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«L’algoritmo ci sfrutta, ma ci crediamo potenti»

Ho letto d’un fiato La dittatura degli algoritmi – Dalla lotta di classe alla class action (Krill Books) di Paolo Landi, consulente di comunicazione per imprese e studioso di new media. Ma più procedevo nella lettura più ne ero turbato e, contemporaneamente, cresceva la tentazione di scendere da questo mondo iperconnesso e ipersorvegliato.

Noi utilizzatori dei social network viviamo in un gigantesco «Truman show»?

«Non so se vorrei scendere dal sistema in cui siamo sprofondati perché la vita è troppo bella e, più che scendere da qualcosa, preferisco salirci e capire dove sto andando».

È proprio questo capire a produrre spavento?

«Quando si capiscono certe cose si possono avere risposte sgradevoli».

Nell’ultimo capitolo parla di «un capitalismo che evolve verso un’unità del mondo sempre più fittizia, dove la rappresentazione del reale si sovrappone al reale stesso»: è la descrizione del «Truman show»?

«Far sembrare le nostre vite in un certo modo anche se non sono in quel modo è uno dei dogmi dell’èra digitale. Non è un caso se si parla di avatar, di nickname, di virtuale, di metaverso. Noi siamo le persone reali e poi siamo quelli che ci rappresentiamo sui social. Non sempre queste due persone coincidono, ma i social sono così pervasivi che l’autorappresentazione virtuale vince su ciò che siamo realmente».

Gli algoritmi sono il dispositivo di questa distopia dolce?

«Come in Truman show la realtà parallela diventa la realtà vera. Viviamo in una dimensione di cui non conosciamo i dati. Nell’èra analogica era più facile capire chi deteneva il potere, oggi è più difficile perché è un potere quasi astratto e tanto raffinato da farci credere di esser noi a comandare e a determinare le sorti della vita e del mondo. In realtà, continuiamo a essere strumenti».

«Cibo per gli algoritmi» ci ha ammonito papa Francesco qualche giorno fa.

«Sarebbe bello non esserlo, ma purtroppo è difficile sottrarsi perché i social arrivano ovunque e sono usati da una massa in continuo aumento».

Nella sua riflessione usa i testi di Karl Marx come termine di paragone perché il capitalismo industriale è divenuto capitalismo digitale?

«Non mi atteggio a filosofo, ma resto un comunicatore che si appassiona alla rivoluzione digitale perché oggi sembra che il mondo sia fatto solo di comunicazione. C’è un esempio che rende la trasformazione da un capitalismo all’altro. Gli ultimi della scala sociale, quelli che Marx chiamerebbe sottoproletari, sono i runner che ci portano la pizza a casa. Il capitalismo digitale fa credere loro di essere imprenditori perché gestiscono il loro tempo, possono guadagnare di più se rispondono a più chiamate e vanno più veloci. È un cerchio perfetto: dallo sfruttato che sapeva di esserlo perché conosceva il padrone allo sfruttato di oggi che crede di essere lui il padrone».

Come cambia il concetto di merce?

«Se guardiamo a Chiara Ferragni capiamo il nuovo modo di concepire la merce. Chiara Ferragni lavora sempre senza lavorare mai. Chi la paga non è proprietario delle sue braccia né del suo tempo, lei è imprenditrice e operaia allo stesso tempo. È merce, ma esaltando al massimo la sua individualità».

Da questo deriva anche la dematerializzazione dell’economia?

«Il paradigma finanziario prende il sopravvento e l’economia perde di materialità, come la perdono l’impresa e la fabbrica. Assistiamo a una specie di terziarizzazione del mondo. Gli italiani non vogliono più fare determinati lavori perché si sentono almeno potenzialmente ricchi. I criteri che prima stabilivano il censo, sui social sfumano fino a sparire. Il parrucchiere e l’avvocato, la dogsitter e il funzionario di banca sembrano uguali e la scala sociale si ridisegna».

I giovani non vogliono più fare l’ingegnere o il medico perché bisogna studiare troppo?

