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«Tv e giornali sono pieni di tronisti della letteratura»

Uno scrittore selvatico. Un autore che sceglie il margine. Solitario, fiero, iconoclasta. Posseduto da una furia lucida e distruttiva. Contro la religione e tutte le chiese, compresa quella dell’editoria e dei salotti letterari. La politica l’ha abbandonata svariati decenni fa. La televisione la evita. La tecnologia e i social li usa il meno possibile. Originario del Polesine, vive a Desenzano del Garda, dov’è stato a lungo bibliotecario comunale (quella biblioteca affacciata sul lago è un posto eletto). I suoi libri sono sassate, gorghi neri, storie di perversioni ordite in una cornice grottesca che svela una satira mostruosa e amara. Sto parlando di Francesco Permunian: «Ho compiuto 70 anni e non devo fare alcun esercizio di paraculaggine perché non appartengo ai tre ambiti che sostengono la produzione letteraria in Italia».

Quali sono?

«Le università, le scuole di scrittura e i media. L’emblema di queste sinergie era Umberto Eco. Anni fa Ferdinando Camon, che gentilmente aveva presentato un mio libro, mi disse che per imporsi serve un buon editore e la collaborazione con un giornale. Invece il mio istinto mi porta a starmene fuori dalla pista del circo. Se entro anch’io nella pista non posso più scrutare le maschere. Poi c’è l’orgoglio di chi è nato in un paesino tra l’Adige e il Po nel 1951, anno della grande alluvione».

Come si esprime questo orgoglio?

«Se riuscirò ad affermarmi lo farò solo per il valore della mia scrittura, della mia qualità letteraria. Questa è stata la sfida di tutta la mia vita. In un diario di Valentino Zeichen, il poeta muto della Grande bellezza di Paolo Sorrentino, ho trovato questa riflessione: “In una società come l’attuale, dove tutti hanno ambizioni letterarie, che centuplica di anno in anno gli autori, la probabilità di venire letti in un futuro prossimo è pressoché nulla. Poiché il mercato suddivide la notorietà passeggera fra tanti autori, interscambiabili, è preferibile che l’eccezione non si manifesti per non essere d’intralcio”».

Cosa voleva dire?

«Zeichen viveva orgogliosamente al margine, come uno spatriato nella patria delle belle lettere. E non si manifestava per non essere d’intralcio all’andazzo letterario generale».

Il suo ultimo libro, Giorni di collera e di annientamento, pubblicato da Ponte alle grazie, è un anti-romanzo?

«È un romanzo che disobbedisce alle regole delle scuole di scrittura oggi tanto in voga: quindi, sì. Non è un ovetto confezionato secondo i loro dettami da manuale scolastico. Non è il frutto di una ferita di plastica e senza sangue, anche se tecnicamente perfetta».

Dove nasce la sua furia contro il mondo dell’editoria e la religione bislacca?

«La storia inizia e finisce con le anguane, figure palustri mostruose della mitologia. Le immaginavo nella grande palude in cui si era trasformato il Polesine dopo l’alluvione. Appartengono a quel sacco amniotico adolescenziale che mi ha influenzato psichicamente prima che letterariamente. Queste anguane, silenti nel percorso del libro, rispuntano per partecipare al sabba finale. Dalla palude del Polesine a quella dell’editoria, anch’essa popolata di mostriciattoli, il passo è breve».

E la religione?

«È l’altro bersaglio. Tuttavia, in questo libro nichilista dalla prima all’ultima pagina, c’è un barlume, un chiarore antelucano che il protagonista intravvede in lontananza, scrutando la Strada dei crocefissi che i pellegrini percorrevano a piedi nel secolo scorso. Come fece David Herbert Lawrence con la sua compagna prima di fermarsi sul Garda ad abbozzare L’amante di Lady Chatterley. È la mia idea giansenista di religione, pura e lontana dal potere clericale. Altrettanto, vorrei la letteratura immune dalla corruzione dell’editoria».

Il protagonista del libro, un crooner di provincia che vorrebbe diventare il nuovo Fred Bongusto, vince il Premio Strega cui lo iscrive il suo manager. Cosa vuole esprimere con questo corto circuito?

«La casualità e l’arbitrarietà dei premi. Roberto Vecchioni fa parte della giuria del Campiello, Walter Veltroni ne è il presidente. È l’esempio plateale di come la letteratura sia ridotta a mondanità e marketing editoriale».

Da dove ha tratto la storia di don Fifì che rinuncia alla carriera canora dopo aver vinto il premio Strega?

«Eravamo al Castello Sforzesco per la presentazione di La terra della prosa – Narratori italiani degli anni zero di Andrea Cortellessa. Con me c’era Eugenio Baroncelli, un autore molto apprezzato che pubblica da Sellerio, che m’invitò a Ravenna. Dove scoprii che era un cantante di un gruppo rock. È lui, in un certo senso, ad aver ispirato la figura del mio protagonista».

Le scuole di scrittura sono posti così meschini?

«Sono centinaia in Italia. Anche a causa dei bassi compensi dei giornali, ho diversi amici che ci lavorano per arrotondare. Non ne possono più, loro per primi vedono che è inutile. Non si diventa scrittori perché ti danno il diploma della scuola. La voce per cantare o ce l’hai o non ce l’hai. Pietro Citati diceva che la grande scrittura non si insegna, tuttalpiù si può insegnare a scrivere decorosamente».

