Tag Archivio per: Camisasca

«Il Papa boccia il riarmo non il diritto alla difesa»

Monsignor Massimo Camisasca è tornato a vivere in riva al lago Maggiore. Avendo compiuto 75 anni lo scorso novembre, ora è vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, l’ultima diocesi da lui presieduta. «Sto organizzandomi una nuova vita», rivela fiducioso. Autore di numerosi saggi di materia religiosa e non solo, monsignor Camisasca è superiore generale oltre che fondatore della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo. Ha accettato di rispondere alle domande della Verità sulla possibilità di un negoziato della Santa Sede nella crisi in atto e sull’atto di consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore immacolato di Maria pronunciato ieri in San Pietro da papa Francesco.

Eccellenza, con che occhi dobbiamo guardare a questa azione del Santo Padre?

«Con gli occhi realistici di chi sa che la guerra trova la sua origine nel cuore degli uomini, talvolta anche di un uomo solo, e che Dio soltanto può convertire i cuori. La storia umana non è costruita da puri determinismi, è un intreccio di libertà. La preghiera mira ad ottenere che la libertà dell’uomo si indirizzi verso il bene e non verso il male».

Da che cosa nasce precisamente questo atto di papa Francesco?

«Dalla percezione che il mondo sta correndo un gravissimo rischio. Che migliaia di persone stanno morendo, che decine di migliaia stanno cercando fuori del loro paese il futuro. Gli occhi disperati delle madri, i volti terrorizzati dei bambini rimarranno come l’icona di questi giorni spaventosi».

Quali sono a suo avviso i passaggi fondamentali della consacrazione pronunciata da papa Francesco?

«Il Papa sa che i popoli russo ed ucraino riconoscono in Maria la Madre di Dio e la loro madre. Perciò si rivolge a Maria per dirle: “Questi popoli sono consacrati a Te, sono tuoi, difendili, aiutali, sorreggili, fa che si incontrino nella pace del tuo volto”. Nello stesso tempo si rivolge alle singole persone, soprattutto ai capi dei popoli e, in questo caso, agli aggressori perché si rendano conto del male che stanno compiendo, della responsabilità che portano di fronte alla storia, delle onde concentriche di distruzione che la guerra comporta».

Come va letto il fatto che il Papa abbia fatto riferimento esplicito alla «minaccia nucleare»?

«La minaccia nucleare è sempre un’opzione possibile e naturalmente terribile perché probabilmente comporterebbe una distruzione di gran parte della terra. Bisogna dire anche che la stessa minaccia costituisce forse il deterrente più serio di fronte al suo uso».

In che modo il fatto che questa consacrazione sia avvenuta contemporaneamente in San Pietro e a Fatima con il cardinale Konrad Krajewski la mette in relazione ai segreti affidati alle apparizioni di oltre un secolo fa?

«Più che ai segreti penserei all’evento stesso di Fatima, alle distruzioni provocate dalla Prima guerra mondiale, alle lotte tra popoli cristiani, alla dissoluzione dell’Europa che la guerra portò con sé, alla finta pacificazione, prodromo della Seconda guerra mondiale. La Madonna interviene nei campi di guerra. Questo mi sembra il collegamento storico tra Fatima e Kiev. Anche allora la Madonna chiese preghiere e digiuno, come ha continuato a chiedere in questi anni Duemila anche dalla martoriata Bosnia, da Medjugorje».

Come dobbiamo considerare il fatto che in questa occasione anche Benedetto XVI, papa emerito, si è unito in preghiera a papa Francesco?

«Benedetto XVI è, soprattutto in questi ultimi anni, una figura orante. Assieme al Papa supplica Dio come Mosè sul monte».

È significativo il fatto che lo sguardo di Francesco dalla Russia e l’Ucraina si allarghi a «tutti i popoli falcidiati dalla guerra, dalla fame, dall’ingiustizia e dalla miseria»?

«Il mondo contemporaneo conosce un numero significativo di guerre locali, più o meno grandi, quelle che papa Francesco ha chiamato “la terza guerra mondiale a pezzi”. La fine del bipolarismo ha accentuato il sorgere di questi conflitti, per lo più dimenticati. Francesco, come i suoi predecessori, continua a metterci davanti questa mappa del dolore affinché abbiamo a sentire l’urgenza del cambiamento».

Parlando di cambiamento, l’ultima invocazione è una preghiera che invita i cristiani a essere «artigiani della comunione» e a individuare «i sentieri della pace»?