«La Silicon Valley ci ha abituato a pensare la ricchezza come frutto di un’idea. Si diventa ricchi non perché si lavora duramente o si studia, ma perché si ha un’idea. Come Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Elon Musk. Le corporation sono nate da un’idea avuta in età giovanile. Il sistema basato su sacrificio e costruzione quotidiana è obsoleto. Dire guadagnati da vivere “con il sudore della fronte” oggi suona ridicolo».

Scrive che «la rivoluzione digitale è il sovvertimento delle regole che proietta il nostro secolo nella speranza o nell’illusione di un mondo nuovo». Quale delle due?

«Punto sulla speranza perché credo che la fase pionieristica che stiamo vivendo ci alleni a essere uomini nuovi che utilizzano strumenti inventati da noi. Penso che il progresso lavori in direzione del miglioramento della vita dell’uomo. Tuttavia, certe volte mi vengono dei dubbi e un po’ di paura».

Siamo immersi in un’avvolgente illusione?

«A volte lo penso, ma non perdo la speranza».

Possiamo dire che il caso Chiara Ferragni è emblematico di questa incertezza?

«È sicuramente emblematico dell’epoca in cui viviamo, ma soprattutto prefigura il nostro futuro. Chiara Ferragni è stata una pioniera perché ha capito prima di tutti che lei stessa era il brand e non c’era bisogno di altre sovrastrutture attorno a questo brand. Lei rappresenta il livello più alto di retribuzione e ricchezza, i runner il livello più basso degli imprenditori di sé stessi. Ci fanno credere di essere artefici del nostro destino solo perché non timbriamo il cartellino, mentre dipendiamo da chi manovra queste tecnologie e siamo più sfruttati degli operai delle fabbriche fordiste».

Che cos’è il «comunismo distopico» di Chiara Ferragni?

«Paradossalmente, il suo turboliberismo individualista coincide con il comunismo di Marx. Il prevalere dell’uomo sullo sfruttamento realizza la liberazione dall’alienazione del lavoro che Marx aveva immaginato».

Che cosa ha sbagliato nelle campagne del pandoro Balocco, delle uova di Dolci preziosi e della bambola Trudi?

«Secondo me, niente. Le responsabilità sono delle imprese che l’hanno ingaggiata. Lei ha fatto il suo mestiere e credo non debba rendere conto a nessuno se fa beneficenza o no. Forse un errore è stato devolvere un milione di euro dopo le accuse perché è sembrata una excusatio non petita».

Si è prestata a una campagna ingannevole?

«Penso che la Balocco abbia molta responsabilità. Accade spesso che si destini in anticipo la cifra della beneficenza, perché spesso queste campagne producono poco. Se invece si sono venduti molti pandori, allora si poteva conguagliare la cifra anticipata. Ma su questo Chiara Ferragni non c’entra».

Ha prestato sé stessa per una campagna fasulla?

«Al massimo avrebbe potuto dire alla Balocco di devolvere 100 euro in più del cachet riconosciuto a lei. Vedo più la responsabilità dell’azienda di quella della testimonial».

La procura di Milano parla di «unico disegno criminoso».

«Mi sembra un’esagerazione. Vedremo».

Il governo ha deciso di regolamentare la beneficenza.

«Ha fatto bene».

Alcuni seguaci di Chiara Ferragni sono passati alla class action?

«Naturalmente c’è un’onda emotiva, ma non credo scalfirà l’immagine che si è costruita nel tempo e che mi sembra abbastanza solida».

Com’è visto chi si arricchisce con dei selfie e dei sorrisi da chi non arriva a fine mese?

«Bella domanda. Purtroppo, l’economia che ci aspetta emarginerà ancora di più i poveri. Il divario digitale è questo».

Come convivono ricchezza virtuale e povertà reale?

«Convivono perché siamo in una fase di passaggio tra fabbrica fordista e mondo digitale. Il mio libro è un tentativo di svelare l’inganno di far credere ai poveri di non esserlo mentre continuano a esserlo profondamente».