Sbertuccia i vincitori dello Strega che diventano pastonisti dei grandi quotidiani.

«Sono la maggior parte, devono mantenere visibilità. Se lo sai gestire bene lo Strega è un’assicurazione sulla vita. Come lo Zecchino d’oro o il Festival di Sanremo».

Un editor che va a Predappio sul sidecar di fabbricazione teutonica di una naziprostituta è il peggior sberleffo alla letteratura da talk show della domenica sera?

«È una presa per il culo che manda a ramengo tutta l’intellighenzia radical chic. Io prendo in giro il potere, la politica e la religione, salvo solo la scrittura. Non mi ammorbidiscono né i salotti della sinistra né quelli che sono contro i salotti della sinistra».

Però non tutti i vincitori dello Strega sono malvagi, Emanuele Trevi elogia la sua scrittura nella fascetta promozionale del romanzo: è una contraddizione?

«No, assolutamente. Il suo apprezzamento non ha a che fare con lo Strega vinto nel 2021, Trevi è un estimatore della mia scrittura da 20 anni. Fu il primo a lodare Cronaca di un servo felice, il mio primo romanzo rifiutato da una trentina di editori. In caso di ripubblicazione si è detto pronto a scriverci un saggio».

Cosa intende per librificio?

«È la produzione sfrenata di romanzi e romanzetti. E un romanzificio, soprattutto. Le piccole editrici sono con le spalle al muro e quindi investono sulla quantità. Chi resta a galla dopo due o tre settimane viene ripubblicato, gli altri scompaiono. Vellicando il narcisismo imperante, le scuole di scrittura hanno trasformato l’editoria in un reality di massa. Come i telespettatori i lettori non vogliono più fare il pubblico, ma salire sul palco come avviene nei reality».

Che cosa pensa delle classifiche di vendita?

«Alberto Arbasino diceva che valutare la letteratura in base alle classifiche è come valutare i ristoranti in base al numero dei coperti. Vincerebbe sempre un Motel Agip dell’autostrada».

Sono farcite di volti tv e di autori del giornalismo militante?

«È il trionfo del fazismo di massa, di cui i tronisti della letteratura sono i corifei. È la società di massa delle lettere».

Un dispositivo indistruttibile?

«Gli editori non sono benefattori, ma imprenditori che devono far quadrare i conti. È inutile arrabbiarsi. Se incassano con i libri di cantanti calciatori e giocolieri, poi magari riescono a pubblicare qualche buon romanzo. Ma non tutti sono Roberto Calasso o Elvira Sellerio che combinavano la qualità con il bilancio».

Mischiando devozioni e perversioni la sua farsa tocca i vertici del grottesco?

«Se guardiamo agli scandali degli ultimi anni, non mi pare di aver inventato nulla. La Chiesa è devastata dalla pedofilia ed è un miracolo che Cristo riesca ancora a tenere in piedi la cattedra di San Pietro. Poi c’è una cosa più sottile: l’ipocrisia del perbenismo cattolico, il quieto vivere piccolo borghese che riduce il messaggio a pratica devozionale. È difficile da smascherare. Io osservo da fuori anche questo spettacolo, forse il più bello e potente, una macchina di potere, preghiere e grida infernali».

Preti stravaganti, prostitute naziste, dentisti sposati con bambole di plastica: è così infernale la provincia?

«È la mia percezione. Rendo tutto paradossale e parodistico per far deflagrare quei personaggi, che altrimenti diventerebbero macchiette».

Non rischiano di esserlo già?

«Il prossimo lavoro sarà intitolato I demoni beati, da una frase di Gottfried Benn, contenuta nel suo saggio Invecchiare come problema per artisti. E sarà ancora peggio! Alzando al massimo il voltaggio rischi infatti di stonare, ma è un rischio da correre».

Nella sua opera, si sente in sottofondo una risata mostruosa e disperata.

«Onestamente è così. Il nichilismo passa per la lotta con il demone, per la paura d’impazzire. Sono le ossessioni con cui devo fare i conti. Uso la scrittura come terapia. Perciò la mia è una letteratura di sopravvivenza, di vita e di morte».

Per l’uomo contemporaneo la salvezza viene dalla tecnologia e dalla finanza.

«Sono cose estranee al mio mondo. Ho altre ossessioni, leggo poesie e diari. La tecnologia e i social li frequento il minimo indispensabile, con l’aiuto di mia figlia. Resto nel sacco amniotico della mia provincia».

Dal quale evade con internet.

«Certo. Oggi, per esempio, ho saputo che nel 2023 l’editore Francisco Magallanes di Buenos Aires pubblicherà il mio libro».