«La ragione per cui esiste la Chiesa, Corpo di Cristo fatto di peccatori e perciò segnata da mille macchie di infedeltà, divisioni e colpe dei suoi membri, è di portare nel mondo la comunione che Cristo ha definitivamente inaugurato con la sua morte e resurrezione. Il cristiano è artigiano della comunione vivendo la vita della Chiesa e chiamando a essa gli uomini che possono trovare nell’abbraccio di Cristo il fondamento e la forza di una fraternità ritrovata».

In altre occasioni la consacrazione al cuore immacolato di Maria aveva riguardato solo la Russia.

«Suor Lucia aveva trasmesso ai papi questa richiesta insistente della Madonna: consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Questa consacrazione è avvenuta più volte da Pio XII ad oggi, con maggiore o minore esplicitezza. Oggi non c’è più nessuna ragione per cui il nome della Russia non possa essere accostato a quello di Maria».

Dicendo che la spesa per le armi «è scandalosa», papa Francesco ha corretto il segretario di Stato Pietro Parolin?

«Non penso proprio. Come ha rivelato Zelensky il Papa sa che accanto a mille guerre ingiuste vi può essere il diritto di difesa. Il mercato delle armi, incrementato dopo la fine del bipolarismo, è una delle cause principali delle guerre. Altra cosa è fornire un aiuto, anche militare, a chi sta combattendo un’occupazione del proprio territorio nazionale».

L’altro giorno, parlando a braccio, Francesco ha detto di essersi «vergognato» quando ha letto che un «gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2% del Pil nell’acquisto di armi come risposta a quello che sta succedendo… Pazzi». A qualcuno nel nostro governo saranno fischiate le orecchie: è indispensabile questo aumento di spese militari?

«Penso che il Papa sia preoccupato di una possibile corsa al riarmo, di una escalation che porti da una e dall’altra parte a tempi lontani quando ci si confrontava tra Unione Sovietica e Nato e con fatica si arrivò poi a degli accordi sul disarmo. Certo, una potenza che ha occupato ingiustamente la mia terra esige una difesa da parte mia. Occorre bilanciare il diritto alla difesa con una diplomazia saggia che sappia lavorare per evitare le guerre».

Perché secondo lei oltre alla condanna della guerra «ripugnante» e la denuncia della spesa in armi che «non è un gesto neutrale», Francesco non ha pronunciato una condanna esplicita dell’azione di Vladimir Putin?

«Un’autorità mondiale come il Papa deve essere attenta a ciò che dice. La sua condanna dell’aggressione russa è inequivocabile. Nello stesso tempo, deve sempre salvare la possibilità di un negoziato. La Santa Sede rimane oggi tra le poche istituzioni in grado di essere protagoniste in una trattativa di pace».

Che ruolo possono avere i capi delle diverse confessioni religiose?

«La più importante confessione religiosa di Russia e Ucraina è quella ortodossa. Le sue divisioni interne rendono ininfluente la sua possibilità di mediazione».

Alcuni osservatori ritengono che l’aggressione della Russia vada compresa all’interno di un attacco al mondo occidentale. Va interpretata così l’omelia di qualche giorno fa del primate ortodosso Kirill?

«Non so se l’aggressione di Putin riguardi il mondo occidentale. Penso che egli sappia benissimo che dal punto di vista militare la Russia non può competere con l’Occidente. Per conoscere con esattezza le ragioni dell’aggressione bisognerebbe poter entrare nella mente di Putin. Penso che in lui vi siano una serie di paure: l’adesione dell’Ucraina alla Nato, più ancora la democrazia che stava nascendo a Kiev, l’adesione all’Unione Europea… L’Europa ha avuto interlocutori interessati verso Putin, ma non interlocutori sufficientemente intelligenti per capire le sue intenzioni ed eventualmente aiutare le autorità europee nelle decisioni da prendere. L’Europa ha tenuto il piede in due scarpe, ottenendo questi risultati spaventosi. Al di là di tutte queste ipotesi, ora c’è un obiettivo chiaro: sconfiggere l’aggressore e ripensare la politica estera commerciale energetica dell’intera Europa. Non dobbiamo mettere la Russia in un angolo. Oltre che impossibile, sarebbe una scelta politica cieca. La Russia va lentamente recuperata all’Europa affinché non abbia soltanto la Cina come alleato».

Ha ascoltato l’intervento del presidente Volodymyr Zelensky al Parlamento italiano?

«L’ho letto. Dalla serie di interventi che il presidente ucraino ha tenuto in questi giorni nei parlamenti di tanti Paesi di tutto il mondo emerge una statura morale e politica non comune, che suscita la mia ammirazione e mi fa pensare al coraggio e alla cultura di tutto quel popolo».

In questi giorni si sono riuniti a Bruxelles i capi di Stato occidentali. Dal suo punto di vista, ritiene che l’Europa dovrebbe ritagliarsi una maggiore autonomia rispetto agli Stati Uniti in difesa della propria storia e della propria convivenza pacifica?

