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«La bellezza è visibile anche da chi non vede»

Vincenzo Mollica è un gigante con l’innocenza di un bambino. Con lui e sua moglie Rosa Maria, anche lei persona speciale, ho trascorso una bellissima mattinata nella loro casa in Val Seriana. Una casa immersa nel verde e allietata dal cinguettio degli uccelli. Non conoscevo Vincenzo, storico inviato di spettacoli del Tg1, premiato con il David di Donatello alla carriera. Ma dopo qualche telefonata ha accettato di soddisfare questa curiosità: cieco a causa di un grave glaucoma e affetto dal morbo di Parkinson – «du fiji de ’na mignotta» -, rimane sereno perché è buono come il pane o perché lo aiuta qualcos’altro? Oltre l’impossibilità di vedere, la fede gli dona un altro tipo di sguardo? «Non ho mai raccontato pubblicamente queste cose, ma stavolta lo faccio perché Cesare G. Romana, illustre collega del Giornale, mi aveva parlato di te», confida. A mia volta io ricordo quando, mentre si lavorava a una trasmissione televisiva, Claudia Mori e Adriano Celentano si gasavano: «Adesso dobbiamo chiamare Vincenzo». Una manciata d’anni dopo, eccomi a dialogare con lui di giornalismo, grandi artisti e bellezza.
Quali sono i segreti della tua carriera?
«La fatica, la curiosità e la passione. Il quarto segreto è l’idea di servizio pubblico imparata da Emilio Rossi, direttore del Tg1, e dal suo vice, Nuccio Fava. Per questo non ho mai cambiato casacca e sono sempre rimasto nella redazione cultura e spettacoli che ho contribuito a fondare con Gianni Raviele sotto la direzione di Albino Longhi».
Qual è stata la tua maggiore soddisfazione professionale?
«Sono state tante. Ho avuto la possibilità di essere testimone degli Oscar alla carriera di Federico Fellini e di Michelangelo Antonioni e degli Oscar a Roberto Benigni per La vita è bella. Ho potuto frequentare tanti artisti».
Ci sono gli amici nel mondo dello spettacolo?
«Ci sono come in tutte le situazioni della vita. Ho la fortuna di averne tanti e di continuare ad averne anche se non faccio più il mio lavoro. Lo sono stati Fellini, Hugo Pratt, Andrea Pazienza, Alda Merini, Franco Battiato, Daniele Del Giudice, Vincenzo Cerami. Lo sono Rosario Fiorello, Renato Zero, Paolo Conte, Francesco De Gregori, Milo Manara, Adriano Celentano. Persone con cui ho condiviso 40 anni di vita. Mina è un’altra persona cara, ho curato la raccolta di dvd sui suoi anni alla Rai».
Chi è il cronista, come ti definisci orgogliosamente?
«È un cercatore di storie, gli artisti hanno tante qualità da far conoscere. Come cronisti abbiamo il compito di trovare persone che riescono ad allargare il nostro sguardo sulla vita. Per me le opere d’arte non sono accessorie, ma sostanza. Se non avessi letto certi libri, visto certi film, ascoltato certe canzoni non sarei quello che sono oggi. A 71 anni ho ancora voglia di cercare e Mister Parkinson e Signora Cecità mi aiutano a farlo».
In che modo?
«Mi danno la voglia di capire ciò che mi sta succedendo, mi spronano a cercare l’essenza della vita. Quando hai due compagni così senti tutto in modo diverso, dai profumi dei fiori al canto degli uccelli. Il sapore del creato. A volte ci si sente abbandonati, altre volte si è contenti di sperimentare ciò che ci regala l’avventura umana».
Perché ti piace fare le interviste?
«Vinicius de Moraes diceva: “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”. Così ho capito che durante le interviste la cosa più importante è ascoltare. Non ho mai usato le domande per esaltare il mio narcisismo e mostrarmi più colto di chi mi risponde. Solo così puoi trasmettere le informazioni e le emozioni di quell’incontro».
Ci vuole curiosità per le persone, per il mistero dell’uomo.
«Una volta Fellini mi disse che era la curiosità a farlo alzare la mattina. La curiosità alimenta la nostra vita. In particolare, le cose che ami, quelle che la condensano meglio. Come l’arte».
Ciò che conta è lo stupore?
«La vita ci sorprende continuamente. Viviamo momenti di dolore, di allegria, di solidarietà, di generosità. E tutto è concentrato in queste quattro lettere. Per spiegare la vita ci vorrebbe una biblioteca sconfinata. Ma anche se ci avviciniamo alla sua realtà non riusciamo ad afferrarla perché è irriducibile a una formula matematica».
Qual è l’incontro che ti ha dato di più?