Il frazionamento in community e minoranze è funzionale al capitalismo globalizzato?

«Sia il capitalismo digitale che quello analogico si basano su “divide et impera”. Perciò si rilancia il corporativismo, donne contro uomini, neri contro bianchi, gay contro etero. È un capitalismo molto individualizzato, che ci spinge a essere sempre più soli».

Perché la sinistra ha sposato formule e linguaggi delle corporation digitali?

«È un grande equivoco. Il tema delle disuguaglianze è solo in parte un problema di linguaggio. A noi europei sofisticati risulta ingenua la riduzione linguistica del problema delle ingiustizie sociali e della parità di genere che arriva dall’America».

Abbiamo scoperto le echo chamber, le camere dell’eco: le piattaforme giocano al gatto col topo con gli utenti?

«I social sembrano il massimo della democrazia, in realtà separazioni e divisioni si consolidano nei social. Veniamo canalizzati nelle echo chamber, bolle nelle quali interagiamo con chi la pensa come noi e ha gusti simili ai nostri».

È una libertà condizionata.

«Non ci rendiamo conto che i social sono prodotti commerciali. E che le piattaforme dove postiamo un parere sono come un marchio di scarpe o una bevanda. Fatichiamo a comprendere che quando scriviamo su X stiamo arricchendo chi lo possiede perché non siamo abituati all’astrattezza del prodotto».

I social sono un luogo di conformismo e omologazione?

«Totalmente».

Il capitalismo digitale preferisce individui soli, isolati, perché sono consumatori più manovrabili?

«Il capitalismo tradizionale aveva creato i sindacati. Oggi nessuno lotterebbe per un diritto pensando che potrebbe servire a chi verrà dopo di lui. L’individualismo è così radicalizzato che si preferisce licenziarsi piuttosto che unirsi agli altri e lottare per dei diritti come si faceva un tempo. Siamo nell’epoca della solitudine».

Il single è più orientato al consumo di un padre di famiglia?

«È più orientato all’edonismo che alla responsabilità».

La disillusione della fiaba digitale è iniziata?

«Le masse sono ancora preda della fiaba. Una parte delle élite comincia a essere consapevole dell’illusione e dell’inganno».

Cominciano a essere più interessanti, più liberi e indipendenti coloro che non frequentano i social?

«Chi sta completamente fuori guadagna in libertà, ma perde stimoli e opportunità. Si è contemporanei se si vive il proprio tempo in ogni suo aspetto. Uno dei miei più grandi amici non frequenta i social e non guarda la tv. Quelli che stanno fuori sono nascosti, non si sa chi sono».

Hanno già fatto la class action dai social?

«Non c’è ancora class action dai social, ci sono disamoramenti temporanei. Ormai, i social network fanno parte della nostra vita».

 

La Verità, 27 gennaio 2024

 

«Lo dice la storia, dopo le pandemie c’è la rinascita»

Professore, da grande viaggiatore quanto soffre il lockdown?

«Non molto. Quando c’è vento fatti canna, recita un detto siciliano. Finita la bufera torni dritto…».

Franco Cardini ha la saggezza degli antichi e dei filosofi. Di suo, è storico, insigne medievista, fondatore e direttore di riviste, consulente di case editrici, polemista. «Impenitente reazionario», sottolinea. Cattolico, antimilitarista, tutt’altro che innamorato della democrazia, riluttante alle regole della tecnologia e del giornalismo: «Il mio sito lo gestiscono alcuni collaboratori, ci scrivono anche altri, io ogni tanto mando le mie pensate. Quando scrivevo per il Giornale e Indro Montanelli mi chiedeva 4.000 battute me ne venivano il doppio. “Io non taglio nulla, taglia tu”, mi ribatteva. “Ma sono le due di notte”. E lui: “Veglia”».

Con quale immagine descriverebbe la situazione in cui siamo?

«È l’esito finale del capovolgimento del rapporto tra domanda e offerta attuato dall’Occidente. Un tempo era il cliente a stabilire cosa far produrre. Da due millenni la prospettiva è rovesciata: i produttori inducono i consumi per arricchirsi. Le conseguenze le vediamo».

