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Nel doc Rai Lotta continua rimane la meglio gioventù

Nostalgia della rivolta. Epica e sentimenti rivoluzionari. Orgoglio dell’appartenenza. Elogio della solidarietà ribellistica. Ci sono tutti questi elementi in Lotta continua – I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, la docu-serie già visibile su Raiplay –  e il 13 gennaio su Rai 3 – tratta da un libro dell’instancabile Aldo Cazzullo. «In quegli anni ho fatto la cosa giusta insieme alla maggioranza della mia generazione», scandisce Erri De Luca nell’incipit della storia. Ma dal suo volto rugoso non traspaiono accenni autocritici. Al contrario, lo scrittore napoletano rivendica «piena lealtà nei confronti delle ragioni che ci misero insieme e che ci hanno fatto partecipare di quel movimento rivoluzionario». Posta all’inizio dei quattro episodi, la riflessione dell’ex dirigente del servizio d’ordine di Lotta continua fornisce la chiave di lettura del documentario diretto da Tony Saccucci. Gli otto anni del movimento di cui fu leader Adriano Sofri sono raccontati da ex militanti, con la sola eccezione di Giampiero Mughini che, prima di allontanarsi da quel mondo, prestò la firma di giornalista professionista per rendere possibile la pubblicazione del quotidiano. È lui l’unico testimone critico della stagione che va dalle manifestazioni alla Fiat di Mirafiori del 1968 allo scioglimento del movimento al congresso di Rimini del 1976.

Il regista afferma di aver voluto fare un film «per i nostri figli». Tuttavia, se si prefiggeva non solo di celebrare, ma anche di tramandare la conoscenza di quegli accadimenti a chi non li ha vissuti, ricorrendo quasi esclusivamente a voci di dentro, esistenzialmente coinvolte e inevitabilmente indulgenti, bisogna dire che ha mancato il bersaglio.

«Per me fu l’incontro con la felicità. C’era l’idea che il mondo non sarebbe stato più lo stesso», dice la sociologa Donatella Barazzetti. «Volevamo mettere al centro del mondo l’uomo. Non il profitto, le macchine, il commercio», testimonia Vincenzo De Girolamo, ristoratore. Nella maggior parte dei ricordi non c’è, né può esserci, la giusta distanza emotiva per dare ai fatti una prospettiva storica. Così, nonostante l’impegno di Mughini, manca chi dica che le parole di De Luca, il più consultato insieme a Marco Boato, sono inesatte e presuntuose. È lontano dal vero che i giovani che militarono in Lotta continua e nei gruppi extraparlamentari fossero «la maggioranza» di quella generazione. Anche durante i formidabili anni c’erano ragazzi che non ambivano a «fare la rivoluzione». Che semplicemente studiavano e facevano sport. Che frequentavano gli oratori e i movimenti cattolici. O militavano in formazioni diversamente orientate. La presunzione per cui chi partecipò alle formazioni di estrema sinistra stava facendo «la cosa giusta» è invece un vizio tuttora in auge se, solo il primo agosto scorso, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Sofri, Gad Lerner ne ha pubblicamente rimarcato la vita vissuta «dalla parte giusta». Nei ricordi, del leader di Lc qualcuno rimarca «la prosopopea» e la sfrontatezza con la quale, nell’affollata aula magna della Normale di Pisa, chiese a Palmiro Togliatti «perché non avete fatto la rivoluzione?».

Testimonianza dopo testimonianza si coagula la storia della parte buona del movimento. «Loro erano i più vivi e vitali, altro che le litanie del Libretto rosso di Mao», ammette Mughini. Davanti ai cancelli di Mirafiori le proteste degli operai si saldano con quelle degli studenti. Ma poco alla volta l’utopia cede il passo alla necessità di «alzare il livello dello scontro». Nel dicembre del 1969, dopo la strage di Piazza Fontana e la morte Luigi Pinelli, la situazione precipita. Nasce il servizio d’ordine, una  struttura parallela illegale. Si fa strada l’idea di ricorrere alla violenza. Nonostante De Luca parli di «anni di rame» prima dell’avvento degli anni di piombo, il 17 maggio 1972, a seguito di una lunga campagna denigratoria, viene ucciso il commissario Luigi Calabresi, assassinio che inaugura la stagione del terrorismo.