«Quello con Federico Fellini. Quando uscivi con lui non sapevi mai a che ora saresti tornato a casa, ma sapevi che ci saresti tornato meglio di come eri uscito. Con la mia Uno rossa, di notte, ci perdevamo per Roma. Spesso voleva passare per piazza San Pietro, vedere il colonnato, assaporare la spiritualità che emanavano quei luoghi. Andavamo al ristorante a mangiare cibi semplici, ma lui riusciva a farti percepire la solita cosa in modo nuovo. “L’unico vero realista è il visionario”, diceva. Oppure, citando Leopardi: “Nulla si sa, tutto si immagina”. Me lo disse quand’ero vedente e ora questa frase continua a echeggiare nella mia testa».
Cos’hai pensato quando da bambino hai appreso che saresti diventato cieco?
«Sono felice di averlo saputo a 8 anni. Mia mamma si era accorta che dall’occhio sinistro non vedevo. Mi portarono da un oculista a Locri e dopo la visita mi pregarono di uscire dalla stanza. Ma la porta rimase socchiusa e gli sentii dire che sarei diventato cieco. Tornando a casa non ho cercato di capire cosa volesse dire, ma se coprivo l’occhio destro con la mano, non vedevo più nulla. Un oculista di Messina che mi visitava ogni sei mesi mi tranquillizzò: se avverrà, sarà da adulto, ma potrebbe anche non avvenire. Invece, è avvenuto».
Come ti sei preparato?
«Cercando di memorizzare quello che vedevo. Camminando, localizzavo la posizione delle pietre. Quando andavo al Festival di Cannes o alla Mostra di Venezia imparavo i percorsi a memoria. Avrei già potuto muovermi a occhi chiusi. Imparavo anche i libri e i fumetti che leggevo. Una volta chiesi ad Andrea Camilleri, anche lui colpito dal glaucoma, se esisteva l’arte di non vedere. Mi disse: “Vincenzino, non dimenticare mai la tavolozza dei colori che hai nella testa”. E mi raccontò che di notte faceva un esercizio particolare, proiettando mentalmente i quadri e le scene dei film che aveva amato, e che gli apparivano più vividi di come li aveva visti la prima volta: “Con il cervello, puoi trasformare il buio in un grande schermo”. Come in un fumetto».
Che cosa ti aiuta a non perdere la serenità?
«Ci sono persone che sono entrate in depressione. Io non ne ho mai sofferto, ho accettato questi due malanni che mi sono capitati. Ho la fortuna di avere un carattere paziente e ironico. Poi ci sono Rosa Maria, mia moglie, e Caterina, mia figlia, che mi accompagnano con pazienza e dolcezza».
Oltre a godere della loro vista, che cosa ti manca in particolare?
«Scrivere e disegnare a mano su fogli di carta. Non ho mai usato la tecnologia, pur essendo stato il primo giornalista Rai con un sito dedicato. Mi manca scarabocchiare sulla carta, le frasi che cancelli tornano buone per quello che scriverai dopo. Anche durante i collegamenti con il tg mi aiutavo con appunti su foglietti. E mi piaceva colorare…».
Sottolinei spesso che attingi al bicchiere mezzo pieno: che liquido contiene?
«Contiene il sostegno della mia famiglia e anche della fede. Sono credente. È un fatto intimo, personale. Considero la Bibbia un libro fondamentale e la figura di Gesù una fonte permanente di speranza».
Hai l’abitudine di pregare?
«Prego non per necessità o per chiedere qualcosa che vorrei mi accadesse. Ma per coltivare una dimensione spirituale che il tempo in cui viviamo ci induce a trascurare».
Ti aiuta a convivere con la tua condizione?
«Non c’è dubbio. Quassù, fino a qualche anno fa, c’era don Tarcisio, un sacerdote di grande delicatezza umana, con il quale facevo lunghe chiacchierate. Erano come momenti di preghiera. Sempre qui vicino c’è il santuario di Lantana, davanti a una vallata meravigliosa. Adesso, ogni tanto mi faccio accompagnare e con il trucco di imparare i paesaggi a memoria, rivedo tutto e mi viene voglia di pregare. E poi c’è un’altra cosa che mi piace. Giovannino Guareschi e il suo Peppone e don Camillo. Quel dialogo con Cristo in croce mi ha sempre affascinato. A volte leggevo qualche pagina del Breviario di don Camillo, pubblicato dalla Rizzoli».
La frase di Fellini sulla visionarietà del realista mi ha ricordato quello che dice la volpe nel Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry: «Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi».
«C’è qualcosa di molto vero, l’essenziale passa dal cuore e lo fa pulsare. Quando ero ragazzo e muovevo i primi passi, Celentano cantava Pregherò, la prima canzone che parla di una persona cieca: “Non devi odiare il sole perché tu non puoi vederlo, ma c’è”. Poi in Santa Lucia De Gregori canta “per tutti quelli che hanno occhi e un cuore che non basta agli occhi”».
Vuoi dire qualcosa, per finire?
«Sì. Mi diverte Mr. Magoo, un personaggio dei cartoni animati che non vede nulla eppure riesce a superare seraficamente situazioni complicatissime. Mi ha fatto capire che si può contemplare il bello anche da ciechi».

