoni scritte da poeti, avvocati, professori. Tutte persone di estrazione borghese, salvo qualche rara eccezione, come Salvatore Gambardella che era calzolaio. Poi fu interpretata da intellettuali finissimi: Nino Taranto, Roberto Murolo, Renato Carosone. Oggi è apprezzata dai musicofili di tutto il mondo. Riccardo Muti si toglie il cappello davanti a Marechiare. Molti dei nostri intellettuali invece l’hanno snobbata per motivi ideologici».

Perché la consideravano troppo popolare?

«Il fatto è che molti critici di cultura veterocomunista disprezzavano queste canzoni che erano farina della borghesia. Autori come Ernesto Murolo, il padre di Roberto, Libero Bovio, Edoardo Nicolardi, E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta, che ha scritto anche La canzone del Piave oltre a Tammurriata nera e tante altre. Per questo motivo, quei critici ritenevano che queste canzoni che gli americani chiamerebbero evergreen, fossero da punire. Calò un silenzio tombale».

Lei ne è diventato ambasciatore anche all’estero.

«Da 27 anni mantengo questa casa con i proventi dei 1500 concerti tenuti con L’Orchestra italiana in tutto il mondo. Per sdoganare ’O sole mio ci è voluta una pazienza straordinaria. Ora è più popolare di Summertime di George Gershwin e di Let it be dei Beatles. Con Ray Charles ne abbiamo fatto una versione meravigliosa».

Ha definito Guarda… stupisci un programma antico perché dall’antico si può trarre qualcosa di buono mentre dal vecchio no?

«È così. Io vengo dal jazz e bisogna sapere che persino il rap di oggi deriva dal blues. Se non conosci l’antico e non mastichi il blues, non puoi fare bene il rock e nemmeno il rap. È una regola».

Con lei, Nino Frassica e Andrea Delogu ci sono i giovani: un programma intergenerazionale?

«Io e Ugo Porcelli ci siamo chiesti: possibile che i ragazzi di oggi che sono sempre connessi con il cellulare non sappiano chi è Alberto Sordi? Non dico Aldo Fabrizi… Non hanno visto i capolavori del nostro cinema, la tv artistica – io la definisco così – degli anni Sessanta e Settanta. Quella di Antonello Falqui e Enzo Trapani, poi Massimo Troisi e il trio Lopez Solenghi e Marchesini. Era una tv piena di sketch indimenticabili, scritti da autori che emulavano la fantasia dei grandi sceneggiatori del cinema, Age e Scarpelli, Rodolfo Sonego, Sergio Donati».

Avrete fatto una selezione mirata dei ragazzi, perché in gran parte oggi si accalcano nelle discoteche di Sfera Ebbasta…

«Come primo e vecchio dj ho sempre distinto due pubblici: quello di Lucio Battisti e quello di Pupo, lo dico con grande simpatia… Alla mia età mi spiace constatare che in maggioranza i giovani sono interessati al gossip, alla volgarità, alla battuta corriva».

Apposta parla di educational show: c’è spazio per educare al bello?

«Naturalmente educational show è una provocazione. Questo programma è nato all’università Federico II, quando ho mostrato agli studenti brani dell’Altra domenica e fatto ascoltare Bandiera gialla e vedevo che questi ragazzi scoprivano mondi ignoti».

Cosa può dare la canzone napoletana al tempo degli haters?

«Agli haters dobbiamo opporre la cultura del sorriso, l’umorismo della nostra musica, la goliardia sapiente. La canzone napoletana dev’essere insegnata nei conservatori perché ha la stessa nobiltà del melodramma. Ma qui serve anche l’impegno della politica. Esportiamo nel mondo la moda, la Ferrari, la gastronomia, il design, l’unica cosa che non esportiamo è la canzone di qualità che può diffondere anche la nostra splendida lingua. Il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli dovrebbe farci un pensiero».

Lei è foggiano, ma canta Napoli, Modugno è barese, ma lo si considera siciliano. È un destino dei pugliesi?