 

La Verità, 6 novembre 2021

«I classici, gli unici sovversivi e moderni»

Un irregolare direttore del più classico dei teatri. Basta dare uno sguardo al palco dell’Olimpico di Vicenza: imponente, maestoso, opera di Andrea Palladio, il più antico teatro coperto del mondo, per provare un senso di vertigine. Da quest’anno, a dirigerlo c’è Giancarlo Marinelli, regista, sceneggiatore, scrittore, presidente della giuria del premio Giovanni Comisso e del Luigi Settembrini. 46 anni, vicentino di nascita, residente a Este, allievo di Gian Antonio Cibotto, ha diretto attori come Giorgio Albertazzi, Mariano Rigillo, Giuseppe Pambieri, Ivana Monti. Due volte finalista al Campiello, l’ultimo romanzo, Il silenzio di averti accanto (La nave di Teseo), è una saga famigliare autobiografica che percorre il Novecento sulle vite parallele di due fratelli, uno comunista l’altro fascista, nonni dell’autore. Nel cartellone dell’Olimpico (intitolato «Muoiono gli dei che non sono cari ai giovani») che sarà inaugurato il 19 settembre con Frammenti di memorie di Adriano di Maurizio Scaparro, Marinelli ha voluto Apologia di Socrate e Medea.

Perché i classici, oggi?

«Perché quello con la cultura classica è un incontro sovversivo in quanto muta e travolge la concezione che si ha della propria esistenza. Quando ti confronti con i classici ti accorgi che sono sempre più avanti di te. Capirli vuol dire capire il tempo».

Parafrasando il titolo, come i classici possono diventare cari ai giovani?

«In verità lo sono già. Come mi ricorda la mia vice direttrice, abbiamo dovuto bloccare le richieste dei licei a 50 biglietti per sera. Piuttosto, con questi palinsesti tv riempiti da claque siamo noi che rischiamo di intristire i ragazzi. Non ho voluto rassegnarmi, se li ascolti ti accorgi che sanno bene chi sono gli autori classici e che cosa rappresentano. Caso mai faticano a rapportarli ai modelli contemporanei. Per questo ho chiesto ai registi di provare a sottolinearne la modernità e ho previsto un mini ciclo di opere rappresentate da compagnie di giovani».

Insisto, nell’era di Twitter e Instagram il teatro è già di suo una scommessa. Se ci mettiamo pure L’Apologia di Socrate e Medea la salita si fa ancora più ripida.

«I nostri dati, che non sono sondaggi ma biglietti venduti, ci dicono altro. Abbiamo professionisti della comunicazione capaci di smuovere la curiosità. A differenza del cinema, della tv e persino della pittura, il teatro è l’unica forma d’arte che non può essere piratata. O vai a vederlo o l’hai perso. Non è un caso che non sia in crisi, nonostante lo Stato sia sempre sordo. Anche la tv, in un certo modo, lo sta capendo: Netflix è un teatro dentro la tv, devi abbonarti, entrare in un cartellone e scegliere lo spettacolo».

Com’è diventato direttore artistico del Teatro Olimpico?

«Semplicemente, l’amministrazione cittadina attraverso il sindaco Francesco Rucco e la Fondazione Teatro del comune hanno pensato a me per provare a rinnovare il cartellone. Non potevo sognare di meglio che dirigere il più antico teatro coperto del mondo. Tanto più che Vicenza è curiosamente la mia città natale».

Curiosamente?

«I miei genitori avevano sangue incompatibile, Rh positivo e Rh negativo, perciò al momento della nascita poteva essere indispensabile una trasfusione. L’ospedale attrezzato più vicino era il San Bortolo di Vicenza. Io vivo a Este, ma quella mancata trasfusione alla nascita è stata un segno del destino, perché poi questa città mi ha sempre trasfuso forti dosi d’amore. Il mio primo romanzo, Amori in stazione, avrebbe dovuto essere pubblicato dall’editore vicentino Neri Pozza, anche se poi uscì da Guanda, sempre del gruppo Spagnol. I miei primi articoli sono usciti sul Giornale di Vicenza, di cui sono diventato editorialista. Ora questa grande opportunità».

Quanto le serve l’esperienza di regista?

«Mi serve per dimenticarla. Quest’anno, infatti, l’ho sospesa, tornerò a dirigere nel 2020 Eleven, un’opera kolossal sull’11 settembre. Voglio dedicarmi solo all’attività di sovrintendente. Nel Mercante di Venezia ho avuto la fortuna di dirigere Giorgio Albertazzi, forse il più grande attore che l’Italia abbia avuto. Ricordo che una volta, sottolineando la differenza tra regista e sovrintendente, disse che il regista sta in platea, ma fa finta di essere tra il pubblico, mentre il direttore artistico è con il pubblico».

Come nacque il rapporto con lui?

«Lo conobbi quando da presidente del premio Campiello aveva molto apprezzato il mio libro Ti lascio il meglio di me. Peccato non abbia letto l’ultimo perché somigliava molto a uno dei due protagonisti».

Che cosa le ha lasciato?

«Premetto, per me Albertazzi non capiva di teatro. La sua era una sorta di possessione, sul palco si trasformava come in preda a uno spirito. Un po’ come accadeva a Maradona quando iniziava la partita. Quello che ho imparato da lui l’ho imparato in scena, ed è più di quanto tutti i libri di critica mi possano insegnare».

Per esempio?