 

Il Timone, Luglio-Agosto 2024

Il Gattopardo della tv muta solo tasto sul telecomando

Il Gattopardo della televisione italiana ha provato a far passare l’idea che «tutto cambia perché nulla cambi». E forse ci è riuscito. I pesci ci sono, la squadra è la stessa, anche lo studio è uguale e, dunque, un pezzo di Rai adesso va in onda sul Nove (e in simulcast su altri otto canali del gruppo Discovery). «È tutto uguale, ma è tutto diverso», ha chiosato Filippa Lagerbäck dopo il benvenuto del cerimoniere Fabio Fazio. È stato solo un cambio di tasto sul telecomando e a perderne è la Rai, non tanto e non solo in termini di ascolti – i calcoli si faranno più avanti – quanto in termini di asset. La Rai, questa Rai, finora non ha saputo trovare le risorse per replicare all’esodo registrato in questa stagione. Molti anni fa, era il 1987, Pippo Baudo e Raffaella Carrà migrarono a Canale 5 e l’allora direttore generale Biagio Agnes contrattaccò consegnando ad Adriano Celentano le chiavi del sabato sera. I meno giovani ricordano come andò.

Che tempo che fa rimane in gran parte uguale a sé stesso, al suo falso buonismo, alla sua missione di dare la linea perbenista al pubblico di riferimento. La pagina più lunga della puntata d’esordio è dedicata alla guerra in Israele. In studio Massimo Giannini, Giovanni Floris e Fiorenza Sarzanini, gli ultimi due del gruppo Cairo al quale collaborano sia Fazio sia Liliana Segre, ospite principale, entrambi prestigiosi rubrichisti di Oggi. Le affettuosità giornalistiche convergono nell’incolpare Benjamin Netanyahu di ciò che è successo dal 7 ottobre in poi e si allargano anche allo scrittore israeliano David Grossman che accusa lo Stato ebraico di aver «occupato da 56 anni una terra non nostra, con azioni terribili». La senatrice a vita parla di «odio da ambo le parti» e confessa rassegnazione, mentre Fazio sfodera un murale in cui un bambino con la kefiah e uno con la kippah si abbracciano come nel mondo delle favole.

Il Gattopardo della tv italiana conferma il copione compresa la solidarietà a Roberto Saviano «che non difende nessuno». E, in assenza di partite della Serie A, fa boom di ascolti (10,5% e 2,1 milioni di spettatori sul Nove, 13% sommando le reti). In realtà, un paio di novità ci sono. Ora il programma si giova di un’anteprima con Nino Frassica che funge da autotraino (lo share sale dal 2,8 al 5,7%) e del «Diario della sfiga» di Ornella Vanoni che interrompe la liturgia conformista, anticipando la comicità marziana del Tavolo. Con il Mago Forest che, estraendo dei pennarelli per Mara Maionchi, mette in guardia: «Me li ha regalati l’architetto che disegna le piste ciclabili a Milano».