La pandemia ci ha fatto riscoprire gli esercizi spirituali?

«Ci dividiamo in tre famiglie. Quelli che non hanno scoperto un accidente e restano nel disagio o nell’ottusità. La maggioranza che ha riscoperto questa dimensione dimenticata. E una minoranza che non ha mai abbandonato, almeno in linea concettuale, il silenzio e il rapporto con sé stessi. Qualcosa che i credenti chiamano Dio».

Finiti gli esercizi spirituali ci sarà la trasformazione del capitalismo?

«Non credo. Il capitalismo può cambiare i suoi pesi e contrappesi interni. Più produzione e meno finanza, più tecnologia e meno manifattura, forse. Ma senza ciò che i greci chiamavano metanoia, cioè conversione a qualcosa di diverso, il capitalismo non muterà la sua natura determinata dalla fame dell’oro».

Vede il pericolo di svolte autoritarie?

«Quello c’è sempre. Ma che sia in sé un pericolo è da dimostrare. Io sono un impenitente reazionario e segnalo che prima della svolta autoritaria c’è il disordine. Platone osservava che quando c’è troppa licenza, un eccesso di forza bruta a tutti i livelli, questo genera un violento e arbitrario ritorno all’ordine. Aveva ragione e viveva ad Atene».

Si parla di primato della scienza, ma i virologi litigano.

«Da una parte riconosciamo il primato della competenza e la necessità che certi argomenti vengano discussi tra addetti ai lavori, dall’altra, vittime della mitologia democratica, pretendiamo di sapere e dire la nostra su tutto, anche quando dovremmo ascoltare. I talk show sono l’emblema di questa contraddizione. Aveva ragione Umberto Eco: c’è una massa di imbecilli che vuole pontificare senza studiare».

La pandemia è una lezione di umiltà per la scienza che rincorre il virus?

«Qualunque scienziato serio sa di essere una formica. Il problema è che la scienza non va avanti sulle proprie gambe, ma su quelle del potere. I mezzi per farla avanzare sono in mano a chi dovrebbe decidere per il bene comune, ma in realtà decide per mantenere la propria supremazia».

Ai tempi della spagnola la scienza era messa peggio, ma si faceva leva su altre risorse?

«C’erano maggiore coesione sociale e maggiore capacità di reagire intimamente. Più fede religiosa e più capacità di relativizzare la vita umana. In Italia abbiamo adottato misure così drastiche perché abbiamo proiettato a livello sociale le nostre paure individuali. Se la vita è un valore assoluto perché siamo convinti che dopo non ci sia nulla, la morte è irrimediabile».

La politica che figura ci sta facendo?

«Nel Medioevo l’egoismo dei politici era temperato dalla filosofia del buongoverno. Carlo Marx prevedeva che i governanti si sarebbero trasformati in comitati d’affari. L’economia e la finanza – le menti – e la tecnologia – il braccio armato – comandano sulla politica che balla su uno spartito scritto da altri. Se Machiavelli scrivesse oggi Il Principe non lo spedirebbe ai capi di Stato, ma a Wall Street o a Davos».

E i nostri governanti come si stanno comportando?

«Si potrebbe far di meglio, ma non so quanto. L’Italia è una delle maggiori potenze europee, ma avendo perso l’ultima guerra ha ceduto sovranità. Non abbiamo autonomia nel decidere se fare la guerra o mantenere la pace. Non abbiamo sovranità diplomatica, monetaria e territoriale. Siamo un Paese militarmente occupato da circa 130 basi di uno Stato extraeuropeo e di un’alleanza egemonizzata dalla Nato».

Che nesso c’è con la gestione dell’epidemia del coronavirus?

«Il nesso è nei fondi che si usano per fabbricare gli F35 anziché per il sistema sanitario. Sono antisovranista perché i sovranisti non lo sono abbastanza. Il cane bastonato morde il bastone e lecca la mano del padrone, ma se capisse da dove viene la bastonata morderebbe la mano. Questo Giorgia Meloni lo sa bene».