«La debolezza dell’Europa sta nella rinuncia, tacitamente o esplicitamente affermata, alla propria storia, ai propri valori religiosi e morali a favore di una tecnocrazia mondiale in cui i diritti dell’individuo diventano la radice del suo isolamento e della sua nudità davanti al potere».

Il Papa dovrebbe considerare l’invito che proviene da più parti, in particolare dal presidente ucraino Zelensky, a recarsi a Kiev per compiere un gesto concreto di pace? Si pensa a quali rischi si esporrebbe?

«Papa Giovanni Paolo II voleva andare a Sarajevo. Sono stato testimone diretto, in un pranzo, di questa sua intenzione. Ne fu sconsigliato e infine impedito per ragioni di sicurezza. Se fossi papa Francesco prenderei in seria considerazione questo invito».

 

La Verità, 26 marzo 2022

 

Anche nella Chiesa c’è chi si oppone alla serrata

Anche nella Chiesa c’è chi dice no. Anche nelle gerarchie qualcuno non si conforma, alza il ditino e fa sentire la sua voce dissonante. Era ora. Sono tre vescovi poco celebrati dai media smaltati del pensiero unico. In rapida successione, Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, Massimo Camisasca, presule di Reggio Emilia-Guastalla, e Corrado Sanguineti, capo della diocesi di Pavia, hanno incrinato la lastra di cristallo calata sulle nostre teste dalla comunicazione globale. Ognuno con il proprio stile, tutti con un certo coraggio. «Non conformatevi»: bastano le due parole-manifesto della Lettera di San Paolo ai Romani (12, 2) a spiegare perché era ora che qualcuno lo facesse.

Da mesi stiamo vivendo una situazione inedita, pervasiva e apocalittica. Nonostante gli annunci della Pfizer, non riusciamo ancora a intravederne la conclusione e a immaginare come saremo, se ci saremo, quando tutto finirà. Siamo ostaggi di un microrganismo invisibile. I virologi, di cui pochi mesi fa nemmeno conoscevamo l’esistenza, sono diventati gli oracoli delle nostre serate, sebbene si contraddicano di frequente. Su qualsiasi canale radiotelevisivo ci si sintonizzi si sente parlare solo di Covid e di contagi, spesso in dibattiti infuocati da dissensi e scomuniche politiche, culturali, scientifiche. E la Chiesa? Come si è comportata la Chiesa in questa congiuntura tanto drammatica? Quali parole ha pronunciato per confortare i fedeli e suggerire una traiettoria al mondo? Si è uniformata o ha rappresentato una differenza? Si può dire che dopo la Preghiera di papa Francesco nella piazza San Pietro deserta del 27 marzo scorso ha subito il lockdown religioso senza eccepire (chi l’ha fatto, da monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, a don Lino Viola, parroco di Soncino, è stato sconfessato)? Si può dire che, salvo qualche esibizione di buonismo religioso (forse neanche un redivivo Norberto Bobbio saprebbe condurre alla «mitezza» i ristoratori poco ristorati), è stata passiva anche in termini di giudizio?

Ora però, sembra che finalmente qualcosa inizi a muoversi. Qualche giorno fa, in una lettera al Corriere della sera, monsignor Sanguineti, ha parlato di «morte sociale». Tornare a un nuovo lockdown totale «sarebbe un colpo terribile e insostenibile per la nostra economia e per la tenuta psicologica e sociale del Paese», ha messo in guardia il vescovo di Pavia. «Non si muore solo di Covid o di altre malattie, esiste anche una morte sociale e culturale che fa le sue vittime nelle famiglie e nelle persone più fragili». Bisogna tenere aperte le scuole, come stanno facendo Francia e Germania che pur avendo chiuso tutto non hanno interrotto le lezioni in presenza. «Un Paese vive non solo di salute e lavoro, ma anche di cultura e spiritualità: per questo motivo occorre, appena possibile, dare spazio alle attività di teatri e di cinema, così come alla coltivazione delle arti e della musica», ha caldeggiato Sanguineti.

«La salvezza è stata spesso ridotta alla salute e il bene comune è stato fatto coincidere con l’applicazione delle restrizioni del governo», ha denunciato monsignor Crepaldi nella Lectio magistralis tenuta il 17 ottobre in occasione della Terza giornata della dottrina sociale della Chiesa, organizzata con l’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân. Ancora più forte la preoccupazione espressa in una lettera di monsignor Camisasca ai preti della diocesi: «Il nostro popolo, già provato dalla pandemia nei mesi del lockdown, può correre il rischio di entrare in una visione paranoica della realtà, distaccata cioè dalle vere dimensioni del pericolo». Intervistato da Nicola Porro a Quarta Repubblica, il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla ha spiegato che ha voluto invitare la popolazione a «non chiudersi in casa», a non ripiegarsi su sé stessa nel tentativo di superare questo momento difficile. Causato da un’informazione ansiogena e deformata che ha «accentuato gli aspetti polarizzanti della situazione»; «dal dissidio fra gli scienziati», i quali non possiedono dogmi, ma fanno delle ricerche e come tali devono presentarle; infine, dalla difficoltà della politica nel «dare chiarezza sul futuro alle persone».