 

La Verità, 17 ottobre 2023

«Dopo Adriano e Sanremo rompo i recinti dei salotti»

Francesco Baccini, Caterina Caselli, Adriano Celentano, Dario Fo, Mogol, Gianni Morandi, la Nazionale italiana cantanti, Shimon Peres e Yasser Arafat, Sanremo nel senso del Festival. In ordine alfabetico, all’inizio ci andrebbe l’Arena di Verona. Gianmarco Mazzi è tutto questo e tutti loro, e anche molto di più. Perché ci sono anche Riccardo Cocciante, Massimo Giletti, Zucchero Fornaciari… star con cui ha lavorato, nella sua precedente vita. E perché ora, Mazzi, veronese, da sempre uomo di destra, deputato di Fratelli d’Italia, è sottosegretario alla Cultura del governo Meloni.

Oggi compie 63 anni, come festeggerà?

«Sarò a Genova alla cerimonia della partenza per il giro del mondo dell’Amerigo Vespucci, la nave scuola della Marina militare che in 19 mesi toccherà cinque continenti e 28 Paesi».

È il giorno giusto per chiederle che cosa le sta più a cuore nella vita, che cosa o chi vorrebbe salvare se fosse costretto a scegliere una sola persona, una cosa, un ricordo…

«Non so se è il giorno giusto, forse no. Quando compio gli anni mi fermo a pensare al tempo che passa e divento mediamente cupo. Ma le voglio rispondere. Mi sta a cuore essere in pace con me stesso, sapendo di aver fatto le cose per bene, al massimo delle mie possibilità. Salverei Evelina, l’amore della vita e poi i tre gol di Paolo Rossi al Brasile nel 1982. L’Italia mai doma, sul tetto del mondo. Una metafora, una sensazione indescrivibile che ancora oggi mi commuove e incoraggia».

Lei è sottosegretario alla Cultura, organizzatore musicale o agente di artisti?

«Dal 2 novembre 2022, sottosegretario di Stato al ministero della Cultura».

Qualcuno ha osservato che i ruoli potrebbero confondersi.

«Sia la legge che la giornata di 24 ore mi consentono di fare solo e orgogliosamente il sottosegretario. L’agente di artisti e l’autore televisivo sono esperienze significative della mia vita precedente».

Com’era il rapporto con Celentano?

«Adriano è un geniale visionario, devi stargli vicino da amico fidato. Ama molto dialogare e mettersi in discussione. Con lui e Claudia (Mori ndr) mi diverto da matti. Sono cresciuto con loro».

Un episodio che vuole ricordare?

«Ricordo la volta che chiesi ad Adriano: “Se non fossi diventato Celentano che cosa avresti fatto?”. E lui: “Avrei potuto fare qualsiasi altro lavoro, anche l’imbianchino o l’idraulico, meglio”. Rimasi spiazzato, ma lui proseguì, “mi sarei dato da fare per diventare l’idraulico della città, pensa che bello, andare nelle case, risolvere i problemi alla gente”. Lo diceva festoso, credendoci sul serio. Questo è Adriano; appassionato a ciò che fa, dà sempre il meglio di sé. Non male come insegnamento».

Beppe Caschetto ha imparato da Bibi Ballandi, lei ha avuto dei maestri?

«Sì, gli artisti. Celentano, Mogol, Gianni Morandi, all’inizio Caterina Caselli. Potrei dire anche Caschetto, che è manager colto, dall’estro prezioso».

Qual è l’evento internazionale che ricorda con più emozione?

«Una partita della pace del 2000, allo stadio Olimpico di Roma. C’erano Shimon Peres e Yasser Arafat con il presidente Carlo Azeglio Ciampi. E poi Pelè, Sean Connery, Michael Schumacher. Tutti nella stessa sera.

A ripensarci una cosa da non credere. Nel giro di una settimana ero andato a Los Angeles e a Ramallah. Ne parlavo con Morandi pochi giorni fa, mi emoziono ancora al ricordo. Mentre la vivevo, mi sembrava quasi normale».