Il premier Conte è troppo paternalista quando assicura che non si potrà tornare alla situazione di prima?

«Un governante ha una capacità di comprensione del mondo superiore a quella dei cittadini comuni. Il pater familias è per natura paternalista».

Il paternalismo può servire a indorare il lockdown e prolungare il mandato?

«Uno statista adegua le scelte alle esigenze del momento. C’è un’emergenza senza precedenti. Poi può anche sbagliare. Il governante dice: so più cose, ho più responsabilità e più mezzi di voi. Quando vi dico una cosa, fatela».

La tendenza ad applicare uno schema identico a situazioni diverse è eccesso di ideologia?

«Credo che se il governatore di una regione decide una linea più permissiva debba anche assumersi la responsabilità di affrontare l’eventuale ripresa del contagio».

Molise e Umbria devono sottostare alle stesse normative decise per Lombardia e Piemonte?

«Bisogna pensare alle possibili ricadute del contagio. L’obiettivo di un governo dev’essere arrivare al debellamento del virus su tutto il territorio nel minor tempo possibile. Il virus si è diffuso con tempi e modalità diverse, sparirà con tempi e modalità diverse. In alcune regioni servirà qualche settimana, in altre qualche mese. Perciò, certe cose si possono fare e altre no».

Lo stesso eccesso ideologico si è visto nella sospensione delle funzioni religiose feriali? In certi paesi di campagna l’unica novità è il divieto di assistere alle messe.

«Il divieto di partecipazione alle messe è una misura estrema, bastava chiedere il rispetto della distanza di un metro. I valori di carattere spirituale che riguardano i diritti di Dio sono superiori ai valori materiali».

Le gerarchie ecclesiastiche dovevano fare di più perché venissero rispettati?

«Le gerarchie sanno che gran parte dei fedeli sono tiepidi. Perciò, non hanno avuto una reazione più robusta di fronte a questi provvedimenti. Dei credenti autentici sarebbero insorti. Pur di non rinunciare all’alimento spirituale avrebbero corso il rischio dell’infezione».

Che sentimento le ha provocato la Preghiera del Papa in piazza san Pietro?

«È stato il gesto della solitudine della Chiesa e di un Papa che ribadisce il suo ruolo nel mondo. Ma che, allo stesso tempo, non può chiedere ai fedeli di venire in piazza. Lo fece nel 1630 il cardinal Federigo Borromeo con un’altra cristianità, indicendo la processione per scongiurare la peste. Il giorno dopo erano tutti infettati, ma credevano fosse per volontà di Dio».

Le sono piaciuti i balconi del 25 aprile?

«Non capisco come mai devo adattarmi alla messa televisiva e si è permesso a tante persone di celebrare insieme il 25 aprile. I balconi mi sono sembrati la dimostrazione che abbiamo bisogno di liturgie consolatorie, cantando Bella ciao o Fratelli d’Italia».

Fratelli d’Italia più di Bella ciao, o no?

«Come cittadino sì, ma come uomo l’unità d’Italia è stata una sciagura. Ero per il mantenimento del Granducato di Toscana, cioè per un’unità non lesiva delle differenze regionali, su modello dei länder tedeschi. Invece abbiamo scelto qualcosa di contrario alla nostra storia, simile allo Stato nazionale francese».

Come si sta comportando l’Europa?

«Come un’entità inesistente. Quando si è formata, pareva un passo verso un assetto federale o confederale. Invece l’Unione europea è solo doganale e finanziaria, al massimo socioeconomica. Non certo sociopolitica. È il regno dei Chief executive officiers, funzionari che badano agli interessi delle lobby e delle multinazionali. L’Europa non dispone di strumenti legislativi per arginare le crisi. Dipendiamo dai banchieri tedeschi e dagli imprenditori francesi».

In questa emergenza si sono realizzate le idee di Beppe Grillo: riduzione dei consumi non essenziali, stop alle grandi opere, tutti a casa con i sussidi statali: è la decrescita felice?