«Noi rifiutiamo l’idea che Lotta continua sia equiparabile a un’organizzazione terroristica», si difende Lerner. «Da Lotta continua nacque Prima linea. La violenza politica era il pane quotidiano di quegli anni e di quella gente», ribatte Mughini. Non sarà però il contrasto tra utopisti e fautori della lotta armata a portare alla fine di Lc. «È stato il femminismo a sciogliere Lotta continua. È il titolo voluto da Sofri», riconosce Paolo Liguori. «Sempre meglio dell’altro: Lotta continua si divide tra chi vuole la lotta armata e chi no». Dopo, gli ex militanti sono diventati una lobby? «L’ideologo è finito in galera, il leader carismatico, Mauro Rostagno, è stato ucciso dalla mafia, il capo dell’ala ecologista, Alex Langer, si è impiccato a un albicocco in Toscana», replica Boato. Prima di ammettere che, tra qualche decina di migliaia di militanti, alcuni di loro hanno conquistato ruoli di primo piano nel giornalismo, nella politica, nella cultura.

I ragazzi che volevano fare la rivoluzione è stato proiettato al Torino film festival suscitando, come ha rivelato Dagospia, non poche polemiche. Steve Della Casa, direttore artistico della manifestazione, fu l’organizzatore del corteo di Lc che portò al rogo del bar Angelo azzurro nel quale morì Roberto Crescenzio, uno studente-lavoratore di 22 anni. Per quei fatti Della Casa fu condannato a due anni con la condizionale. Ma se Torino, oltre a essere la città dove nacque e si sviluppò Lotta continua, è anche sede del Film festival, maggior cura si poteva chiedere alla Rai prima di proporre, dopo Esterno notte di Marco Bellocchio, un’altra opera contenente una visione parziale degli anni di piombo.

 

La Verità, 7 dicembre 2022

Mughini: «Che noia tutti questi sacerdoti del Bene»

Uffa, e basta la parola. Basta quell’esclamazione o quell’intercalare per figurarcelo subito, Giampiero Mughini: la postura, la chioma, l’occhio irrequieto, le giacche pittate e la parlata pittorica, la tonalità in levare, le mani roteanti per sostenere il ramificato argomentare. Presto Uffa campeggerà sulla copertina del libro in uscita da Marsilio (sottotitolo «Cartoline amare da un Paese in cui accadde di tutto»). Sarà un’antologia di corsivi pubblicati dal Foglio tra il 2005 e il 2006 – «anno fatale» – incorniciati da riflessioni sul presente per attualizzare polemiche mai sopite, anzi, ciclicamente risorgenti. La magistratura, Calciopoli, il terrorismo, l’Italia guelfa e ghibellina, divisa in fazioni pro e contro un leader più o meno divisivo, Silvio Berlusconi allora, Matteo Salvini oggi.

Mughini risponde tra un’ospitata televisiva, la parte minore e più redditizia del suo lavoro, e l’immersione nella poliedrica biblioteca, luogo dell’anima.

Perché nel libro Uffa è senza punto esclamativo a differenza del titolo della rubrica sul Foglio?

«Perché l’Uffa! originale era uno scatto nervoso, breve e tagliente nelle intenzioni, mentre chi leggerà adesso vi coglierà un ragionamento o lo spicchio narrativo di un pezzetto d’Italia. Sul giornale quei testi vivevano lo spazio di un mattino, in un libro hanno una responsabilità diversa alla quale il punto esclamativo non si confà».

È un’espressione che indica un certo snobismo o un moto di sufficienza. Oppure il retropensiero è che basterebbe un po’ di buon senso per smontare tante polemiche?

«La seconda che ha detto».