Ha organizzato anche parecchi Festival di Sanremo con Lucio Presta: chi era il gatto e chi la volpe?

«Io ero il direttore artistico, Lucio mi consigliava e mi guardava le spalle. A Sanremo bisogna essere astuti come serpenti per mantenersi puri come colombe. E noi ci aiutavamo».

Come si trova nel ruolo attuale, più politico e istituzionale?

«All’inizio male, adesso comincio a orientarmi. Devo contenere l’impulso di realizzare subito un’idea che mi viene in mente. Le tempistiche dell’emisfero pubblico sono molto più lente. Ogni giorno devo mediare con la mia indole».

Per i cento anni del Festival lirico dall’Arena di Verona su Rai 1 è andata in onda un’edizione speciale dell’Aida: soddisfatto dell’accoglienza o qualche critica di troppo?

«No, non mi sembra. Da due anni, con la sovrintendente dell’Arena Cecilia Gasdia, lavoravo alla realizzazione di una serata televisiva memorabile per il mondo dell’opera. Un qualcosa di mai visto prima. Con Sophia Loren, la Rai, le Frecce Tricolori, Alberto Angela, Luca Zingaretti, Milly Carlucci e grazie a Giuseppe Verdi, agli artisti e ai tecnici dell’Arena ce l’abbiamo fatta. E il mondo ha apprezzato».

«Italia loves Romagna» è stato un successo, ma qualcuno ha notato l’assenza dei contadini che hanno allagato le loro terre per preservare dall’alluvione la città di Ravenna suggerendo di assegnare a loro la medaglia della cultura e dell’arte. Cosa ne pensa?

«È un’idea buona, come altre. In realtà l’evento è nato per la raccolta fondi e come abbraccio affettuoso ai romagnoli. I contadini sono stati meravigliosi ma tutta quella gente, intendo la popolazione della Romagna, è stata protagonista di tali e tanti gesti di generosità che abbiamo scelto di non farne una classifica».

Secondo lei c’è davvero la prevalenza della cultura progressista o è un falso problema e gli intellettuali conservatori ci sono ma non sono illuminati dai media, questi sì orientati a sinistra?

«Le definizioni progressista e conservatore, in questo ambito, sono categorie fuorvianti. Da anni vedo una cultura dominante che non produce dibattito, ma solo pensiero convenzionale, fatto di quattro concetti, sempre i soliti, espressi con un vocabolario povero, di una ventina di parole. Mi annoia. La cultura deve essere libera e arricchire il confronto con idee diverse, anche in contrapposizione tra loro, senza pregiudizi. Così ognuno può farsi la sua, di idea. Poi il sistema culturale italiano più che a un big bang creativo fa pensare a un centro per l’impiego, dei soliti noti. Ma questo è un altro discorso».

Proprio a questo riguardo Pietrangelo Buttafuoco dice che il governo Meloni serve a rompere i recinti e a dare una «casa a chi casa finora non ne ha avuta una». Concorda?

«Buttafuoco ha ragione. In realtà una casa forse esiste, ma i recinti l’hanno sempre costretta oltre i bordi della periferia più estrema. Penso che in futuro anche gli abitanti di quella casa potranno esprimere la loro opinione non conformista e lo faranno con calma, senza la supponenza di chi li ha emarginati sino a oggi».

Le è piaciuta la partecipazione del presidente Sergio Mattarella all’ultimo Festival? E in generale ha apprezzato l’ultima edizione?

«Per la prima volta dopo 73 anni, il Presidente della Repubblica ha presenziato alla manifestazione più conosciuta e amata dagli italiani nel mondo. È stato giusto. Ha impreziosito un’edizione di grande successo, costruita con passione e cura da Amadeus. Sanremo è uno spettacolo di canzoni, ma anche una sceneggiatura in cinque puntate, quasi una fiction. Deve coinvolgere il pubblico per una settimana intera, anzi per un anno, e lo fa attraverso vari strumenti narrativi, sviluppando un’alternanza di stati emozionali diversi, a contrasto. Come dire, dalla provocazione dei primi giorni fino alla pacificazione, magari nell’ultima sera e nei giorni successivi. È un lavoro più complesso e raffinato di quello che può apparire».