«La tradizione napoletana è più forte. La mia famiglia benestante svernava a Napoli dopo il raccolto del Tavoliere perché il clima è più dolce. Mio padre si è laureato e ha iniziato a fare il dentista a Napoli. Mia madre è una Cafiero di origini napoletane. Così, io mi sono iscritto all’università di Napoli. Studiavo giurisprudenza e suonavo con gli americani, Murolo e Sergio Bruni fino a notte fonda».

Fabio Fazio l’ha chiamato padre della televisione italiana.

«Più che padre, considerata l’età, sono il nonno. La nonnità deriva da quello che ho fatto: tre format radiofonici come Bandiera gialla, Per voi giovani e Alto gradimento e 16 televisivi, da L’altra domenica a Speciale per voi, da Meno siamo meglio stiamo a Cari amici vicini e lontani che ha celebrato la radio in tv».

Quindi il monumento le è piaciuto?

«Il monumento ci può stare perché sulla Verità tale Celli Pier Luigi, il peggior direttore generale che la Rai abbia avuto, ha sparlato di me. L’unico fallimento della mia carriera è stata la direzione artistica di Rai International, un’idea straordinaria guidata dall’ottimo Roberto Morrione, che quel signore è riuscito inopinatamente a far chiudere non rinnovandoci il contratto e dandomi del venale. Un’accusa che ritengo la più lontana e infamante della mia personalità. Per questo abbiamo creato l’associazione Roberto Morrione e oggi tutti rimpiangono quella stagione come la migliore di Rai International».

Un mio ex compagno di scuola mi ha ricordato che alla fine delle lezioni andavamo a casa mia ad ascoltare Alto gradimento

«Nella storia della radio, Alto gradimento è stata la seconda trasmissione più seguita dopo I quattro moschettieri. La terza è stata Viva Radio 2 di Fiorello».

Che lei considera un suo erede, più di Fazio, Piero Chiambretti e Giorgio Faletti?

«Lo considero un po’ un figlioccio. Lui stesso lo dice, ricordando quando parodiava le mie canzoni nei villaggi turistici. Anche Chiambretti ha preso qualcosa. Faletti no, ha una storia autonoma, era un talento eclettico, faceva Vito Catozzo, ha scritto la meravigliosa Minchia, signor tenente, grandi thriller…».

Breve lista dei talenti scoperti con Gianni Boncompagni: Roberto Benigni, Andy Luotto, Michel Pergolani, Luciano De Crescenzo, Riccardo Pazzaglia, Simona Marchini, Massimo Catalano, Marisa Laurito, Francesco Paolantoni, Maria Grazia Cucinotta, Mario Marenco, Giorgio Bracardi, Maurizio Ferrini, Ilaria D’Amico, Roberto D’Agostino…

«Ilaria D’Amico la avvicinai per strada proponendole un provino proprio per Rai International. Pensai subito che potesse sfondare. Facemmo La Giostra del goal, trasmettendo le partite in diretta fuori dall’Italia. Lei conduceva e divenne esperta di calcio».

De Crescenzo?

«Rappresenta la Napoli aristocratica di Raffaele La Capria. Un ingegnere elettronico, il primo a usare il computer in Italia. Lo conobbi perché avevamo la stessa fidanzata a nostra insaputa. Lei mi diceva: “Sono amica di De Crescenzo”, e a lui: “Sono amica di Arbore”. Quando c’incontrammo tutti e tre capimmo che non era amicizia».

Troisi?

«Paladino di una Napoli di grande tradizione. Un erede di Eduardo e un grande amico».

Benigni?

«Un folletto intelligentissimo che dimostra come ci si può fare da sé. Anche Mariangela Melato e Gabriella Ferri si sono fatte da sé. Persone di estrazione proletaria che si sono acculturate lasciando il segno nella cultura italiana».

Dimentico qualcuno?

«Il Mago Forest era il maghetto di Indietro tutta. Poi le sorelle Bandiera, il primo trio di comici en travesti ma di grande eleganza. Il più forte di tutti però era Mario Marenco: una vena umoristica così surreale e moderna io e Gianni non l’abbiamo mai più trovata».

Che fine ha fatto Gegé Telesforo?