«Siamo a Treviso e mancano tre spettacoli alla fine della tournée quando Albertazzi si rompe il femore. “Se Orson Welles ha recitato Shakespeare in carrozzina, perché non posso farlo io per tre repliche”, sentenzia. Si decide di andare in scena, dove lui sarà mosso dalla mia aiuto regista, una ragazza bellissima. Deve sapere che il tormento di Giorgio era il successo che riscuoteva un malvagio come Shylock. “Ci sono due motivi”, gli avevo detto, “perché lo fai tu e perché, dopo Auschwitz, è impossibile odiare un ebreo”. Quella sera, prima dello spettacolo mi fa chiamare: “Stai bene attento: qualsiasi cosa accada non fare niente, lascia finire lo spettacolo”. Quando la mia aiuto regista lo introduce sul palco lui inizia a maledirla e insultarla. Così per tutto il primo atto. Il pubblico è gelato. Nell’intervallo, si blinda in camerino e nel secondo atto il copione non cambia. Al calo del sipario gli chiedo spiegazioni. “Voi non avete capito niente perché pensavate ad Albertazzi che maltratta un’assistente. Invece, era Shylock impotente, che se la prendeva con l’ultima vittima rimasta. Dovete imparare a fidarvi del teatro più che della vita”. Era riuscito a far odiare Shylock».

Che cosa manca al teatro italiano di oggi?

«Due cose: la prima è distinguere tra drammaturgia contemporanea e avanguardia o sperimentalismo. È un errore grave per il quale continuiamo a cercare registi che scrivano attraverso la scena, anziché nuovi Luigi Pirandello o nuovi Harold Pinter».

Per questo si punta soprattutto sul teatro civile?

«Altra svista. Medea è teatro civile più di Madre coraggio di Bertolt Brecht, ma vincono le etichette. L’Apologia di Socrate non è teatro civile? Un uomo che va incontro alla morte. Il secondo problema è l’ignoranza di un Paese che usando parole sbagliate crea mostri».

Per esempio?

«Si usa sovranismo invece di nazionalismo. La sovranità popolare è un valore meraviglioso garantito dalla Costituzione, e per fortuna che c’è. Il termine deriva da sovrano e dall’epoca monarchica. Il nazionalismo è un sistema di chi si blinda nei confini e teorizza la superiorità della nazione. Hitler era un nazionalista, non un sovranista. Sovrapponendo filosofie e comportamenti per ignoranza si creano i mostri».

Che cosa pensa del fatto che la dedica a chi salva vite in mare di Luca Marinelli, miglior attore alla Mostra di Venezia, ha riscosso consensi unanimi?

«Marinelli è un mio omonimo e per questo dovrebbe essermi simpatico. Forse il Marinelli giusto è lui. Le dediche sono qualcosa di intimo e perciò vanno rispettate. Immagino che sarà stato sulle navi delle Ong, come Richard Gere… È curioso che la dedica sia diventata notizia più del fatto che un giovane attore italiano ha conquistato la Coppa Volpi. Ma, parlando della Mostra di Venezia, mi ha colpito un’altra vicenda…».

Dica.

«Lo stigma, poi ammorbidito, della presidente della giuria Lucrecia Martel contro Roman Polanski, in concorso con il film J’accuse. Non la conoscevo come regista ed è una mia lacuna. Polanski fu condannato per un rapporto sessuale con una minorenne che ritiene abbia espiato quanto doveva. Se non distinguiamo l’autore dalla sua opera, non dovremmo più leggere Pier Paolo Pasolini che andava con i ragazzini o apprezzare la pittura di Caravaggio».

Quanto è difficile conquistare ruoli direttivi nel mondo dell’arte senza essere allineati al pensiero dominante?

«Molto, infatti mi chiedo ancora come mai sono qui. Vicenza è un’isola felice. Non sono mai stato allineato, i fascisti mi hanno accusato di essere comunista e i comunisti di essere fascista. Non sbagliano di molto: sarei stato avverso al regime durante il fascismo e avverso al regime durante il comunismo».

Questo è il tema de Il silenzio di averti accanto. Perché dobbiamo continuare a confrontarci con il Novecento?

«Quello che siamo oggi dipende dal passato da cui proveniamo. La nascita di mio figlio, il bisogno di dargli un nome, mi ha portato a scavare nella storia di famiglia, scoprendo quella dei miei due nonni, Marino e Almo. Mi auguro che mio figlio somigli a entrambi, persone pronte a morire per un’idea. Al contrario, oggi siamo pronti a uccidere qualsiasi idea che non sia abbastanza conveniente».

Secondo lei è corretto o ideologico stabilire dei paralleli tra i politici attuali e gli eccessi del Ventennio?

«Uno storico come Renzo De Felice ci ha insegnato che per capire l’albero fascismo non bisogna guardarlo partendo dalle foglie, ma partendo dal basso. Per esempio, da com’è avvenuta l’ascesa di Benito Mussolini. Questa è un’operazione che un romanziere può fare meglio di uno storico. Il fascismo fu l’avventura di un uomo di grande carisma che si è perduto e votato al male. Pensare che Salvini abbia la statura antropologica di Mussolini e quindi sia altrettanto pericoloso può servire solo per qualche slogan utile a infiammare le piazze. Ma non ha niente a che vedere con la storia».

 

La Verità, 15 settembre 2019

 

«Io, cavaliere errante dei libri, cerco uno scudiero»

Per Ferruccio Mazzariol le definizioni si rincorrono. Il cavaliere errante dei libri. L’editore sognatore. Il romantico della letteratura. Il libraio gentiluomo. Ognuna fotografa un tratto di questo fresco ottantenne, solito al baciamano alle signore, umile, elegante e sommesso affabulatore, in possesso di una scrittura densa di consapevolezza ma giocosa di forma, dotata di funambolica aggettivazione. Una prosa riposante e terapeutica come le acque dei fiumi di quassù, il Sile soprattutto, e la prediletta Piave: sì, al femminile, materna e feconda, come da coniugazione locale.

