«Mio padre Gaber, uno di sinistra non della sinistra»
Di sinistra, ma coscienza critica della sinistra. Del conformismo e di quello che poi avremmo chiamato pensiero unico. Senza però mai atteggiarsi, né adagiarsi nel ruolo: l’inventore del Teatro canzone era sempre un passo avanti. E, ora che non c’è più da vent’anni, quanto manca, a tutto campo. Basterebbero i titoli delle canzoni e degli spettacoli – Far finta di essere sani, Libertà obbligatoria, E pensare che c’era il pensiero, citando poco e alla rinfusa – per dire quanto Giorgio Gaber è attuale oggi, e precursore era allora. La figlia Dalia Gaberscik ha creato e dirige l’agenzia di comunicazione Goigest (Gianni Morandi, Jovanotti, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti tra i suoi artisti) ed è vicepresidente della Fondazione Gaber. Ma soprattutto è la custode dell’opera del padre. Per la conservazione della quale annuncia una collaborazione con la Rai.
Chi era Giorgio Gaber?
«Mio papà, semplicemente. Ho avuto presto la percezione che era un papà fuori dal comune».
Vent’anni senza di lui che mercoledì prossimo di anni ne compirebbe 84: che cosa le manca di più?
«Mi manca il riferimento delle decisioni personali e professionali. Anche sul piano artistico sono orfana, come lo sono tutti quelli che l’hanno stimato. Però abbiamo la fortuna che il suo lavoro è ancora eccezionalmente attuale».
Quanto è stata importante nella sua vita la poliomielite contratta da piccolo?
«Abbastanza, direi. Ha formato il suo temperamento, la serietà nell’affrontare le cose. È stata decisiva nella formazione di musicista, lo ha reso tenace nella costruzione dei suoi spettacoli».
Suo padre gli regalò una chitarra perché esercitandosi sciogliesse la mano colpita dalla malattia. Lui ci prese gusto e una volta disse: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia».
«È andata così».
Chi era l’uomo di spettacolo Giorgio Gaber?
«Una persona semplice e curiosa. Molto ambiziosa nel voler trovare forme d’innovazione e stimoli intellettuali. Quindi, un grande lavoratore».
Cosa significa, concretamente?
«Che non si fermava mai. La sua ricerca di temi da trattare, di cui scrivere o da mettere al centro delle conversazioni con Sandro Luporini non aveva pause. Se a una cena ricorreva un argomento capivo a cosa si stava interessando».
Un uomo di sinistra mal tollerato dalla sinistra?
«Un uomo di sinistra, non della sinistra».
Cosa vuol dire?
«Che nasce di sinistra e ha un’attitudine artistica e comportamentale che richiama i valori della sinistra, senza una necessaria appartenenza alla partitica della sinistra».
Ebbe una prima stagione artistica, quella di Torpedo blu, Il Riccardo… che cosa lo fece virare verso la canzone impegnata?
«Credo che l’incontro decisivo fu con Paolo Grassi quand’era sovrintendente del Piccolo teatro di Milano. Fino a quel momento mio padre apriva gli spettacoli di Mina, un’esperienza non semplicissima perché il pubblico aspettava Mina. Ma lui ci è stato e, sera dopo sera, ha instaurato una relazione artistica prioritaria e unica con il pubblico. Fino a iniziare a pensare, con l’incoraggiamento di Paolo Grassi, di poter chiudere con la tv. Quel rapporto lo incoraggiò a rinunciare a tutto, a fronte di un mestiere difficile come il teatro. All’inizio, non sempre agli spettacoli del Signor G c’era il pienone».
L’hanno influenzato anche la canzone francese e Jacques Brel?
«Lo affascinavano molto e sicuramente hanno influito, ma la passione per il teatro nasce con Mina».
Però non indossò mai il sussiego esistenzialista.
«No. Il teatro era solo il posto dove avevano maggiore capacità di penetrazione le cose che voleva dire».
Che rapporto aveva con le donne?
«Erano anni abbastanza affollati, per usare un suo paradigma. C’era la rivoluzione femminista e mia mamma era molto impegnata. Ma loro si fidanzarono da piccolini, 19 anni lei 24 lui. L’ho sempre visto follemente innamorato. Il rapporto con il mondo femminile è sempre transitato da una donna molto diversa dall’universo tradizionale, impegnata per il divorzio e l’aborto in anni molto caldi».
In Chiedo scusa se parlo di Maria canta: «La libertà, Maria, la rivoluzione, Maria, il Vietnam la Cambogia, Maria, la realtà». Le donne interrompono le astrattezze ideologiche e riportano alla realtà?
«Direi di sì. Mentre il mondo parlava della rivoluzione pensava fosse altrettanto importante parlare del rapporto tra un uomo e una donna».
In un altro brano canta: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione».
«Era un invito a essere concreti perché troppa ideologia finiva in chiacchiere da bar. Chiacchieriamo e pontifichiamo pure, ma se non siamo concreti rischiamo di essere dei ciarlatani, nel senso di ciarlare e basta».
In che cosa può essere considerato un precursore?
«Basta rileggere i temi affrontati con Luporini, temi dai quali per tanti anni i cantautori si sono tenuti lontano. Come le riflessioni sul rapporto di coppia, di un’attualità sconvolgente».
«Al bar Casablanca con una gauloise, la nikon, gli occhiali. E sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali»: anno 1974, vide già la nascita dei radical chic?
«Potrebbe essere senz’altro così. Era un bar di Viareggio, frequentato da intellettuali».
In Io come persona, 1995, descrive «un tempo indaffarato e inconcludente», ma evoca la reazione e la responsabilità dell’io.