«È uno dei migliori cantanti jazz europei. Fa un piccolo programma su Rai 5, la grande televisione non segue il jazz».

D’Agostino come lo trovò?

«Era uno dei ragazzi di Bandiera gialla. Informatissimo, andava nei night a pescare mode e tendenze. Aveva curiosità per le cose che bisognava sapere, come dimostra il successo di Dagospia. Dago in the Sky è il programma più d’avanguardia della televisione italiana».

Il suo partner ufficiale è lo straordinario Nino Frassica: rischia forse d’inflazionarsi?

«Qualche volta glielo dico anch’io».

Pazzaglia?

«Un intellettuale borbonico, autore delle più belle canzoni di Domenico Modugno. Un compagno d’armi con il quale abbiamo fatto Cari amici vicini e lontani sui 60 anni della radio. Pensando a lui mi riprometto di campare fino al 2024 per festeggiare il secolo della radio».

Che l’ha svezzato.

«Eravamo la generazione beat, quella apprezzata da Edmondo Berselli, protagonista della vera rivoluzione prima del Sessantotto. Con Bandiera gialla e Per voi giovani si scoprirono i giovani. Fino al 1964 si parlava solo di ragazzi, le riviste erano L’Intrepido, Il Monello, Il Corriere dei ragazzi. Poi nacquero Big, Giovani e Ciao 2001. C’erano Barbara Palombelli, Dario Salvatori, Renato Zero, Loredana Bertè, Clemente Mimun. Avevamo rubato l’etichetta beat a Jack Kerouac e Lawrence Ferlinghetti. Creammo i cappelloni, i chitarroni, un modo di ballare, c’era Patty Pravo. Pochi giorni fa ho rivisto Shel Shapiro e Maurizio Vandelli…».

Poi arrivò la contestazione e in quell’atmosfera cupa sceglieste come sigla Rock around the clock che aveva l’argento vivo…

«Fu voluto, ovviamente. Il nostro successo venne dal fatto che facevamo divertire in un momento in cui il sorriso era criminalizzato. I contestatori dicevano: “Una risata vi seppellirà”. Sono rimasti sotto loro. Da filoamericano non potevo simpatizzare per i maoisti cinesi o i comunisti filosovietici perché i miei amici jazzisti erano già stati in Russia e mi raccontavano la tristezza di là».

Mai litigato con Boncompagni?

«Mai. Eravamo diversi, ma ben assortiti».

Lui era cinico?

«Ma molto intelligente e intraprendente, mentre io ero timidissimo. Mi ha tirato fuori da quel guscio di timidezza».

Era nichilista?

«Era comunista. Lo erano tutti tranne il sottoscritto e il mio amico Gerardo Gargiulo, gli unici liberali. Indossavamo i jeans che si compravano ai mercati americani. Poi suonavo all’Uso (United States Organizations) un club che assisteva i militari americani. Per Tu vuo’ fa’ l’americano Carosone s’ispirò a noi».

Le registrazioni di Alto gradimento sono state ritrovate?

«Una parte le ha Radio Rai, qualcuna qualche appassionato. Faccio un appello ai collezionisti che ne possedessero delle registrazioni di scrivere al suo giornale, così potremmo recuperare una pagina importante della storia della radio».

Perché il jazz e la canzone napoletana?

«Quand’ero bambino a Foggia di sera gli americani suonavano Glen Miller al Circolo ufficiali di fronte casa. Invece di giorno, mentre ricostruivano le case bombardate, i muratori cantavano le canzoni napoletane».

Cosa guarda in televisione?

«I talk show. Lo faccio per esaudire il pasqualismo di Totò. Un energumeno lo riempiva di ceffoni “Pasquale beccati questo; e quest’altro”, per vedere fino a che punto resisteva. Lui non reagiva: “Mica sono Pasquale”. Guardo i talk show per vedere fin dove vogliono arrivare i politici. I talk show sono televisione per eccellenza. E poi in me c’è una passione politica nascosta».

Possiamo circostanziare?

«Anche in questo sono filo americano. In camera da letto ho il busto di Abramo Lincoln e ho apprezzato John Fitzgerald Kennedy. Ho cercato il più americano dei partiti italiani senza riuscire mai a trovarlo».