Insomma, qualcuno nelle gerarchie comincia a chiedersi, con circospezione per non provocare reazioni in Vaticano, se le misure adottate dalle istituzioni siano proporzionate alla reale gravità del momento. E se invece, approfittando della pandemia si stiano insinuando nuove ideologie e nuove convenienze. «Ci sono molti centri di potere politico e finanziario», ha detto monsignor Crepaldi, «che intendono usufruire della pandemia per riorganizzare, in un senso che non può lasciarci tranquilli, l’economia mondiale». Nei primi sei mesi dell’anno, per esempio, mentre si è registrato un crollo della produzione mondiale del 10%, le 90 aziende top dell’informatica hanno aumentato il fatturato di 800 miliardi. «L’economia viene così colonizzata da un lato da un nuovo statalismo e dall’altro da un nuovo mondialismo, due coltri ideologiche che la trasformano in diseconomia», osserva l’arcivescovo. E sulla spinta della pandemia si richiede alla popolazione di cambiare stili di vita. Ma se questo può avere un senso, non dobbiamo farlo «assumendo quelli imposti da un supposto nuovo ordine mondiale, bensì quelli collegati con la natura dell’uomo, la famiglia, la vita. Come mai tra i cambiamenti di vita proposti non c’è mai la riscoperta della famiglia, del matrimonio, della procreazione secondo modalità umane, dell’importanza anche economica ed ecologica della natalità?». Se si basa il concetto di fratellanza tra i popoli «su ragioni riconducibili all’economia, allora si deforma anche l’economia. Mi sembra essere questa la situazione dell’Unione europea… Infatti in Europa sembrerebbe nata la nuova religione ecologista», alla quale acriticamente si accodano settori importanti della Chiesa e del mondo cattolico. «Si spendono somme enormi per difendere la natura più che per difendere l’uomo», ammonisce l’arcivescovo di Trieste. Ma «se impostiamo l’economia sui consumi individuali e prevalentemente voluttuari, una società senza figli, senza famiglia, fatta di individui asessuati o dalla sessualità polivalente che lavorano per consumare e consumano per lavorare è senz’altro attraente per gli operatori economici senza scrupoli», conclude Crepaldi la sua Lectio che andrebbe letta integralmente.

«Non conformatevi alla mentalità di questo secolo (mondo ndr)», conclude Paolo rivolto ai cristiani di Roma, «ma trasformatevi, rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto». È un’esortazione utile anche oggi.

 

La Verità, 11 novembre 2020

 

 

«Non siamo più cittadini, ma solo degli ammalati»

Buongiorno Aldo Maria Valli, lei porta la mascherina?
Glielo chiedo per fugare eventuali dubbi su una sua sottovalutazione del pericolo determinato dal Covid-19.

«Sì, la indosso, secondo le norme stabilite. Non credo nella sua efficacia – un epidemiologo mi ha spiegato che è come pretendere di bloccare i moscerini con una staccionata – ma non ho nessuna intenzione di farmi multare. Già lo Stato mi tartassa con il fisco. La vera resistenza la faccio scrivendo».

L’ultima cosa che Valli ha scritto è Virus e Leviatano, un agile e lucidissimo saggio per l’editrice Liberilibri, nel quale offre una visione molto controcorrente del tempo della pandemia e soprattutto della sua gestione da parte della politica, dei media e anche della Chiesa. In questa intervista, l’ex vaticanista del Tg1 nonché autore del seguitissimo blog Duc in altum, si esprime anche sulle parole di papa Francesco a proposito delle coppie gay e il loro diritto di «essere in una famiglia».

Il primo capitolo del suo libro s’intitola «Un dispotismo statalista, condiviso e terapeutico». Come può un dispotismo essere condiviso?

«Non è la prima volta che una collettività si fa irretire. Étienne de La Boétie, nel suo Discorso sulla servitù volontaria, dice che sono i popoli stessi che si lasciano incatenare. “È il popolo che si fa servo, che si taglia la gola da solo”. Perché? Per paura, ignoranza, passività, vigliaccheria. Per scarso amore della libertà».

Per dispotismo terapeutico intende che il rapporto tra politico e cittadino somiglia a quello tra medico e paziente?