«Non tanto. Quella di Grillo è una visione statica. Gli storici sanno che durante le pandemie succede questo. Dobbiamo recuperare la capacità di guardare oltre. Per fortuna, dopo le epidemie e le guerre c’è un rifiorire, si aprono nuove strade…».

Anche quella di una vita controllata dalla tecnica: droni, piattaforme, app. Scaricherà l’applicazione «Immuni»?

«Io no, i miei familiari e collaboratori sì. È la contraddizione dei sistemi democratici: difesa della privacy o sicurezza, libertà o salute. Nasce dalla Rivoluzione francese: la fraternità è la componente più trascurata, libertà e uguaglianza sono difficilmente compatibili. Il vaccino garantisce salute, ma impone controllo sociale. Il drone salva dal malvivente, ma sorveglia il privato. Trovare il giusto equilibrio spetta alla politica».

È ottimista sul futuro?

«Sì, grazie ai miei studi. Dopo un trauma c’è sempre una ripresa. Dopo la crisi del Basso Medioevo, dopo la Seconda guerra mondiale… Si torna a riempire i vuoti. Lo dico a scapito di me stesso: la pandemia si comporta da predatrice e colpisce i più deboli della specie, indirettamente rafforzandola. Dopo aver perso potere demografico ci sarà una nuova natalità. Dopo aver perso ricchezza torneremo a produrre…».

 

La Verità, 3 maggio 2020

«I social network creano tanti egomostri»

È il più controverso opinionista del momento. Irriducibile agli schemi consolidati. Ha innescato la verve di Giampiero Mughini, il disappunto di Flavio Briatore, le critiche del Foglio e quelle di Antonio Di Pietro dicendo che «Mani pulite fu un colpo di Stato», gli attacchi di Wired, Linkiesta, Minimaetmoralia e siti vari. Pur essendo filosofo di professione, Diego Fusaro, 34 anni, nativo di Torino, autore Einaudi e Bompiani, molto presente sui social oltre che in tv, non trascende mai. Marxista e anticapitalista convinto ma al contempo sostenitore della famiglia tradizionale, è accusato di essere un intellettuale della supercazzola, depositario di tesi abborracciate. Alcuni suoi post sono fulminanti: «Hallowen, festa mondialista»; «E tutto divenne merce, anche l’utero in affitto»; «La sinistra è passata dal Quarto stato al terzo sesso».

Un altro felice aforisma è «I selfie della gleba e i nuovi egomostri». Anche lei quanto a ego non scherza.

«Spero di non essere anch’io un egomostro come coloro che critico. Credo in quello che dico e ci metto sempre la faccia, in un’epoca di pavidi che si nascondono dietro pseudonimi o frasi fatte».

 

Fusaro: «Selfie della gleba e i nuovi egomostri»

Fusaro e la cultura del narcisismo: «Selfie della gleba e i nuovi egomostri»

Si definirebbe marxista conservatore o reazionario marxiano?

«Se proprio devo farlo, mi definisco allievo indipendente di Hegel e di Marx. Secondo Hegel, il rivoluzionario è colui che supera conservando o conserva superando».

Come nasce Diego Fusaro?

«Nasco a Torino da una famiglia di umili origini. I nonni paterni erano emigrati dal Veneto per lavorare alla Fiat, i nonni materni contadini. I miei genitori fanno tutt’altro rispetto a me. Decisiva è stata la scoperta della filosofia al liceo. L’incontro con Costanzo Preve mi ha permesso di avviare una rilettura che tenesse insieme Hegel, Marx e i Greci. Vivo a Milano, dove insegno allo Iassp (Istituto alti studi strategici e politici). Ho fondato Interesse nazionale, un’associazione il cui motto è “Né mondialisti né nazionalisti”, che pubblica una rivista e gestisce una scuola filosofica».

Da Marx e Hegel ha preso l’anticapitalismo.

«La mia coscienza infelice di anticapitalista ha idee di sinistra e valori di destra».

Può dettagliare?