Retropensiero del retropensiero: viviamo in un’epoca autistica in cui ognuno segue i propri ragionamenti, incapace di ascoltare, dialogare, relazionarsi?

«È assolutamente così. Ognuno di noi insegue le proprie ossessioni, asserragliato in topografie dove dirimpetto c’è un nemico, sempre quello. Personalmente, quando inizio un ragionamento talvolta non so come lo finirò».

Perché non possiede certezze?

«Non possiedo verità ultimative. Più gli anni passano e meno ne so. Dare addosso a Salvini o esaltare le sardine 24 ore al dì è un pensiero che non si avvicina nemmeno all’anticamera del mio cervello».

Restando sull’incomunicabilità, quanto è lontana una pacificazione sugli anni del terrorismo?

«Non è lontanissima perché oggi non c’è un terrorista che si alzi a sostenere di aver avuto ragione. Erano delinquenti di strada e onestamente la più parte di loro lo ammette sia a sinistra che a destra, come mi testimoniano gli amici Valerio Morucci e Giusva Fioravanti».

Persiste qualche clamorosa eccezione, tipo Barbara Balzerani.

«Vero, Balzerani fu assai sgradevole quando parlò del mestiere della vittima. Detto questo, non sono sicuro che l’Italia abbia digerito bene quella stagione. Oggi nessuno estrae più una pistola, però tantissimi spasimano per fare a botte verbali. In tv, per esempio, se mi succede di essere coinvolto in un cosiddetto telescazzo me ne avvilisco».

Quelli che sono andati più vicini a una pacificazione sono la famiglia Calabresi e gli assassini del commissario Luigi, anche se di recente la vedova Pinelli ha ribadito le sue insinuazioni sulle circostanze della morte del marito?

«Penso che, se dopo aver abbracciato la vedova Gemma Calabresi, qualcuno ricomincia a dire di sapere come in realtà è andata o, più precisamente, pensa che nella stanzuccia della Questura di Milano qualche funzionario si sia avventato su Giuseppe Pinelli, la pacificazione non è possibile. Purtroppo, benché privi della pur minima prova, anche scritti recenti di autori di quella parte insistono sull’ipotesi del massacro».

Perché questa antologia di scritti riguarda l’annata 2005-2006?

«Perché il caso è divino. Nel luglio del 2005 mi chiamò il mio amico Giuliano Ferrara chiedendomi di iniziare quella rubrica due giorni dopo. Poi in quell’anno successe di tutto di più. Sia nella vita civile, per esempio con Calciopoli che, per milioni di italiani tifosi fu più importante di Tangentopoli, sia nella vita privata, perché i medici guardarono dentro e videro un tumore. Motivo per cui fu un anno molto particolare, al termine del quale capii che <prevenzione> è più importante di< rivoluzione>».

Woody Allen dice che l’espressione più desiderata al mondo non è sentirsi dire «ti amo», ma «è benigno».

(Risata). «Non sono Woody Allen e gli aforismi non mi vengono altrettanto bene».

Il suo aforisma ha risvolti culturali più significativi. L’amarezza citata nel sottotitolo del libro è aumentata o diminuita dal 2005?

«È aumentata esponenzialmente, innanzitutto per il fatto che data la mia età il compimento del mio destino personale si avvicina irreparabilmente. E poi a causa dello scombussolio e della degradazione della vita pubblica. Cito un fatto quasi banale. Ogni settimana vado per lavoro un paio di giorni a Milano, risiedo nel quartiere Isola dove la mia compagna possiede un piccolo appartamento. E ogni settimana ci trovo una novità, un’invenzione utile per la vita quotidiana. Quando ci si arriva provenendo da Roma, sembra di entrare in uno Stato progredito del Nord Europa. Pensare che Milano appartenga allo stesso Paese della Calabria, della Campania o della Sicilia è una balla che ci raccontiamo. Quand’ero ragazzo i giornalisti che venivano a Catania ne parlavano come della <Milano del sud>. Oggi a nessun emulo di Indro Montanelli o Luigi Barzini verrebbe in mente di usare un’espressione del genere per qualsiasi città meridionale».