Parlando di provocazioni non le pare che ultimamente si sia un po’ esagerato?

«Mah, esagerato… Alla fine Sanremo resta una festa in famiglia. Qualcuno che fa casino c’è sempre, ma famiglia si rimane».

Magari famiglia arcobaleno… Quest’anno sarà l’ultimo festival di Amadeus. Si sentirebbe di dare un suggerimento per gli anni a venire? Per esempio, affidarlo davvero a Mina, cosa ventilata in passato, ma mai presa sul serio?

«Lei è davvero convinto che Mina aspiri a quel ruolo?».

Da quel poco che so credo che se ci fosse un progetto che le lasciasse carta bianca ci penserebbe.

«Lo scopriremo solo vivendo».

Tra pochi giorni verranno presentati i nuovi palinsesti della Rai: si aspetta un cambio di passo rispetto ai precedenti?

«Vedo concentrazione e impegno da parte della nuova dirigenza. Sono professionisti di grande esperienza e livello, con una visione culturale ampia e sfaccettata. Diamo loro tempo e si faranno apprezzare».

È giusto a suo avviso che la Rai si prefigga di contribuire «alla promozione della natalità della genitorialità»?

«Molto giusto, sono valori importanti, per i cattolici fondamentali, che è importante salvaguardare, rappresentandoli alle nuove generazioni. Bisogna riflettere sulla vacuità dei social e sulla dilagante aggressività di modelli che vogliono imporsi, umiliando la tradizione. Tutto troppo frenetico. A volte sembra un mondo all’incontrario, porta a una sorta di dittatura delle minoranze. Penso che ci voglia più rispetto, da tutti per tutti».

È stato a lungo amministratore delegato della società Arena di Verona: che cosa si può fare per rendere economicamente autosufficienti i teatri italiani?

«Ci vuole pazienza, avvicinare il pubblico alla cultura con semplicità e spiegare serenamente agli operatori che per ricevere contributi pubblici bisogna meritarseli, dandosi da fare, mostrando dinamismo e intraprendenza, anche economica. Ci vuole capacità di attrarre gli investimenti di quei privati che amano l’arte. Per un ministero pubblico ci vuole responsabilità. La cultura non può essere un concetto astratto, buono per la propaganda, ma va collegata al concetto di impresa. Va considerata come industria culturale, un settore vivo che produca lavoro, stimoli interesse, affascini i giovani e cresca in autorevolezza».

C’è un progetto, un’idea, un’iniziativa che ha in serbo per i prossimi mesi e che vuole rivelare in anteprima?     

«Il mondo dello spettacolo aspetta dal 1967, oltre 55 anni, un codice nuovo, lo stiamo scrivendo con serietà, dialogando con i protagonisti del settore. Poi vorrei valorizzare una scoperta archeologica eccezionale fatta a Verona, una residenza alberghiera di epoca romana con caratteristiche uniche al mondo. Per convenzione e per darmi un tono la chiamo “piccola Pompei”. Ma se mi sente il ministro Gennaro Sangiuliano, si arrabbia. Pompei non si tocca».

 

La Verità, 1 luglio 2023

«Il suicidio di mio padre mi ha trasformato in filosofo»

Concerti, dischi, whatsapp con il premier Giorgia Meloni, apparizioni tv con vista sul ministero della Cultura… Tra cento cose che fa, Marco Castoldi, in arte Morgan, è riuscito a scrivere anche un libro di poesie: Parole d’aMorgan (Baldini+Castoldi). Per Vittorio Sgarbi è addirittura «il Carmelo bene di oggi». Intervistarlo vuol dire disporsi a qualche acrobazia. Ma ne vale la pena.

Si sente davvero il nuovo Carmelo Bene?

«Il paragone è oltremodo lusinghiero perché Carmelo Bene è l’ultima vera grande rockstar italiana. L’ultimo grande intellettuale dissidente, non allineato, antisistema. Un tesoro incompreso, se non da una ristretta cerchia. Oggi non è neanche pensabile un nuovo Carmelo Bene. Io sono molto meno controverso e trasgressivo, molto meno fuori di testa. Sgarbi fa questo paragone per scuotere il conformismo di questa Italia pavida. Per far capire che ci vogliono coraggio e audacia».