«La maggior contemporaneità è quando si addentra nell’analisi della persona. Abbiamo molte testimonianze di giovani che ce lo confermano. Mentre quando affronta la politica anche con pezzi ironici a volte cita figure che i miei figli ignorano, nelle questioni che riguardano l’animo umano mi sembra non ci siano rivali. S’inoltrava in un territorio unico».
È qualcosa che andrebbe protetta e tramandata ai giovani?
«Ci stiamo lavorando, raccogliendo tutti i materiali che in questi vent’anni abbiamo trovato. In collaborazione con la Rai stiamo definendo un progetto di organizzazione di tutto questo materiale».
Vedremo dei programmi tv?
«Per ora è un progetto finalizzato al recupero e alla conservazione».
Come lavoravano lui e Luporini?
«Facevano lunghissime chiacchierate. Mio padre andava in tour durante l’inverno, poi all’inizio dell’estate si ritrovavano a Viareggio, prima all’hotel Maestoso, poi al Plaza e negli anni Ottanta a casa nostra. Erano chiacchierate su tutto, che duravano dal primo pomeriggio fino a dopo cena».
Destra-sinistra è un brano del 1994: aveva già capito che erano categorie che non coglievano più l’essenza delle cose?
«Direi proprio di sì».
Non era una riflessione indotta dalla scelta di Ombretta Colli di candidarsi in Forza Italia?
«È un pezzo nato ben prima. Penso che in teatro l’avesse proposta già nel 1992-’93. Registrava le canzoni quando gli pareva. Al contrario di quello che succede oggi, lui usava il disco per fermare quello che aveva già avuto una vita a teatro».
Però tornò a votare per lei dopo anni che non lo faceva…
«È vero. Disse che il voto va dato alle brave persone e siccome pensava che sua moglie lo fosse, decise di votarla: “Non mi perdonerei mai se non fosse eletta per un voto”».
Fu criticato?
«Moltissimo. L’hanno messo in croce. Molti dei suoi ex amici della sinistra gli hanno anche chiesto di separarsi; perché qualcuno che ti chiede una cosa del genere non penso sia un tuo vero amico».
C’era qualche intellettuale in cui si riconosceva? Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco…
«Direi di no. La loro ricerca scandagliava tutti, da Borges a Pessoa a Rilke, per rubare anche a mani basse, ma dichiarando sempre il debito dalle fonti. Di italiani non ricordo di aver mai visto citato nessuno».
Il potere dei più buoni, 1998, fu un’altra profezia del buonismo terzomondista ecologista a caccia di visibilità?
«Era un sentimento omologato che faceva nascere dei sospetti sull’originalità del sentimento stesso».
Sembrano profili cuciti da un sarto, come in Si può e Il conformista.
«Non c’era un destinatario singolo. Fotografava una tendenza, un sistema di pensiero».
Per che cosa perdeva la pazienza?
«Detestava la superficialità, il tirar via le cose, il fatto di non esser seri. Diceva che voleva essere ricordato come una persona seria, la poliomielite l’aveva formato. Una cosa che diceva sempre della tv, anche a Celentano: tu provi due ore una cosa che vedranno 13 milioni di persone, io tre mesi una cosa che vedranno 300.000 persone».
Era una provocazione?
«Certo, erano grandi amici. Volle tornare in tv proprio ospite di Celentano con il quale si volevano bene».
Ha mai fatto una litigata furiosa?
«Non era un litigatore, uno che si metteva a urlare. I suoi silenzi erano punitivi e più che sufficienti, lo dico da figlia».
C’è qualcosa o qualcuno che non gli piacerebbe dell’Italia di oggi e qualcosa o qualcuno che apprezzerebbe?
«Domanda difficile. Non so cosa penserebbe degli influencer… L’approccio del successo facile non gli piacerebbe. È morto nel 2003, ma per ciò che è successo nell’intrattenimento e nella comunicazione son passati tre secoli».
Vuole raccontarci qualcosa di poco conosciuto della sua vita?
«Quando, a causa dei problemi di salute, non poteva più esibirsi a teatro, io e Paolo Dal Bon, ora presidente della fondazione, lo convincemmo a incidere un disco. Il successo di La mia generazione ha perso, che fu primo in classifica, lo spiazzò perché si accorse che il lavoro destinato al teatro lo aveva fatto arrivare a un numero limitato di persone».
Ho letto su .Con un articolo di Enzo Manes che racconta la sua partecipazione al Meeting di Rimini e l’inizio di un carteggio con don Luigi Giussani.
«Avvenne a fine anni Novanta. A proposito di persone serie, era incuriosito da gente che aveva voglia di riflettere e pensare. Confrontava quel mondo con la deriva del movimento studentesco che l’aveva affascinato ai suoi tempi».
Fu contestato dalla Pantera?
«Non ricordo. Ricordo uno scontro nel camerino del teatro Lirico con gli autoriduttori che volevano imporre esibizioni di persone qualsiasi».
Era incuriosito dalla gente del Meeting pur da posizioni diverse?
«Più di una semplice curiosità era un interesse sincero verso il mondo dei cattolici, interlocutori che lo soddisfacevano sul piano intellettuale e della passione per il ragionamento. Certo, con posizioni diverse, come sull’aborto e il divorzio».
Chi era suo padre?
«Un grande. Da ragazzina non capivo i contenuti degli spettacoli, ma vedevo la faccia delle persone quando uscivano dai teatri e capivo che era un’artista e una persona speciale. Sulla sua tomba abbiamo scritto “Artista”. Anche se lui forse avrebbe preferito “Una persona per bene”».
La Verità, 21 gennaio 2023