«Idee di sinistra: lavoro, diritti sociali, comunità solidale, attenzione per gli oppressi, uguaglianza. Valori di destra: identità, nazione, patria, famiglia, lealtà, religione. Tutte quelle cose che fanno sì che a destra dicano che sei comunista e a sinistra che sei fascista».

Il superamento delle categorie novecentesche la rende difficilmente incasellabile. Potrebbe essere una strategia: si diverte?

«Non ho mai voluto farmi incasellare in uno schema o in un partito. Non è per divertimento, ma perché amo pensare con la mia testa».

 Certe sue argomentazioni sembrano pagare un tributo al complottismo.

«Complottismo è il modo di classificare qualsiasi lettura divergente da quella dominante. In quest’ottica Socrate, Marx e tutta la filosofia che cerca l’essenza dietro l’apparenza sono complottisti».

L’origine del disastro dove va cercata?

«Nel capitalismo che dal 1989 non ha più alcun limite morale né geopolitico. L’89 è l’anno orribile della storia recente».

È l’anno in cui la democrazia si è estesa e il benessere è diventato una possibilità per tutti.

«Questa è la narrazione dell’1% di ricchi che anche il 99% ha accettato come vera. Non mi pare che il benessere sia stato messo a disposizione di tutti. Negli ex Paesi comunisti la povertà è aumentata a dismisura».

Auspica un ritorno al mondo diviso tra Est e Ovest e alla cortina di ferro?

«Ragiono dialetticamente. Non penso di ripristinare quello che è andato perduto, la polis e il comunismo. La storia procede e conviene adoperarsi per migliorare il presente, affinché l’uomo non sia vittima del mercato e ritrovi il suo posto nel mondo».

Nell’89 è finito l’inganno comunista ed è nata l’Europa, che per lei è una sciagura.

«Finito il comunismo, al capitalismo sfrenato mancava disintegrare gli stati, ultimi baluardi della difesa del bene comune. L’Europa è servita a questo».

Vorrebbe l’espansione dei sovranisti?

«Io non parteggio. Penso che la sovranità sia ineludibile per una politica democratica a sostegno anche delle classi più deboli. Senza sovranità vince il libero mercato, la competitività e quindi il più forte».

Come si sconfigge l’idolatria del mercato?

«Intanto riconoscendo che è una vera religione che minaccia tutte le altre, pretendendo d’imporre universalmente i suoi simboli. Siamo nell’epoca in cui non si possono esporre crocifissi o veli islamici, ma solo merci di qualsiasi tipo e in modo selvaggio».

Nel suo libro Pensare altrimenti scrive che «il dissenso come rifiuto dell’autorità e del potere costituisce il fondamento della civiltà occidentale». Poi è arrivata la globalizzazione. Cos’è andato storto?

«Siamo entrati nel totalitarismo perfetto che fa apparire come imperfetti tutti quelli passati».

Perché più pervasivo, più scientifico o più seducente?

«Perché riesce a colonizzare le coscienze e devitalizza la possibilità del costituirsi del dissenso, dilatando il pensiero unico».

Che si affermerebbe grazie alla dittatura del mercato alla quale servono gli «atomi seriali». Ce ne fa l’identikit?

«È il profilo antropologico dell’uomo in balia del capitalismo contemporaneo. Un tempo il dominato era il proletario di fabbrica, che aveva una sua coscienza di classe, una stabilità territoriale, dei valori e una capacità rivendicativa come raffigurato nel Quarto stato. Oggi in luogo del proletariato c’è il precariato. Una massa amorfa di atomi erranti, flessibili, senza identità, coscienza di classe e progettualità».

Ai quali vengono contestate le certezze esistenziali e psicologiche, la famiglia e le altre appartenenze.

«Sono individui sradicati, permanentemente mobili e sciolti da ogni solido legame comunitario, dalla famiglia allo stato nazionale. La famiglia è il primo bersaglio. È la comunità delle comunità, come diceva Aristotele: colpire quella per arrivare alle altre. Se hai radici sei meno gestibile dal potere».