Quindi non vota?

«Votavo per quelli che mi sembravano più vicini, poi ho abbandonato. Cerco il partito dell’affidabilità, quello che ti vende l’auto usata giusta. In America l’affidabilità è tutto, i politici che non tradiscono le promesse fatte agli elettori. Altro che Bill Clinton. Da giovane leggevo tutti i giornali di partito da La Discussione a La Voce repubblicana fino a Rinascita».

È rassegnato?

«Ho poca fiducia. Esportiamo il made in Italy, ma la politica e la questione sociale no perché sono il vero tallone d’Achille».

Il cambiamento delle ultime elezioni?

«Sto a guardare, ma fatico a vedere personalità che possano avvicinarsi al mio punto di vista da artista. Poi sono lincolniano… Mi piacerebbe trovare qualcuno che dice qualcosa che va contro i suoi interessi».

In un’isola deserta con soli tre dischi.

«West and blues di Louis Armstrong, Era de maggio di Roberto Murolo, Titanic di Francesco De Gregori».

Chi sono i maestri del venerato maestro Renzo Arbore?

«Armstrong, Totò, Murolo, Ray Charles, Riccardo Pazzaglia, Charlie Parker, Federico Fellini».

Il più grande di tutti?

«Louis Armstrong, che ha inventato la musica del nostro tempo».

Tra gli italiani?

«Enzo Jannacci per la fantasia straordinaria. Ha scritto Vincenzina e la fabbrica Vengo anch’io! No, tu no, Il palo dell’ortica».

Cosa farà a Natale?

«Me lo godo con la famiglia. Anche se non c’è più Mariangela… Con lei sono diventato credente».

Cosa intende dire?

«Che spero e credo che lei ci sia ancora. Quando si pensa alle persone care è importante credere in un’altra vita. Questo grandissimo dolore mi ha avvicinato a un sentimento religioso. La lotta che ha condotto contro quella malattia ingiusta… tutte le malattie lo sono. Ma io voglio sperare. Ecco: sono uno sperante».

 

La Verità, 16 dicembre 2018

«Drive in? Nacque tutto da un mio programma»

«No, guardi, le interviste alla mia età sembrano coccodrilli anticipati. E poi sono quasi sempre noiose…». Difficile annoiarsi con lei. «Va bene, ma facciamo una cosa rapida». Romano, settantun anni, intrattenitore e autore televisivo, commediografo, sceneggiatore e doppiatore di successo oltre che storico conduttore dei Fatti vostri, Giancarlo Magalli è uno che conosce tutto e tutti. D’accordo, facciamo presto, ma non sia riluttante. Con tutte le vite che ha…

Cominciamo da quella meno nota: come ha fatto a diventare maggiore di polizia?

«Polizia locale, precisiamo, i vigili urbani. Negli anni Ottanta due o tre notti a settimana mi aggregavo alle pattuglie come volontario. I dirigenti del corpo mi hanno dato questo titolo. Sono orgogliosi di avermi tra loro e io di starci».

Due o tre notti a settimana in pattuglia per fare cosa?

«Ho partecipato a decine d’interventi. Ho scoperto la vita delle guardie mediche, il pronto soccorso, l’obitorio, l’albergo del popolo e quanti pazzi vagano per la città».

Adesso non va più in pattuglia?

«No, partecipo a qualche cerimonia. A dare il benvenuto ai 300 nuovi assunti c’eravamo io, la sindaca e il comandante dei vigili».

È anche socio benemerito dell’Associazione nazionale carabinieri?

«Sono molto legato all’Arma. Da allievo di cavalleria volevo optare per i carabinieri, ma mio padre si oppose. Così divenni anch’io ufficiale di cavalleria. Come socio d’onore presento i concerti e le manifestazioni dell’Arma all’Arena di Verona, all’Auditorium…».

Il titolo di commendatore al merito della Repubblica a cosa lo dobbiamo?

«A Oscar Luigi Scalfaro che me l’ha dato per il lavoro nel sociale, per Telethon e altre cose che non vado a raccontare, ma chi le deve sapere poi le sa».