«Non siamo più cittadini, ma malati. Il politico ha assunto il ruolo del medico. La nazione è diventata un ospedale. Il rapporto medico-paziente è ben diverso da quello politico-cittadino: è asimmetrico. Ciò che il medico stabilisce, per il tuo bene, non lo metti in discussione. Ti assoggetti e lo ringrazi pure».

I cittadini diventano docili e pronti a rinunciare a quote di libertà sull’altare della salute?

«Nel mio saggio scrivo Salute con la maiuscola, perché questo è diventato il valore assoluto, a cui sacrificare tutto, compresi i diritti di libertà. Pretesa assurda e pericolosa. La salute è sì un bene primario, ma se viene trasformato in assoluto può essere usato, come di fatto sta avvenendo, in modo strumentale».

Come spiega il fatto che i famosi Dpcm contengano esortazioni a comportamenti virtuosi, a rispettare regole di convivenza, a restare in casa?

«Proprio con il dispotismo terapeutico, con questo paternalismo che tratta i cittadini come sudditi sciocchi, come bambini incapaci di gestirsi, per cui si arriva al punto di mettere il naso nelle abitazioni private, di voler regolare minuziosamente ogni comportamento. Precedenti pericolosissimi».

Che ruolo ha l’informazione nella creazione di questo scenario?

«Decisivo. Il dispotismo terapeutico per essere condiviso ha bisogno dei mass media, di una narrativa appropriata. Ha bisogno del terrore, e il terrore va diffuso mediante l’informazione».

Cosa indica che proprio ora sia nata la prima task force contro le fake news?

«Un provvedimento del tutto illiberale. Non può essere il governo a stabilire che cosa è vero e che cosa è menzogna, a priori. Di nuovo i cittadini sono trattati come bambini incapaci di giudicare. In una democrazia liberale il cittadino si forma le opinioni attraverso il libero confronto».

Sbagliano coloro che, rilevando i successi contro il Covid di Cina e Vietnam, hanno sottolineato i vantaggi delle dittature nei momenti di crisi?

«Mi sembra difficile parlare di successo nel caso della Cina, visto che il virus è stato un suo gentile omaggio. Nel caso del Vietnam c’è da dire che il paese, visti gli stretti legami con la Cina, ha giocato d’anticipo rispetto al resto del mondo, con provvedimenti ad hoc e stretti controlli sui cinesi, specie se in arrivo da Wuhan. Ma se diciamo che le dittature sono meglio delle democrazie nei momenti di crisi facciamo proprio il gioco di chi ci vuole incatenare».

Anche l’Oms avvalora la tesi che la Cina è il paese che ha risposto meglio all’epidemia.

«E lo credo! Il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, è amicissimo del regime cinese. È etiope, e la Cina sta facendo investimenti notevolissimi in Etiopia. Tra i grandi elettori di Ghebreyesus all’Oms la Cina ha svolto un ruolo decisivo».

Per la Chiesa cattolica la pandemia è stata un’occasione mancata?

«Purtroppo, sì. Non ha parlato di santificazione, ma solo di sanificazione. Si è lasciata contagiare dal terrore. Non ha detto nulla circa i grandi temi della morte e del peccato. Si è piegata ai diktat governativi. Non ha rivendicato la propria autonomia. Si è mostrata più realista del re. È diventata Chiesa di Stato. Va bene il senso di responsabilità, ma non ti puoi annullare. La liturgia ha assunto connotati grotteschi. Siamo diventati adoratori dell’amuchina. Abbiamo trattato Gesù come un untore».

Come spiega il fatto che, salvo rare eccezioni, abbia accettato in modo acquiescente il lockdown religioso imposto dalle autorità civili?

«Connivenza, paura, accettazione passiva, arrendevolezza. C’è di tutto. Ma sopra a tutto c’è una spaventosa mancanza di fede».

Condivide il giudizio di monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, che ha ravvisato il pericolo del diffondersi di «una visione paranoica della realtà»?

«Certamente. Siamo già paranoici. Parliamo dei positivi come se fossero malati. Siamo tutti terrorizzati. Non solo di beccarci il virus, ma anche di non saper rispettare le norme. Non esaminiamo i fatti, ma ci lasciamo prendere da mille suggestioni. La crisi della ragione procede parallelamente a quella della fede».

In questi giorni il mondo cattolico è agitato dalle parole di papa Francesco sul diritto delle coppie gay a «essere in una famiglia». Che idea si è fatto di queste dichiarazioni?

«Francesco è circondato da una potente lobby gay che ha lavorato per arrivare a questo risultato. Ma si tratta di dichiarazioni private di Bergoglio: il cattolico non è tenuto per nulla a farle proprie».