A lei non mancano. Ha appena pubblicato un altro libro di poesia: i cantautori sono poeti?

«No, assolutamente. La canzone e la poesia sono diverse in tutto. Il cantautore ha per la parola lo stesso interesse che ha per la musica. Oggi la canzone è ovunque, in ogni momento. Questo vuol dire che chi fa canzoni è il panettiere dell’anima perché il nutrimento che dà è come quello che il pane dà al corpo. Il poeta è più puro, non è mondano, non si mescola, si isola. Invece il cantautore è il medium tra generazioni ed epoche diverse. Per lui le folle scendono ancora in piazza: non lo fanno per la politica, ma per i concerti».

Quando ha capito di essere un poeta?

«Non l’ho capito. Non dico di me di essere un poeta perché è una parola troppo bella, devono dirlo gli altri. Sono uno che scrive, un compositore di parole, un verbale. Se lei dice che sono un poeta… lo dice lei».

I versi che leggiamo in Parole d’aMorgan riposavano in qualche cassetto o sono stati scritti apposta?

«Sono versi vivi, attuali, alcuni infilati all’ultimo momento. In quella storia, c’è dentro la mia vita, la vita del mio cuore e della mia mente».

Versi composti per l’occasione?

«No, perché non scrivo su commissione. Questo lo fa chi programma l’uscita di un disco, o di un libro, a priori, non quando ci sono le canzoni pronte, non quando si ha qualcosa da dire. Così escono un sacco di dischi senza che se ne avverta una reale urgenza. L’arte va coniugata con la spontaneità».

E con l’ispirazione?

«Per quanto mi riguarda, sono sempre ispirato. Da Franco Battiato in poi, uno dei miei tanti padri, l’ispirazione è la nostra vita. Se sei così riesci a trasformare l’arte in un lavoro. Ti alzi al mattino e vai allo strumento. Nella quotidianità c’è l’ispirazione. Ovviamente, va allenata…».

Cosa vuol dire, come scrive: «Il mio amore è volontario»?

«Ci sono due tipi di sentimenti che chiamiamo amore: il desiderio e l’edificazione longeva di un rapporto. Il desiderio prima o poi cala, ma si è capaci di amare se si vive di amore volontario. Quello che si ha per i figli, o per noi stessi e per le promesse che abbiamo fatto. L’amore volontario è anche compatibile con la possibilità di innamorarsi di nuovo perché l’innamoramento non è l’amore. “Il mio amore è volontario” significa che può esser vissuto anche come scelta dopo che l’innamoramento ha fatto il suo corso».

Insomma, il «per sempre» è morto.

«Per me, nel tradimento ciò che distrugge davvero è la menzogna, non il rapporto sessuale extraconiugale. Che invece è tollerabile se non è accompagnato dalla menzogna».

Mmmh, non sono convintissimo.

«Una volta esaurito il tempo dell’innamoramento e del desiderio, alcune persone si eccitano nella fantasia immaginando il proprio partner con un’altra persona. Questo fa sublimare anche la gelosia, altro elemento distruttivo. Concordo: l’amore come scelta volontaria è indistruttibile. È questo il per sempre che dice lei. Personalmente, mi sono trovato spesso con donne che non sono state in grado di rinunciare ai loro cambiamenti d’umore: “La donna è mobile qual piuma al vento”».

Cosa vuol dire che il senso della vita è «somigliare alla morte»?

«Intendo la compresenza, in vita, della morte nelle sue diverse declinazioni. La morte della passione, di un sogno… La distruzione della mia casa-laboratorio è stata una morte. Anche dall’abbandono si possono trovare energie. In vita si vivono tante morti e si può uscirne rafforzati. Ci sono morti che generano vita. Il letame non piace, però genera vita».

La sua è una poesia nichilista?

«No. È una poesia grafo-linguistica, innanzitutto».

Cosa vuol dire?

«Che è una poesia che si legge e si guarda, anche. E non può essere nichilista perché afferma la vita».

In quello che fa s’intuisce fame di vita.

«Sento di morire di vita».