Anche la sua creatura, la Santi Quaranta di Treviso, l’Adelphi del Nordest – altra definizione coniata per l’editrice frutto di un miscuglio di autori triveneti e mitteleuropei, di una cura artigianale, dell’opera dello stampatore scovato a Vago di Lavagno (Verona) – sta per scollinare un anniversario importante, il trentesimo, forte di 200 titoli e circa 700.000 copie vendute quasi porta a porta. È la piccola epopea che ha tenuto a galla una scialuppa tra le onde dei grandi marchi editoriali, ma che ora è giunta a un punto di svolta decisivo.

Ho letto da qualche parte che sta cercando un erede cui cedere le redini: sono venuto per dissuaderla.

«Ma sono così bravo io?».

E me lo chiede?

«Sì, perché non sono stato capace di creare un’équipe che poteva sostituirmi. Ho dei limiti, più che un intellettuale sono solo un gran lettore che voleva unire la tradizione orale veneta alla letteratura ispirata dall’umanesimo cristiano. Non mi sono aggiornato dal punto di vista tecnologico. La tenuta di Santi Quaranta è legata al cavaliere errante dei libri: sono andato di paese in paese a portare i frutti del mio lavoro. Non c’è nessun editore, né grande né piccolo, che abbia tanti punti vendita nel Triveneto come noi. Ma così ho finito per privilegiare i libri del territorio, non i più importanti. Le faccio un esempio…».

Prego.

«Sabato scorso mi ha telefonato il direttore del Centro culturale San Carlo di Milano per informarsi su Lettere a Olga di Vaclav Havel, un testo fondamentale dell’ex presidente ceco. Quest’estate vorrebbe farne leggere dei brani in piazza Duomo e mi ha chiesto se ho in mente di ripubblicare il libro. Capisce? Credeva fosse esaurito. Invece ne abbiamo ancora diverse copie. Il nostro catalogo è ricco di perle, ma non riusciamo a promuoverle».

Urge entrare nell’era digitale e nel marketing moderno.

«La vendita online è tutta da sviluppare, il mio sistema ha fatto il suo tempo. Anche perché sono tra i pochi che pagano i diritti d’autore e non pubblicano a pagamento. Le entrate vengono solo dalle vendite e i distributori vogliono anche il 60% dell’incasso».

Ci vuole il collaboratore giusto?

«Il sito c’è, ma serve chi sappia manovrarlo».

Come nacque Santi Quaranta?

«Avevo tentato di evitare la chiusura di Città armoniosa, la casa editrice di Reggio Emilia per la quale traducevo i grandi francesi. Aveva un catalogo pregiato, ma i soci litigavano. Una volta venduto il magazzino, ci dividemmo gli incassi. Città armoniosa si rimise in sesto per un po’, ma poi chiuse, mentre io cominciai a chiedermi perché dovevo vendere i libri degli altri».

Da qui all’idea della sua etichetta il passo fu breve?

«Mica tanto. Non volevo creare un’editrice clericale e musona, ma una casa che avesse la genuinità delle focacce e dei vini veneti. Perciò era importante la narrativa: credo sia lo strumento più rivelatore della condizione umana, più ancora della teologia. A quel punto c’era il problema del nome».

Risolto come?

«Con il sociologo Ulderico Bernardi e l’editore e amico Giampaolo Picari scegliemmo Santi Quaranta, dal nome di una delle porte delle mura trevigiane. Mi convinse la storia dei martiri di Sebaste che nel 320 morirono perché non si piegarono all’imperatore romano: c’era l’indipendenza dal potere. Nel XVI° secolo la porta fu aggiornata dai dogi veneziani e vi comparve il leone di san Marco: c’era l’identità; che io interpreto come veicolo di cultura e di lingua».

Un’editrice periferica?

«Una casa testimone delle piccole patrie dell’Alpe Adria, animate dal brio e dall’operosità dell’umanesimo cristiano».

Nel Paese dei gelsi si autodefinisce «ambulante libraio».

«Siamo nati in aprile, ma il primo libro, Il prete selvatico di Pasquale Maffeo, esce nel novembre 1989, mentre cade il muro di Berlino. Quando pubblico Il paese dei gelsi, il mio amico panettiere Floreno Paro, mi compra 100 copie, due milioni di vecchie lire. Poi comincio a battere le librerie e le edicole della Marca, cavaliere errante locale. Il primo successo arriva con La poltrona di midollina di Giuliana Gramigna, nipote di Mario Borsa già direttore del Corriere della Sera. Gaetano Afeltra ne scrive sul quotidiano di via Solferino e nel 1993 il libro della Gramigna è il più venduto a Milano».

L’ambulante libraio?

«Nell’estate del 1994 batto i posti citati dalla Gramigna, mete di vacanza dei milanesi. Partivo alle tre del mattino del lunedì: passo del Tonale, passo dell’Aprica, Valsassina, Barzio, Tirano, Bormio; tornavo passando da Bergamo, Brescia, Edolo. Lasciavo i libri in deposito. Conoscevo tutti, ma la sera mangiavo due gelati. Sono andato a Viareggio, nelle valli dell’Alto Adige, al Lido di Venezia».