Ora sta emergendo la manipolazione cui sono state sottoposte le parole del Papa, fatto che si ripete. Ma sembra che Francesco accetti il rischio.

«Non solo lo accetta, ma lo favorisce. È un’operazione decisa a tavolino. Bergoglio provoca la parte sana della Chiesa così che qualcuno, vescovo o cardinale, lo accusi di apostasia. A quel punto lui avrebbe gioco facile, con l’appoggio della grande stampa amica, nel puntare il dito contro i “nemici della Chiesa” e gridare al complotto contro il povero Papa buono e tanto amato dal popolo».

Questi travisamenti ricorrenti riguardano una tecnica di comunicazione o la concezione stessa del ruolo della Chiesa nel mondo?

«Entrambe le cose. L’obiettivo è una religione mondialista sostenuta da una nuova Chiesa schierata con il mondo. La narrativa appropriata serve come strumento».

Meglio una Chiesa che si contamina e traffica il talento o una Chiesa austera ed estranea ai dibattiti della contemporaneità?

«La Chiesa è nella storia e si è sempre mescolata al mondo. Ma ben sapendo che pur essendo in questo mondo non è di questo mondo. Gli slogan sulla “Chiesa in uscita” sono banalizzazioni. La Chiesa è di per sé in uscita perché fa evangelizzazione. Il problema vero è rimettere al centro Gesù e la legge divina».

Tornando all’emergenza Covid, è possibile dissentire dal conformismo prevalente senza essere scomunicati con l’accusa di negazionismo?

«Sì, occorre resistere alla narrativa dominante. Dire chiaramente che essere tacciati di negazionismo è un’infamia. Nessuno nega l’esistenza del virus. Si vuole solo stare alla realtà e combattere l’uso strumentale della pandemia».

Certe manifestazioni di dissenso, condite di complottismo folcloristico quando non becero, avvalorano queste accuse?

«Temo di sì. Io non amo le manifestazioni di piazza: preferisco il ragionamento pacato. Comunque, se si organizza una manifestazione occorre farlo bene, evitando esiti controproducenti».

Si pensava che lo stato di emergenza servisse a snellire le burocrazie per migliorare i servizi al cittadino in condizioni di urgenza, ma non è avvenuto: a cosa serve realmente?

«Lo stato di emergenza serve a incatenare i cittadini, a farli sentire sudditi incapaci di gestirsi, bambini irresponsabili bisognosi di una guida paternalistica. È il frutto di un governo debole il quale, proprio perché avverte la propria debolezza, punta sull’autoritarismo».

Teme che questo stato di eccezione possa diventare norma?

«Questo timore è ciò che mi ha spinto a scrivere Virus e Leviatano. Stiamo dando vita a un precedente pericoloso. L’unione perversa di biopolitica e bioinformazione ha inferto un duro colpo al sistema democratico liberale di stampo parlamentare. Un vulnus che potrebbe diventare permanente».

Pensa che la sottomissione dei cittadini al nuovo dispotismo statalista sia un disegno perseguito o l’esito inevitabile del virus dell’ideologia mai davvero estirpato nell’establishment politico e culturale?

«Dopo tanti anni di giornalismo posso dire tranquillamente di essere complottista. Perché il potere complotta sempre. E tanto più grandi sono gli interessi tanto più ampio è il complotto. Che avviene lontano dai riflettori, in quelli che potremmo definire i “santuari” dei padroni del caos. Ma l’aiuto degli utili idioti è sempre di fondamentale importanza».

Come valuta il fatto che stiamo progressivamente tornando in una situazione di confinamento?

«Alla fin fine è un fatto culturale. Non si viene più educati alla libertà, all’amore per la libertà. Siamo narcotizzati. Abbiamo l’illusione di essere al corrente di tutto e non sappiamo niente. Non studiamo e ci lasciamo condizionare. Dobbiamo imparare di nuovo a pensare. Ma com’è possibile se passiamo tutto il tempo sui social o davanti a programmi televisivi beceri? Huizinga in La crisi della civiltà scrisse che se si vuole ripartire occorre essere consapevoli, per prima cosa, di quanto sia già progredita la dissoluzione».

 

La Verità, 24 ottobre 2020

«Ingigantire il pericolo causa visioni paranoiche»

Una paginetta esplosiva. Che potrebbe intitolarsi «La fede al tempo del Covid». E invece è la lettera che un paio di giorni fa monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, ha inviato ai sacerdoti della diocesi per esortarli ad accompagnare i fedeli «a vivere con prudenza, ma anche con serenità, fiducia in Dio e capacità di relazioni» il momento che stiamo attraversando. Parole che nascono da un allarme diverso da quello che troviamo tutti i giorni nei media: «Il nostro popolo può correre il rischio di entrare in una visione paranoica della realtà».