Il lavoro cui fa riferimento è quello di opinionista televisivo che, da quanto si legge, sembra vivere con un certo disagio.

«Quello televisivo è solo una parte infinitesimale del mio lavoro, ma è la parte che vivo con maggior disagio nel timore che qualcuno mi fermi e mi dica che mi riconosce per gli occhiali che porto. Ringrazio la tv perché senza, con la crisi dei giornali cartacei, sarei in un ospizio. Assisto alla lenta scomparsa del mio mondo naturale e ho spesso la percezione che scrivere un libro significhi rivolgersi alla nicchia di una nicchia. A meno che non si scrivano libri contro Berlusconi o contro la camorra. Ma neppure se mi offrissero un milione mi conformerei a una tale banalità. Chi li scrive ha tutto il diritto di farlo, ma in genere i sacerdoti del bene mi annoiano».

Sono la categoria più popolare del momento.

«Con qualche risvolto grottesco, come quello che riguarda una simpatica ragazza sedicenne trasformata in una diva planetaria. Non c’è nulla di più lontano dalla mia idea di vita intellettuale: una terra nella quale il mondo diviso in bianco e nero non è previsto. Gli articoli dei sacerdoti e sacerdotesse del bene non li leggo, né seguo le loro prediche in tv».

La televisione non è adatta agli spiriti problematici e all’esercizio dei distinguo?

«Dipende da come la si usa. Ci sono anche cose buone… Una domenica sono stato ospite di Fabio Fazio per raccontare il primo romanzo di Italo Svevo e ho avuto la percezione della potenza della televisione, imparagonabile alla forza d’urto di un pur lucido e penetrante articolo di carta stampata. Milena Gabanelli, la miglior giornalista italiana, sintetizza in cinque minuti argomenti complessissimi rendendoli accessibili al grande pubblico».

Che cosa pensa del fatto che, secondo Worlds of journalism study i giornalisti italiani sono quelli più a sinistra d’Europa a fronte di una cittadinanza più moderata? Dipenderà anche da questo il calo delle vendite dei nostri giornali?

«Che i giornalisti volgano più spesso a sinistra è un fatto. Ma non dipende certo da quello che i ventenni e magari i trentenni non sappiano più che cos’è un giornale di carta».

In senso più lato, esiste una superficialità dei media e ancor più dei social media per cui i sentimenti più preziosi ne risultano distorti?

«Come si fa a frenare l’eruzione di esibizionismo e vacuità di quelle che chiamano influencer perché indirizzerebbero scelte e comportamenti dei seguaci in molti casi facendo sfoggio di culi e cosce?».

Secondo gli analisti gli influencer stanno rivoluzionando il concetto di lavoro e il rapporto tra tempo libero e occupato.

«Non sono iscritto a nessun social media, ma su whatsapp mi arrivano post di ragazzi che ridono, discettano e subissano i follower con messaggi autopromozionali. Sono nato in un’epoca nella quale ci avevano insegnato a dire sempre una cosa in meno piuttosto che una in più. Nei suoi ultimi venti o trent’anni, per suo stile di vita, mio padre mi avrà rivolto trenta frasi in tutto. Ma con ognuna di quelle parole mi ci nutrivo per dei mesi».

L’autorità esisteva.

«Mi ricordo che una volta, al ritorno da una manifestazione antifascista mi si avvicinò: “Tu sai che io stavo da quella parte…”. “Sì, papà”. Mi aspettavo una replica, qualcosa. Invece, non disse una parola al figlio che insultava la sua storia; nulla. Ancora oggi rabbrividisco al pensiero di quel suo silenzio».

Oggi l’esibizione del privato fa conquistare le copertine…

«Mi deprime l’esibizione sconcertante dello scorrazzamento da un letto all’altro pur di ottenere un numero maggiore di like».