Tutta questa bontà evapora appena compare Adriana Volpe?

«Non voglio parlare di Adriana Volpe, una persona che ottiene visibilità solo parlando di me».

Altra vita: primo animatore turistico italiano.

«A Natale del 1967 andai con i miei genitori in vacanza in montagna. L’8 gennaio dovevo partire militare, perciò volevo divertirmi. Organizzavo le gare di slittino e di sci e le serate per gli ospiti. Nello stesso albergo c’erano anche i dirigenti dell’Eni: “Perché non viene a fare l’animatore da noi che dobbiamo aprire un villaggio sul Gargano?”. “Dopo il militare, tra un anno e mezzo, si può fare”. E così fu».

Destinazione Pugnochiuso, l’attirava il nome?

«La politica non c’entra. Il nome lo inventò Enrico Mattei sorvolando in elicottero la costa. L’Eni stava aprendo una raffineria a Manfredonia, vide questo promontorio a forma di pugno, lo comprò e ci fece costruire un albergo con un centro sportivo per i dipendenti».

Lei capo, gli altri animatori?

«C’era Stefano Disegni, ora disegnatore e fumettista affermato».

Conobbe molta gente?

«Avevo un budget ridottissimo e mi rivolsi ad alcuni impresari pugliesi, chiedendo di trovarmi qualche artista poco esigente. Vennero Pippo Franco, Enzo Beruschi e i Gatti di Vicolo Miracoli. Qualche anno dopo li scritturai per Non stop».

Fiorello non lo incrociò?

«Era tra gli allievi dei corsi per animatori che tenni a Ostuni».

Che allievo era?

«Era uno fra i tanti, non lo conoscevo. Fu lui anni dopo a dirmi che aveva frequentato il corso di Ostuni».

Come avvenne il salto in televisione?

«Pippo Franco fu scritturato per un programma alla radio e mi chiese di scrivere per lui. Poi cominciai a scrivere per altri, da Oreste Lionello a Gianfranco D’Angelo… Finché Bruno Voglino mi propose di fare l’autore di Non stop».

Antenato di Drive in?

«Il vero antenato di Drive in venne subito dopo. La Rai voleva un altro programma con comici sconosciuti. Io replicai che non erano un’infinità e che conveniva sfruttare quelli già scoperti. Mi diedero l’ok e nacque Tutto compreso. C’erano Ezio Greggio, Enzo Beruschi, Gigi e Andrea, Massimo Boldi e Teo Teocoli. Andava in onda da Milano ed era ambientato in un villaggio vacanze».

Guarda caso.

«Berlusconi lo vide e prese Giancarlo Nicotra, il regista, e gran parte del cast. Il secondo anno Antonio Ricci aggiunse altri comici».

A Pronto, Raffaella? inventò il gioco dei fagioli.

«L’avevo visto negli store americani. I negozianti mettevano in vetrina un vaso pieno di fagioli e i clienti tiravano a indovinare. A fine mese chi si era avvicinato di più vinceva una spesa gratis».

La Rai dovrebbe esserle grata a vita perché quel gioco creò la fascia di ascolto di mezzogiorno.

«Per la verità, l’anno prima c’era già stato Il pranzo è servito di Corrado su Canale 5. Quando la Rai decise di provarci, affidò a me e Gianni Boncompagni il compito».

Altro salto, da dietro la telecamera a davanti.

«Avvenne qualche anno dopo a Pronto, chi gioca? condotto da Enrica Bonaccorti. Un giorno lei dovette ricoverarsi improvvisamente e Boncompagni mi disse: “Domani presenti tu, tanto sai come si fa”. Andò bene e così continuai. Anche perché c’era una certa penuria di presentatori perché tanti, da Pippo Baudo alla stessa Carrà, erano andati alla Fininvest».

Da chi ha imparato di più in tanti anni?

«Ho imparato da quelli che guardavo da spettatore. Mario Riva mi ha ispirato, volevo essere come lui».

Renato Rascel come lo ricorda?