Eccellenza, che cosa intende con questa espressione così forte?

«Oggi oltre ai gravi problemi di salute e ai gravi problemi economici – penso alla perdita del posto di lavoro di decine di migliaia di persone – dobbiamo affrontare gravissimi problemi di natura psicologica. Il lockdown ha rappresentato un tempo destabilizzante. Dobbiamo perciò aiutare le persone a uscire dall’angoscia generata dall’ipotesi del ripresentarsi di una situazione già vista. Capisco che coniugare attenzione e libertà non sia facile, ma io preferisco puntare sulla maturità delle persone».

Questa lettera è stata un’iniziativa coraggiosa.

«A me sembra abbastanza ovvia, ci ho messo non più di tre minuti a scrivere queste righe. Ma dato che mi hanno risposto da tutto il mondo vuol dire che è importante. Anche il passaparola di tanti amici sparsi in diversi paesi e legati alla diocesi, alla Fraternità San Carlo e al movimento di Cl ha contribuito a questo volano di trasmissione. La grande quantità di ringraziamenti è il segno che le persone hanno bisogno di essere sostenute nella loro fede e speranza. C’è una sete che non trova correnti d’acqua capaci di appagarla».

Perché ha deciso di scrivere ai suoi sacerdoti?

«Perché vedo, non solo in loro ma in tanta parte del popolo, un’ansia esagerata. Non perché non ci siano motivi di preoccupazione. Ma perché le persone devono essere sempre mosse da qualcosa di più grande. Per i cristiani è la fede. La fede ci insegna che Dio non abbandona mai il suo popolo. Lo accompagna e guida, insegnandogli a vivere le circostanze del presente».

Come spiega il fatto che un documento pastorale sia diventato virale nei siti e nelle chat dei fedeli?

«Perché i fedeli hanno sete di parole incoraggianti. Invece sono troppo sottoposti a una pioggia di parole deprimenti, per giunta in contrasto tra loro».

Lei parla di «crescita di allarme e incertezza, favorita anche dai mass media e dalle insicurezze della politica». È critico nei confronti della visione corrente?

«Nei giornali, che pure svolgono un servizio fondamentale che non voglio dimenticare, vedo un accento eccessivamente apocalittico. E così anche negli annunci che vengono dalla politica: non vedo la capacità di infondere coraggio insieme alle indicazioni di prudenza».

Dice che la paranoia è una visione «distaccata dalle vere dimensioni del pericolo»: non teme l’accusa di negazionismo?

«No, il pericolo ce l’ho davanti ai miei occhi con molta chiarezza. Alcuni miei amici sono morti e molti sono passati attraverso la durissima prova del Covid. Ma non è ingigantendo il pericolo che si danno alle persone le armi per affrontarlo».

Non pensa che l’allarme diffuso dalle autorità e dai media sia giustificato dai dati dei bollettini sanitari quotidiani?

«Penso che dobbiamo mantenere dei comportamenti prudenti. Non a caso in conclusione della mia lettera sottolineo che non dobbiamo “demordere da tutte le attenzioni dovute, come la mascherina, l’igiene delle mani e il distanziamento” pur continuando a vivere».

Parla di «timori esagerati» che possono corrodere «la salute mentale ed emotiva». Ha già trovato tracce di questa corrosione?

«Purtroppo ne ho trovate molte. Soprattutto nelle relazioni difficili che la anormalità dei rapporti ha fatto esplodere».

Situazioni di depressione?

«Depressione, sì; anche stati d’ansia e una diminuita lucidità nella lettura degli avvenimenti».

Cosa vuol dire scrivendo che «le ragioni della vita sono le ragioni della fede»?

«Voglio dire questo: qual è l’antidoto alla paura? Molti risponderebbero il coraggio ma, come diceva giustamente don Abbondio, il coraggio non ce lo si può dare. Dalla paura non si esce con le proprie forze. Occorre riconoscere che c’è qualcuno che ci prende per mano e ci insegna come attraversare il buio verso la luce. Nei Promessi sposi, quando Renzo nel lazzaretto cerca Lucia, a un certo punto sente questa voce: “Abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora ci custodirà anche in avanti”. È il senso della mia frase».

Molti osservano che è normale che in una situazione così le parole degli scienziati contino più di prima, mentre altri lamentano che la scienza stia diventando una nuova religione: chi ha ragione?

«Innanzitutto, devo ringraziare quegli scienziati che in questi mesi, ma anche nel tempo passato, hanno lavorato per aiutarci nei problemi più gravi relativi alla nostra salute. A questo ringraziamento però devo aggiungere che nell’ultimo anno abbiamo assistito a una discordanza molto profonda tra loro. Questo non sarebbe un male, è naturale che sia così perché la scienza non è un dogma. Purtroppo, però, ho sentito alcuni scienziati parlare come se stessero rivelando dei dogmi».