Il Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Il Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Cito: «La sinistra è passata dal Quarto stato al terzo sesso».

«Nella mia concezione la sinistra doveva essere agente della trasformazione verso una società emancipata. Invece il progresso cui assistiamo è quello del capitale che trasforma tutto per rinsaldare sé stesso. Ci sarà un motivo se negli ultimi trent’anni tutte le conquiste della sinistra sono state contro le classi più deboli».

Esemplifichi.

«Il pacchetto Treu con la precarizzazione del lavoro, le liberalizzazioni del governo D’Alema, il jobs act del governo Renzi. Se la sinistra smette di interessarsi a Gramsci e Marx, allora conviene smettere d’interessarsi alla sinistra».

Imputa al M5s di non avere un collegamento con il mondo intellettuale.

«Il Pd ha gli intellettuali e non ha il popolo, i 5 stelle hanno il popolo ma non gli intellettuali. Questa è la tragedia della politica italiana».

E il terzo sesso? Perché attacca anche l’ideologia gender?

«Perché non è altro che la distruzione dell’identità e l’imposizione dello sradicamento sul piano della sessualità. Il tutto a beneficio del capitalismo flessibile contemporaneo che non vuole uomini, donne, famiglie e prole, ma solo atomi unisex che nell’ambito erotico danno luogo al godimento deregolamentato. Esattamente come deregolamentato è il mercato, con competitor individualizzati e senza vincoli solidali».

Facesse il consigliere politico chi sceglierebbe tra i leader in circolazione?

«Credo che se tornasse in vita anche Machiavelli faticherebbe a trovare un principe».

Se lo trovasse, per rilanciare l’Italia da dove lo farebbe cominciare?

«Dalla cultura. Che è il fondamento del nostro Paese ed è ciò che abbiamo dimenticato. Rilancerei il liceo e gli studi classici».

Come si diventa personaggio televisivo?

«Non credo di esserlo, sono uno studioso che viene talvolta interpellato in tv».

Il suo apparire antipatico sembra una scelta.

«Non credo di esserlo, lo sono?».

Arriva una certa alterigia…

«Credo nelle cose che dico perché studio. Procedo con la docile forza della ragione, non sarò trovato ad alzare il tono della voce. Mi spiace se risulto antipatico. Tra tanti personaggi buffi, mi piace non corrispondere a questo canone».

In un’epoca in cui si esulta per la fine delle ideologie, otto anni dopo riscriverebbe Bentornato Marx?

«Lo scriverei tale e quale perché le analisi di Marx continuano a essere imprescindibili per capire le contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Solo con Marx si è miopi, senza Marx si è ciechi».

Ha letto l’intervento su Studi cattolici di suor Monica Della Volpe, nipote del grande filosofo marxista Galvano, a proposito degli ultimi giorni di suo zio? Le chiese di dettarle le riflessioni finali di un libro perché molto malato: «Alla fine non c’è più né Marx né Engels, c’è solo Gesù Cristo».

«È una questione interessante che aveva già colto Pasolini. Il contrario del comunismo non e la religione perché il comunismo stesso lo è. Il contrario della religione è il capitalismo ateo, materialista, cinico e individualista. Non c’è da stupirsi se dei comunisti guardano con rispetto a Cristo. Il dramma è quando certi comunisti aderiscono al capitalismo rinnegando Marx e Cristo. Si potrebbe fare un lungo elenco, che risparmiamo per carità di patria».

Ritenendo il dissenso la genesi della civiltà occidentale, Gesù Cristo sarebbe fuori perché fece dell’unità con l’autorità la sua forza.

«C’è un unico momento nel vangelo in cui Cristo si adira, dissente e diventa quasi violento: la cacciata dei mercanti dal tempio. Di questo oggi c’è più che mai bisogno».

C’è qualcosa che le trasmette ottimismo?

«Nulla. Nelle tendenze obiettive non vedo nulla di positivo. Sono ottimista con la volontà, come lo era Gramsci».

La Verità, 5 novembre 2017