Quando arriva la svolta?

«Nel 1994 a una presentazione di Il pane negato di Minnie Alzona si fa avanti Elio Gioanola, un professore di lingua e letteratura italiana all’università di Genova: “Avrei un libro con due racconti”. Lo intitolo La grande e la piccola guerra. L’anno dopo Sebastiano Vassalli lo seleziona nel terzetto dei finalisti del premio Chiara. Gli altri due sono Ritratti di signora di Elisabetta Rasy, pubblicato da Rizzoli, e La paura del cielo di Fleur Jaeggy, moglie di Roberto Calasso, edito da Adelphi. In confronto siamo una caravella. Il vincitore viene decretato da una giuria popolare di 200 lettori, 100 della Prealpina di Varese e 100 del Corriere del Ticino di Lugano. Quando arriviamo a Varese, Alessandra Casella pronostica: “Vincerà Gioanola”. E così va, con gran sorpresa generale. Ne parlano tutti i giornali: chi è questo editore sconosciuto che ha battuto Rizzoli e Adelphi?».

È l’Adelphi del Nordest, giusto?

«Un po’ sì, un po’ no. In certe nostre opere si affaccia la densità di Adelphi, e anche la raffinatezza estetica compete con la casa milanese. Però Santi Quaranta non ha influenze esoteriche, ma una linea popolare, guareschiana, radiosa, come attestano i libri di Amedeo Giacomini, di Bernardi, il mio Paese dei gelsi, la collana dei Ciclamini nella quale si mischiano poesia e antropologia. Poi ci sono le opere di Elio Bartolini, già sceneggiatore di Michelangelo Antonioni e autore Mondadori e Rusconi».

Come pesca gli autori?

«Mi arrivano molti dattiloscritti, ma alla seconda riga tanti saltano. Insieme alla fabula dev’esserci la profondità, ma senza intellettualismi. Ultimamente pubblico più stranieri che scrittori del Nordest».

Come arriva a Theodor Fontane, Antoine de Saint-Exupéry, René Girard, Havel?

«Conosco Alessandro Spina, un imprenditore cattolico amico di Cristina Campo e autore Rusconi. Recensisco Il giovane maronita per L’Osservatore romano, lui mi invita a cena a Venezia e diventa mio suggeritore. Per l’uscita di Infanzia sul Baltico di Fontane, Franco Cordelli fa un paginone sul Corriere».

Havel?

«Su Russia cristiana (poi L’altra Europa ndr) leggo un saggio sulla sua autobiografia, L’uomo al castello. Angelo Bonaguro, il suo traduttore, mi dice che quel volume è tradotto ovunque, ma non in Italia. La mia redattrice, Alessandra Poletto, riesce a contattare la segreteria di Havel e pubblico L’uomo al castello. Antonio Troiano, capo della cultura del Corriere, vuole conoscermi. Vado a Milano e lui mi accoglie festante; pensavo per Havel, invece mi fa: “Grande Antonio Russello…”».

Una delle vostre scoperte?

«Più una riscoperta, a scoprirlo era stato Elio Vittorini, ma poi avevano litigato. Russello era un anarco-cristiano siciliano trasferitosi in provincia di Treviso. Abbiamo ripubblicato tutta la sua opera che in certe cose anticipava quella di Leonardo Sciascia».

Perché molti suoi autori sono sconosciuti?

«Nei giornali e nelle tv domina la cultura radicale. Di rado qualche nostro scrittore riesce a bucare la nebbia, ma in generale comandano certi sacerdoti laici».

Per esempio?

«Nel Novecento il gran cerimoniere è stato Elio Vittorini, divenuto antifascista dopo esser stato fascista e filonazista. Nell’ottobre del 1942, quando Hitler convocò a Weimar gli scrittori europei, fu lui a guidare la delegazione italiana. Dopo l’ingresso nel Pci scrisse Uomini e no: gli uomini erano gli antifascisti di sinistra tutti gli altri no. Respinse Il gattopardo perché considerato reazionario, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, Guido Morselli, Russello e lo stesso Bartolini. Quella discriminante vale ancora».

Come giudica il sistema dei premi?

«Coinvolgono grandi interessi… Allo Strega non sempre esce la pallina migliore dell’urna. Nell’ultimo decennio ha vinto sempre Mondadori con le sue affiliate. Spesso sono libri che illudono. Salverei il Campiello, nato in opposizione al Viareggio, oggi declinante».

Tre grandi romanzi italiani del Novecento.

«La casa d’altri di Silvio D’Arzo, Il partigiano Johnny di Fenoglio e L’isola di Arturo di Elsa Morante».

I grandi romanzi veneti?

«La gloria di Giuseppe Berto, Il viaggio in Italia di Guido Piovene, anche se non è un romanzo, Pontificale in San Marco di Bartolini».

E Un altare per la madre di Ferdinando Camon?

«Giusto, grandissimo: lo metterei tra i migliori italiani».

Libri ora in lettura?

«La rivoluzione culturale nazista di Johann Chapoutot e Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson di Selma Lagerlöf».

Concludiamo con un appello?

«Salviamo Santi Quaranta e portiamola nel Terzo millennio».