La salute rischia di diventare un nuovo idolo?

«Rischia di essere un nuovo idolo perché non si crede più alla vita oltre la morte. Se tutto finisce con la morte, la salute diventa una divinità».

Qualcosa di inscalfibile.

«Eppure l’esperienza della morte sta davanti a ognuno di noi come un evento ineludibile di fronte al quale è ragionevole cercare un aiuto che ci permetta di viverla non come un evento definitivo».

Nei giornali si parla molto di etica civile e nei decreti governativi si chiede ai cittadini di essere virtuosi. C’è anche una nuova ondata di moralismo oltre a quella del virus?

«Certamente. L’etica civile regge soltanto quando si riconoscono le ragioni della fraternità. Altrimenti l’invito cade nel vuoto. Il moralismo è una morale senza adeguate radici e noi, oggi, più che a una pioggia di moralismo, assistiamo a un uragano».

Si parla troppo dei malati di Covid e poco delle altre situazioni di sofferenza?

«Il Covid ha oscurato altre patologie, anche comprensibilmente. Dobbiamo tenere aperto il nostro sguardo perché purtroppo ci sono tantissime situazioni di sofferenza altrettanto gravi e meritevoli di attenzione».

La categoria che ha pagato il prezzo più alto sono gli anziani?

«Siamo immersi in una visione funzionalistica dell’esistenza. Davanti alle persone ci chiediamo quali servizi possono rendere. Questo porta al radicarsi della cultura che papa Francesco ha chiamato “dello scarto”. L’anziano viene visto come colui che può occupare indebitamente un posto in ospedale. È una cultura eutanasica, che mostra quanto si sia smarrito il valore della persona nella sua debolezza».

Scrive che «non possiamo permetterci che l’unico criterio sia chiudersi in casa»: virologi e medici disapproveranno questo documento.

«Che però non vuol essere in contrasto con ciò che in futuro si potrà decidere. Al contrario, è un invito rivolto agli scienziati perché tengano presente che nella sanità della persona va considerata la necessità delle relazioni».

Nel finale sottolinea che «le nostre chiese sono luoghi sicuri sia per la preghiera liturgica che per eventuali incontri». È una sottolineatura a scopo preventivo?

«In queste settimane ripeto una battuta: se non vuoi prendere il Covid vieni in chiesa. Abbiamo messo in atto misure di sicurezza sconosciute a tanti altri ambienti. Vorrei che questo fosse considerato e tenuto presente anche per il futuro».

Come ha vissuto l’interruzione delle celebrazioni durante il primo periodo di confinamento?

«Male. Non poter celebrare col popolo è certamente una grande prova. Questo non vuol dire che la mia fede sia stata scossa. Ogni giorno celebravo per tutti e portavo tutto il mio popolo in ogni santa messa. Nello stesso tempo non ho approvato chi diceva: “Sono così belle le messe in streaming, continuiamo così”. La fisicità fa parte dell’evento cristiano perché il Verbo si è fatto carne. La comunità cristiana non è semplicemente una comunione spirituale, ma passa anche attraverso rapporti carnali».

Dopo la preghiera di papa Francesco nella piazza San Pietro deserta del 27 marzo scorso la voce della Chiesa si è fatta un po’ troppo flebile e si è omologata alla narrazione corrente?

«Penso che chi ha responsabilità nella Chiesa abbia non solo il diritto, ma anche il dovere di far sentire la sua voce per guidare le persone a lui affidate. In una recente lettera ad Avvenire mi sono chiesto come mai tanti hanno la percezione che i vescovi non parlano. Penso che tutti dobbiamo aiutarci a trasmettere attraverso la cultura la nostra fede».

Martedì c’è stata la preghiera per la Pace alla presenza del Papa intitolata «Nessuno si salva da solo». Direi perché a salvarci è Cristo. Nella Chiesa di oggi prevale la dimensione orizzontale su quella verticale?

«Da decenni parliamo di secolarismo. È certamente uno dei mali più gravi della vita della Chiesa oggi. Nessuno si salva da solo è un’espressione che ha due significati strettamente congiunti: nessuno si salva senza l’aiuto di Dio e nessuno si salva senza gli altri».

Si tende a parlare solo del secondo significato?

«Sì, è vero. Però è fondamentale perché Dio non salva la persona sola, ma sempre all’interno di un popolo, inserendoci nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. Questo ci allontana dalle due tentazioni dell’individualismo e dello spiritualismo».

 

La Verità, 22 ottobre 2020