«La globalizzazione è l’era della solitudine»
Ho preso casa qui, nel quartiere di mia madre e dei miei nonni. È quasi un paese, un villaggio. Vede quel negozio? Può esistere solo a Fiera». A Treviso, Fiera è il posto dei bambini perché tutti gli anni, in ottobre, arrivano le giostre, si chiamano ancora così. Il «negozio» che indica Francesco Targhetta è una stanza spoglia davanti a una parete con qualche pacchetto di sigarette, nient’altro. Accendini, sigari, tabacco, caramelle, fazzoletti di carta, giornali, bibite, quaderni, penne neanche l’ombra. Un angolo di dopoguerra sopravvissuto finora. Trentanove anni, insegnante di liceo, esordio come poeta, Targhetta ha una predilezione per i contrasti, le sacche di desolazione del turbocapitalismo, la solitudine in piena globalizzazione. Nel romanzo Le vite potenziali (Mondadori), premio Giuseppe Berto e secondo classificato al Campiello, narra di tre amici, protagonisti di una piccola epopea nel mondo dell’informatica. Ma ciò che spicca sono gli stati d’animo, certe atmosfere umbratili rese con intuizioni fulminanti. Come quella usata per descrivere un senso di smarrimento dopo una domanda rimasta in sospeso: provocò «la stessa sensazione che si prova dopo aver lanciato un boomerang e averlo perso di vista».
A fine marzo Mondadori ripubblicherà Perciò veniamo bene nelle fotografie, insolito romanzo in versi di qualche anno fa.
Come si diventa poeti nella periferia di Treviso?
«Credo sia più facile scrivere versi da posti magari non belli, ma vivi. È più difficile scrivere in contesti da cartolina o di armonia sociale. La poesia nasce da una forma di ribellione e indignazione, un po’ come tutta l’arte».
Perché è passato al romanzo?
«Avevo scritto un romanzo in versi, forma abbastanza insolita, su un gruppo di studenti fuori sede a Padova. Il romanzo è più adatto a raccontare una storia complessa e articolata».
Come mai un insegnante ambienta un romanzo nel mondo dell’informatica?
«Ritengo interessante che gli scrittori raccontino mondi altri, che non scrivano sempre di sé».
Gli scrittori non scrivono sempre di sé anche sotto mentite spoglie?
«Un po’ è inevitabile. Anzi, quando ci si maschera è più facile lasciarsi intravedere».
È la cosiddetta autofiction?
«Un tempo non era così, ma oggi le vite degli scrittori sono particolarmente noiose, la mia di sicuro. Perciò devo andare per forza alla ricerca di qualcos’altro. Ho voluto conoscere un mondo diversissimo dal mio».
Esiste la Silicon Valley del Nordest?
«È una sintesi giornalistica. Non mi sembra che il polo scientifico e tecnologico di Marghera, possa definirsi tale. Ci sono alcune aziende disseminate che però non formano un distretto compatto».
È un Nordest compiuto, ma sempre dipendente da altri centri?
«I clienti dell’azienda, i grandi marchi sono altrove. I personaggi sono costretti a spostarsi, com’è naturale per qualsiasi consulente».
La periferia consente di godere di una migliore qualità della vita attingendo al centro quando è necessario, senza subirne i condizionamenti?
«Io non riuscirei a vivere altrove. La provincia dà il tempo e lo spazio che mancano nelle grandi città. Ne ho bisogno per vivere e anche per scrivere. Poi, certo, ha i suoi abissi, l’inquietudine di un luogo dove succedono meno cose. Però questo stimola la creatività; se succedono meno cose forse puoi farle succedere tu».
Cita le vie, le piazze: perché tanta attenzione alla toponomastica?
«Ho la passione per i nomi dei luoghi. Ce ne sono di poetici, a Marghera Via dell’Elettrotecnica o Via dell’Azoto, che costeggia il canale industriale ovest, sono già poesia, non serve metterla in versi. Oppure la tautologia del paese che si chiama Paese fuori Treviso, o del lago che si chiama Lago».
Quella che racconta è una storia di tradimento di un’amicizia?
«È il motore narrativo del libro».
Il tradimento dell’amicizia è più grave di quello dell’amore? L’amore ha a che fare con un sentimento primordiale che si confronta con la tentazione, nell’amicizia la tentazione non c’è.
«Non ci avevo pensato. Nel contesto di competizione esasperata attuale le tentazioni sono altre. La fedeltà dell’amicizia non è più scontata. Viviamo vite schizofreniche, continuamente rivoluzionate: mantenere qualcosa che duri è complicato».
Parlando di Luciano, la persona in cui più si riconosce, scrive: «Ci sono persone a cui neanche una volta capita nella vita di essere amate».
«L’esclusione dall’amore è un tema che mi sta molto a cuore. È una condizione che riguarda un numero crescente di persone. Di cui però non si parla mai, perché sono vite che hanno poco di romanzesco, in cui non succede niente. È un’esclusione subita, non scelta. Una manifestazione del processo di atomizzazione in atto».
Le vite potenziali sono quelle permesse dalla rivoluzione digitale e dalla realtà virtuale?