«Gli somigliavo fisicamente e nel timbro di voce. Ma era un musicista, un compositore e un grande intrattenitore. Era spontaneo imitarlo. Alighiero Noschese me lo invidiava. Una volta, avrò avuto 4 anni, salii sul palco a tirargli la giacca: “Renato, perché tutti dicono che ti somiglio?”. “Non lo so, fammi vedere la mamma”, replicò lui. Un giornalista poco ironico s’inventò che ero il figlio segreto di Rascel. L’ho molto ammirato, ma niente figliolanze».

Pentito di aver rifiutato la parte di Don Matteo?

«Avevo intuito che era una grande occasione professionale. Ma mi avrebbe costretto a stare lontano dalla famiglia troppo a lungo. Avevo una figlia piccola che volevo veder crescere e una moglie cui volevo bene. Anche se oggi il matrimonio è finito non sono affatto pentito di quella scelta».

Cosa c’è di vero a proposito di un suo contatto con Mediaset?

«Con Mediaset ho sempre avuto buoni rapporti. Ma non hanno mai cercato di convincermi. A un certo punto la Gialappa’s mi aveva proposto di lavorare con loro. Ora, con il tetto dei compensi, ci sto pensando».

Quindi si può fare?

«Il mio contratto scade a maggio. Dopo, chissà…».

Capitolo cinema…

«Il cinema lo vivevamo in casa, mio padre era direttore di produzione. Ho fatto il segretario di produzione in alcuni film di Totò e di Roger Vadim. Ma al cinema un mese si lavora e tre no, come diceva mio padre».

L’attore che più la colpì?

«Totò era impossibile non ammirarlo. Ricordo che era già cieco, ma sul set nessuno se ne accorgeva. In Diabolicus doveva giocare a biliardo: imparava la posizione delle bocce sul tavolo, impugnava la stecca e tirava come niente fosse».

Anche nel cinema è stato sia dietro che davanti alla cinepresa.

«Ho partecipato a una quindicina di film; niente di immortale eh. Ma sì, sono stato autore e attore cinematografico, autore e attore teatrale, autore e conduttore tv. Adesso faccio anche il doppiatore».

Nella terza stagione del Collegio su Rai 2 sarà ancora la voce narrante?

«Certo. Mi è piaciuto fin dalla prima edizione, ambientata negli anni del mio liceo, con i banchi di legno e un rigore oggi dimenticato».

Perché le piacerebbe condurre un game show?

«Lo vedrei come una ricreazione dopo 28 anni di Fatti vostri in cui si parla spesso di vicende dai risvolti dolorosi. Un programma in cui si gioca e si scherza, avendone già sperimentati penso che saprei farlo bene».

Hobby preferito?

«Viaggiare con le mie figlie. Andare in Francia, a Londra, in America. Una volta avevo un codazzo di donne, mia madre, mia moglie. Ora sono rimaste loro. Partiamo…».

Cosa guarda in tv?

«Tutto, Pechino Express, Stasera tutto è possibile, film e serie».

Le ultime viste?

«Orange is the new black, Castle, Stranger Things. Le serie sono pericolose, se mi piacciono rischio di stare 10 ore davanti alla tv».

Letture?

«La serata finisce sempre con un libro».

Adesso sul comodino?

«Tre volumi sulla storia delle religioni di Mircea Eliade».

Però. Narrativa?

«Non quella contemporanea. Preferisco Italo Calvino, Giovannino Guareschi, Achille Campanile e gli umoristi degli anni Cinquanta».

Che rapporto ha con i social?

«Su Facebook ho più di 140.000 seguaci, su Instagram un po’ meno. Mi diverto, scrivo dei pensieri stando attento ai pazzi che ci sono in giro. La gente capisce se posti per trarne un vantaggio o per socializzare».

Segue la politica?

«La seguo a volte con passione, altre con paura e preoccupazione. Per tanto tempo abbiamo delegato tutto ai politici o ai preti che ci dicevano per chi votare. Berlusconi ha avuto il merito di favorire il ritorno di partecipazione della gente. Pro o contro di lui».

Il sentimento prevalente adesso?