È corretto se dico che il punto dove lei è meno problematico è la condanna di Matteo Salvini?

«Non troverà una mia parola offensiva nei suoi confronti neanche col microscopio. E dal momento in cui ha ipotizzato Mario Draghi capo del governo sono attento a certi percorsi zigzaganti che potrebbero portare delle sorprese. Giancarlo Giorgetti è una figura che arricchisce le posizioni di Salvini, destinate a galvanizzare l’elettorato. Penso che se andassi a cena con Giorgetti condividerei il 50 o 60% dei suoi argomenti».

Se la sovranità che appartiene al popolo è citata nel primo articolo della Costituzione non sarà un’idea tanto fascista, o sbaglio?

«La parola “sovranità” è una scodella che si può riempire di contenuti i più vari. Dipende da come viene esercitata nel rapporto con i paesi vicini. Senza dimenticare il fatto che abbiamo il terzo debito pubblico del mondo».

Le sardine la persuadono?

«Persuadermi no, mi sono simpatiche, ma credo saranno un fenomeno di breve durata. Ho visto spesso in tv Mattia Santori e l’ho ascoltato dire che non metterà mai piede a Rete 4. Siccome io vado spesso a Stasera Italia di Barbara Palombelli mi sono sentito offeso».

Approva un movimento che nasce solo anti qualcuno?

«Apprezzo il fatto che dimostrino che la piazza può essere occupata anche da gente con silhouette diverse da quella di Salvini».

Un movimento filo governativo e fiancheggiatore dell’establishment?

«No, perché oggi è tutto mescolato. Non è come al tempo in cui le schiere dell’eskimo stavano sulla sponda opposta rispetto alle schiere dei Ray-ban. Le ripartizioni novecentesche non aiutano a sezionare questo grande ceto medio che comprende quasi tutta la società, eccezion fatta per pochi poveri e ancor meno straricchi».

Ha anche lei la sensazione che, come i girotondi e il popolo viola, anche le sardine sembrano un movimento che presume di rappresentare la parte migliore dell’Italia?

«La presunzione è un peccato di gioventù. Da ragazzo pensavo di sapere tutto e le prime volte che parlavo in pubblico avevo un’insopportabile aria da guru. Mentre in realtà non sapevo un cazzo di niente».

È fuorviante coccolare questi giovani inesperti e proporli come modello?

«I mass media vivono di questo. Appena è comparsa Greta Thunberg sono esplosi i peana. Cosa può sapere una sedicenne della complessità dello sviluppo economico e dei cicli climatici? Eppure c’è chi l’ha proposta per il Nobel della pace. Succede. Ma di fronte allo spettacolo che offrono certi adulti che si azzuffano in Parlamento prima di rimproverare i giovani ci penso due volte. Avevo apprezzato l’apertura del loro leader romano che si era detto favorevole alla presenza di Casapound alla manifestazione in Piazza san Giovanni. Forse era eccessivo, ma era un bel segnale».

È un movimento contro l’odio, ma a volte, pensando di essere nel giusto, sembra che sia più violento l’odio degli altri.

«Questa è una buonissima riflessione sulla quale mi esercito da decenni. Mi vanto di essere uno che ha collaborato tante volte a placare gli animi. Nel 1981 realizzai per la Rai Nero è bello, un documentario in cui da sinistra raccontavo in modo civile e rispettoso i militanti della nuova destra. Vorrei che sulla mia tomba fosse scritto: “L’autore di Nero è bello”».

Quanto durerà questo governo? Ed è giusto che stia in piedi a ogni costo?

«Potrebbe durare tre ore o anche tre anni, ma penso che sarebbero anni di mediocrità. Io sono favorevole a una coalizione repubblicana perché ritengo che, in un momento di grave difficoltà come questo, possa aiutarci a superare la paralisi e a rispondere alla domanda relativa al fatto che, da 25 anni, l’economia italiana ha il peggiore indice di produttività di tutti i paesi moderni».

 

Panorama, 8 gennaio 2020