 

La Verità, 31 marzo 2019

«La globalizzazione è l’era della solitudine»

Ho preso casa qui, nel quartiere di mia madre e dei miei nonni. È quasi un paese, un villaggio. Vede quel negozio? Può esistere solo a Fiera». A Treviso, Fiera è il posto dei bambini perché tutti gli anni, in ottobre, arrivano le giostre, si chiamano ancora così. Il «negozio» che indica Francesco Targhetta è una stanza spoglia davanti a una parete con qualche pacchetto di sigarette, nient’altro. Accendini, sigari, tabacco, caramelle, fazzoletti di carta, giornali, bibite, quaderni, penne neanche l’ombra. Un angolo di dopoguerra sopravvissuto finora. Trentanove anni, insegnante di liceo, esordio come poeta, Targhetta ha una predilezione per i contrasti, le sacche di desolazione del turbocapitalismo, la solitudine in piena globalizzazione. Nel romanzo Le vite potenziali (Mondadori), premio Giuseppe Berto e secondo classificato al Campiello, narra di tre amici, protagonisti di una piccola epopea nel mondo dell’informatica. Ma ciò che spicca sono gli stati d’animo, certe atmosfere umbratili rese con intuizioni fulminanti. Come quella usata per descrivere un senso di smarrimento dopo una domanda rimasta in sospeso: provocò «la stessa sensazione che si prova dopo aver lanciato un boomerang e averlo perso di vista».

A fine marzo Mondadori ripubblicherà Perciò veniamo bene nelle fotografie, insolito romanzo in versi di qualche anno fa.

Come si diventa poeti nella periferia di Treviso?

«Credo sia più facile scrivere versi da posti magari non belli, ma vivi. È più difficile scrivere in contesti da cartolina o di armonia sociale. La poesia nasce da una forma di ribellione e indignazione, un po’ come tutta l’arte».

Perché è passato al romanzo?

«Avevo scritto un romanzo in versi, forma abbastanza insolita, su un gruppo di studenti fuori sede a Padova. Il romanzo è più adatto a raccontare una storia complessa e articolata».

Come mai un insegnante ambienta un romanzo nel mondo dell’informatica?

«Ritengo interessante che gli scrittori raccontino mondi altri, che non scrivano sempre di sé».

Gli scrittori non scrivono sempre di sé anche sotto mentite spoglie?

«Un po’ è inevitabile. Anzi, quando ci si maschera è più facile lasciarsi intravedere».

È la cosiddetta autofiction?

«Un tempo non era così, ma oggi le vite degli scrittori sono particolarmente noiose, la mia di sicuro. Perciò devo andare per forza alla ricerca di qualcos’altro. Ho voluto conoscere un mondo diversissimo dal mio».

Esiste la Silicon Valley del Nordest?

«È una sintesi giornalistica. Non mi sembra che il polo scientifico e tecnologico di Marghera, possa definirsi tale. Ci sono alcune aziende disseminate che però non formano un distretto compatto».

È un Nordest compiuto, ma sempre dipendente da altri centri?

«I clienti dell’azienda, i grandi marchi sono altrove. I personaggi sono costretti a spostarsi, com’è naturale per qualsiasi consulente».

La periferia consente di godere di una migliore qualità della vita attingendo al centro quando è necessario, senza subirne i condizionamenti?

«Io non riuscirei a vivere altrove. La provincia dà il tempo e lo spazio che mancano nelle grandi città. Ne ho bisogno per vivere e anche per scrivere. Poi, certo, ha i suoi abissi, l’inquietudine di un luogo dove succedono meno cose. Però questo stimola la creatività; se succedono meno cose forse puoi farle succedere tu».

Cita le vie, le piazze: perché tanta attenzione alla toponomastica?

«Ho la passione per i nomi dei luoghi. Ce ne sono di poetici, a Marghera Via dell’Elettrotecnica o Via dell’Azoto, che costeggia il canale industriale ovest, sono già poesia, non serve metterla in versi. Oppure la tautologia del paese che si chiama Paese fuori Treviso, o del lago che si chiama Lago».

Quella che racconta è una storia di tradimento di un’amicizia?

«È il motore narrativo del libro».

Il tradimento dell’amicizia è più grave di quello dell’amore? L’amore ha a che fare con un sentimento primordiale che si confronta con la tentazione, nell’amicizia la tentazione non c’è.

«Non ci avevo pensato. Nel contesto di competizione esasperata attuale le tentazioni sono altre. La fedeltà dell’amicizia non è più scontata. Viviamo vite schizofreniche, continuamente rivoluzionate: mantenere qualcosa che duri è complicato».

Parlando di Luciano, la persona in cui più si riconosce, scrive: «Ci sono persone a cui neanche una volta capita nella vita di essere amate».

«L’esclusione dall’amore è un tema che mi sta molto a cuore. È una condizione che riguarda un numero crescente di persone. Di cui però non si parla mai, perché sono vite che hanno poco di romanzesco, in cui non succede niente. È un’esclusione subita, non scelta. Una manifestazione del processo di atomizzazione in atto».

Le vite potenziali sono quelle permesse dalla rivoluzione digitale e dalla realtà virtuale?