«Curiosità con tendenza all’ottimismo. Però non è facile. A dar retta alle sibille cumane è tutto un disastro. Ma mi chiedo: con quale autorità scagliate tutte queste invettive? Se avevate tutto chiaro perché non avete agito quando governavate voi?».

Che cosa si aspetta dalla nuova dirigenza Rai?

«Vorrei che durasse più di due anni. Come si fa a rilanciare una grande azienda se non si può fare un piano di lungo respiro? Nemmeno un privato può farcela, figuriamoci la Rai che dipende dalla politica. Quando arrivano i nuovi capi, appena cominciano a capire dove si trovano già se ne devono andare».

Che cosa le dà speranza?

«Le persone che mi circondano. La situazione non è delle migliori, ma le persone sono migliori della situazione».

 

La Verità, 7 ottobre 2018

Boncompagni, il meglio in coppia con Arbore

«Dopo scuola venivamo a casa tua ad ascoltare Alto gradimento». Me l’ha ricordato di recente un vecchio amico, ritrovato dopo tanti anni, almeno 45. Ascoltavamo la radio sgangherata di Arbore e Boncompagni. Insieme avevano fatto anche Bandiera gialla, altro cult dell’epoca, quando la radio aveva una vitalità incredibile, a pensarci oggi (Hit Parade, Gran Varietà, Per voi giovani). Ma Alto gradimento era un’altra storia, un laboratorio, uno stage formativo, un helzapoppin che sconfinava nel costume, diventava tormentone, linguaggio, stile di vita per gli ascoltatori. Schiere di comici e intrattenitori sono debitori di quel vulcano creativo, alimentato con Arbore, Bracardi e Marenco. Gianni Boncompagni se n’è andato a 84 anni e ora vien da chiedersi se ci sarebbe stato Fiorello con la sua Edicola senza Alto gradimento? E Chiambretti? E Giorgio Faletti e il Drive in di Antonio Ricci? Una fucina di maschere, caricature, folli geniali e teneri come Scarpantibus, il colonnello Buttiglione, la Sgarambona, Max Vinella, il professor Aristogitone, il comandante Raimundo Navarro perso nello spazio. Ognuno aveva il suo prediletto e la gag, lo scherzo, lo sberleffo finiva nelle feste, in classe, per le strade, con gli adulti ignari. La forza di Boncompagni era nella capacità di sconfinare, contagiare, divenire gergale. Non solo con la goliardia intelligente e la dissacrazione del benpensantismo di quel primo exploit (all’esordio pronunciò tutte le parole allora proibite: sudore, inguine, membro, divorzio). Le sue pensate erano roba immediata, semplice, italianissima.

In tv, senza Arbore (che proseguì il filone di Alto gradimento con L’altra domenica, Indietro tutta e Quelli della notte), la goliardia e i tormentoni lasciarono il campo al cinismo. «La tv trasmette solo robaccia. Robaccia con ascolti alti e robaccia con ascolti bassi», diceva. Il cinismo gli faceva anticipare la tendenza. Gli faceva anticipare quello che il pubblico cercava. E cavalcare formule e linguaggi. A cominciare da quello delle casalinghe e del pubblico della provincia. La tv di mezzogiorno non esisteva e con Pronto, Raffaella? arrivò a 14 milioni di telespettatori. Non è la Rai, con decine di ragazzine sgambettanti in uno studio vuoto con la sola Ambra a dialogare col pubblico, diffuse il lolitismo spensierato del boom pubblicitario. Ci sarebbero state le veline e Striscia la notizia senza quel gineceo innocente e ammiccante? E le ragazze di Chiambretti c’è (dove peraltro il Bonco muoveva i fili con l’inseparabile Irene Ghergo)? E i reality nei quali la conditio era saper fare nulla? Nessuno snobismo nemmeno verso il nazionalpopolare. Da Casa Castagna a tutta la produzione di Raffaella Carrà, dal Tuca Tuca a Far l’amore, finito persino nella Grande Bellezza, a Carramba che fortuna. Una tv da «vuoto pneumatico», si vantava. Plastica ben confezionata, forse inutile. Ma spiattellata senza intellettualismi e sovrastrutture. Geniale e fulminea. Schiettamente nichilista.