«Sono le vite che si sovrappongono a quella presente. Internet ci fa essere qui e ora, ma al contempo altrove in un altro momento. Non sono le vite alternative delle sliding doors, ma le vite che si sommano a quella che stai conducendo. Ora sono qui, ma prima ho inviato una mail alla quale intanto mi hanno risposto, quindi sono anche lì».
Sono potenziali anche le vite di una generazione che stenta a rischiare fino in fondo?
«Direi di no. Le vite potenziali sono transgenerazionali. Un mio amico che lavora in Confindustria mi diceva che oggi vengono considerati più positivamente i curriculum con tante esperienze lavorative brevi piuttosto che quelli con poche e di lunga durata. Uno che ha cambiato più lavori ha visto più cose, fatto più esperienze, è più elastico».
Anche se a volte, come scrivi, avendo marce in più le ingranano a caso?
«Esatto».
Anche quella dei figli nella pancia delle due ragazze sono vite potenziali?
«Rappresentano l’unico spiraglio di speranza del libro».
Fuori dalla casa di famiglia di Alberto un cartello recita: «La vita è di Dio, l’aborto è contro Dio». Anche gli aborti sono vite potenziali?
«Da ricercatore universitario ho curato un libro del poeta Corrado Govoni intitolato Gli aborti. È una parola che m’insegue… Da ipotetico padre non saprei quali reazioni avrei. Ho una posizione libertaria, che difende la libertà di scelta».
Se non sono vite potenziali quelle dei feti abortiti…
«Sicuramente lo sono, non c’è dubbio. Abbiamo scelto questo titolo perché in sociologia l’aggettivo potenziali descrive l’evoluzione della contemporaneità, il cambiamento».
Vede solo lati positivi nella globalizzazione?
«No. Gli aspetti negativi sono l’aziendalizzazione delle nostre vite e il consumismo dilagante. Certe formule applicate alla sfera privata. Basta pensare alle app di appuntamenti in cui esaltiamo le nostre caratteristiche e qualità come fossimo merce in vendita».
Scrivendo un romanzo su un’azienda informatica ha dovuto misurarsi con l’anglo-italiano.
«Alla fine è un gergo, come ce l’ha ogni mestiere. L’informatica è zeppa di anglismi, ho cercato di limitarli. Mi sembrava una bella forma di attrito quello fra la lingua della letteratura e questo gergo».
Oggi i trentenni dicono «un giorno spot» anziché «qualsiasi», e «scegliamo random» anziché «a caso». Stiamo perdendo l’italiano?
«Anche “spoilerare” anziché “rovinare il finale”. Le peggiori sono le espressioni adattate in italiano. Negli ultimi anni la nostra struttura lessicale si sta restringendo, mentre la nostra lingua è molto più ricca di vocaboli. Ma per esempio gli studenti ne usano sempre meno. Per una sorta di compensazione ho voluto inserire parole desuete e da cercare nel vocabolario, per mostrare le potenzialità dell’italiano».
Appunto. Un’altra particolarità sono i periodi fluviali, un rischio se non sono ad altissima definizione.
«Questo è un aspetto a cui tengo molto. È un’altra compensazione rispetto alla frammentazione del mondo che racconto. La mia risposta è questo periodare lungo ed esteso: voi avete i codici e i numeri, io ho le subordinate. Nelle scelte linguistiche e sintattiche c’è il mio stile, la mia risposta polemica alla tecnica».
Ha avuto dei maestri locali?
«Maestri è una parola che non mi piace. Modelli invece sì. Per la poesia Guido Gozzano e Elio Pagliarani. Per la prosa Luciano Bianciardi».
L’ultimo libro letto?
«Turbulence, un libro di racconti a partire da voli aerei, di David Szalay, uno degli scrittori più talentuosi delle nuove generazioni. Uscirà in ottobre da Adelphi».
L’ultimo film?
«Suntan, un film greco con un personaggio houellebecqiano».
Houellebecqiano.
«Michel Houellebecq è uno dei miei autori preferiti. Per me il suo libro migliore è il primo, Estensione del dominio della lotta, protagonista un informatico».
Se Houellbecq fosse italiano come lo tratteremmo?
«Continuerebbe a vendere bene, come già accade. Forse s’imbatterebbe in forme di ostracismo e di pregiudizio ideologico nella stampa e tra i colleghi. È un tipo di intellettuale dissidente, anarchico e conservatore, cui la Francia è più abituata. Da noi questi autori hanno sempre faticato a emergere. Basta pensare a Curzio Malaparte».
Il politicamente corretto influenza la nostra letteratura e la nostra editoria?
«Influenza le vendite e le classifiche più che la letteratura. I veri scrittori continuano a scrivere quello che vogliono, anche se hanno poca visibilità e facilità di vendita».
Il prossimo libro?
«Ci vorranno quattro o cinque anni, sono lento. Con la scuola, scrivo solo d’estate. L’idea è chiara in testa, sto iniziando a documentarmi. Come dice Ian McEwan, tra un libro e l’altro si deve diventare persone leggermente diverse. Quindi val la pena aspettare».
Che cosa le preme maggiormente trasmettere ai suoi studenti?
«Credo che dobbiamo imparare a non reagire al dominio della tecnologia solo con le emozioni. Ma dobbiamo cercare di recuperare il pensiero critico e la capacità di riflessione e di analisi».
La Verità, 26 febbraio 2019