«Sono le vite che si sovrappongono a quella presente. Internet ci fa essere qui e ora, ma al contempo altrove in un altro momento. Non sono le vite alternative delle sliding doors, ma le vite che si sommano a quella che stai conducendo. Ora sono qui, ma prima ho inviato una mail alla quale intanto mi hanno risposto, quindi sono anche lì».

Sono potenziali anche le vite di una generazione che stenta a rischiare fino in fondo?

«Direi di no. Le vite potenziali sono transgenerazionali. Un mio amico che lavora in Confindustria mi diceva che oggi vengono considerati più positivamente i curriculum con tante esperienze lavorative brevi piuttosto che quelli con poche e di lunga durata. Uno che ha cambiato più lavori ha visto più cose, fatto più esperienze, è più elastico».

Anche se a volte, come scrivi, avendo marce in più le ingranano a caso?

«Esatto».

Anche quella dei figli nella pancia delle due ragazze sono vite potenziali?

«Rappresentano l’unico spiraglio di speranza del libro».

Fuori dalla casa di famiglia di Alberto un cartello recita: «La vita è di Dio, l’aborto è contro Dio». Anche gli aborti sono vite potenziali?

«Da ricercatore universitario ho curato un libro del poeta Corrado Govoni intitolato Gli aborti. È una parola che m’insegue… Da ipotetico padre non saprei quali reazioni avrei. Ho una posizione libertaria, che difende la libertà di scelta».

Se non sono vite potenziali quelle dei feti abortiti…

«Sicuramente lo sono, non c’è dubbio. Abbiamo scelto questo titolo perché in sociologia l’aggettivo potenziali descrive l’evoluzione della contemporaneità, il cambiamento».

Vede solo lati positivi nella globalizzazione?

«No. Gli aspetti negativi sono l’aziendalizzazione delle nostre vite e il consumismo dilagante. Certe formule applicate alla sfera privata. Basta pensare alle app di appuntamenti in cui esaltiamo le nostre caratteristiche e qualità come fossimo merce in vendita».

Scrivendo un romanzo su un’azienda informatica ha dovuto misurarsi con l’anglo-italiano.

«Alla fine è un gergo, come ce l’ha ogni mestiere. L’informatica è zeppa di anglismi, ho cercato di limitarli. Mi sembrava una bella forma di attrito quello fra la lingua della letteratura e questo gergo».

Oggi i trentenni dicono «un giorno spot» anziché «qualsiasi», e «scegliamo random» anziché «a caso». Stiamo perdendo l’italiano?

«Anche “spoilerare” anziché “rovinare il finale”. Le peggiori sono le espressioni adattate in italiano. Negli ultimi anni la nostra struttura lessicale si sta restringendo, mentre la nostra lingua è molto più ricca di vocaboli. Ma per esempio gli studenti ne usano sempre meno. Per una sorta di compensazione ho voluto inserire parole desuete e da cercare nel vocabolario, per mostrare le potenzialità dell’italiano».

Appunto. Un’altra particolarità sono i periodi fluviali, un rischio se non sono ad altissima definizione.

«Questo è un aspetto a cui tengo molto. È un’altra compensazione rispetto alla frammentazione del mondo che racconto. La mia risposta è questo periodare lungo ed esteso: voi avete i codici e i numeri, io ho le subordinate. Nelle scelte linguistiche e sintattiche c’è il mio stile, la mia risposta polemica alla tecnica».

Ha avuto dei maestri locali?

«Maestri è una parola che non mi piace. Modelli invece sì. Per la poesia Guido Gozzano e Elio Pagliarani. Per la prosa Luciano Bianciardi».

L’ultimo libro letto?

«Turbulence, un libro di racconti a partire da voli aerei, di David Szalay, uno degli scrittori più talentuosi delle nuove generazioni. Uscirà in ottobre da Adelphi».

L’ultimo film?

«Suntan, un film greco con un personaggio houellebecqiano».

Houellebecqiano.

«Michel Houellebecq è uno dei miei autori preferiti. Per me il suo libro migliore è il primo, Estensione del dominio della lotta, protagonista un informatico».

Se Houellbecq fosse italiano come lo tratteremmo?

«Continuerebbe a vendere bene, come già accade. Forse s’imbatterebbe in forme di ostracismo e di pregiudizio ideologico nella stampa e tra i colleghi. È un tipo di intellettuale dissidente, anarchico e conservatore, cui la Francia è più abituata. Da noi questi autori hanno sempre faticato a emergere. Basta pensare a Curzio Malaparte».

Il politicamente corretto influenza la nostra letteratura e la nostra editoria?

«Influenza le vendite e le classifiche più che la letteratura. I veri scrittori continuano a scrivere quello che vogliono, anche se hanno poca visibilità e facilità di vendita».

Il prossimo libro?

«Ci vorranno quattro o cinque anni, sono lento. Con la scuola, scrivo solo d’estate. L’idea è chiara in testa, sto iniziando a documentarmi. Come dice Ian McEwan, tra un libro e l’altro si deve diventare persone leggermente diverse. Quindi val la pena aspettare».

Che cosa le preme maggiormente trasmettere ai suoi studenti?

«Credo che dobbiamo imparare a non reagire al dominio della tecnologia solo con le emozioni. Ma dobbiamo cercare di recuperare il pensiero critico e la capacità di riflessione e di analisi».

 

La Verità, 26 febbraio 2019