Vittorio ed Elisabetta Sgarbi sono dei tutor, degli agenti, degli amici?

«Sono un fortunato accadimento della storia. La famiglia Sgarbi è un seme prolifico, una zona fertile della società, una meravigliosa conoscenza che è diventata amicizia. La prima è stata Elisabetta, presentata da Franco Battiato non certo come donna di potere. Era un’editor di Bompiani per la quale avevo pubblicato Dissoluzione, il primo libro di poesie. Vittorio lo conobbi perché venne a presentarlo, non sapeva chi fossero i Bluvertigo».

È una sorta di nuovo padre come lo è stato Franco Battiato?

«Ho avuto molti padri perché ho perso quello biologico da adolescente, quando se ne ha più bisogno e ti insegna a stare nel mondo. Sì, Sgarbi è una figura paterna, come Battiato. E parecchi altri, da Adriano Celentano che nel 2010, dopo che mi avevano escluso dal Festival di Sanremo, m’invitò a vederlo a casa sua. E qualche anno fa si è commosso quando andai ospite di Adrian su Canale 5 e gli dedicai Conto su di te, un brano che mi cantava mio padre. Poi Mauro Pagani, il primo di tutti, Franco Mussida, Massimo Ranieri, Sergio Staino del premio Tenco, Dominique degli Esposti, grandissimo genio figurativo… Tutta gente di 20 o 30 anni più vecchia di me. Tutti miei padri putativi».

Quello vero?

«Aveva difficoltà economiche che non voleva rivelare alla famiglia per non ammettere che non ce l’aveva fatta. Era pieno di debiti e non ha più retto questa maschera. Che però, con me, aveva già tolto. Io suonavo nei piano bar per guadagnarmi qualche lira e così gli davo del denaro che fingeva di aver guadagnato lui. Avevamo questa complicità segreta. Finché una notte mi ha infilato un centomila in un tubo dei negativi delle foto: “Ti restituisco quello che posso. Così non potrai dire che non ti ho reso quello che mi hai dato”. Il giorno dopo si è tolto la vita».

Cosa fa un ragazzo a 15 anni quando il padre si ammazza?

«Diventa un filosofo, perché nella sua testa cresce la domanda che si fanno i filosofi: perché, che senso ha tutto? I filosofi domandano, i teologi ascoltano. La mia filosofia, le mie domande, nascono nello scontro con il padre, che è l’istituzione, la regola, la giustizia, la patria. Se chi ti segna e ti precede implode attraverso un atto come il suicidio, tutto il sistema entra in discussione».

E quindi?

«Ho iniziato a coltivare la conoscenza insieme al bisogno di mantenere la famiglia. Ho fatto di necessità virtù, ho cercato di guadagnarmi il pane con il mio talento. Già a sei anni avevo iniziato ad abbozzare delle canzoni, quasi prima di imparare a scrivere. Al liceo andavo nei locali e tornavo al mattino per andare a dormire sul banco. Poi ho cominciato a coinvolgere i miei amici e a costruire le band, gli mettevo in mano gli strumenti: tu suoni la chitarra, tu la batteria… siamo una band. Al liceo mi hanno bocciato, ma ho venduto per strada i primi finti album, cassette amatoriali. Una è finita in mano a un produttore e a 16 anni ho avuto il primo contratto con una major discografica».

Che fine ha fatto l’idea di collaborare con il ministero della Cultura?

«A giudicare da quello che succede nella chat creata da Sgarbi, la gente vorrebbe il mio coinvolgimento».

Però il ministro Gennaro Sangiuliano ha nominato come suo personale consigliere per la musica il direttore d’orchestra Beatrice Venezi.

«Il ministro Sangiuliano si sta circondando di persone valide. Appena ho saputo della nomina di Beatrice Venezi le ho mandato un messaggio di congratulazioni e di auguri, offrendo la mia massima disponibilità a collaborare. Abbiamo già lavorato insieme e lo faremo ancora, per esempio a Taormina. Sono a disposizione per offrire la mia competenza al Paese, non chiedo niente. Se il ministro e il premier devono dare degli incarichi, a chiunque, me compreso, lo facciano in base a criteri di merito e non di riconoscenza».

Quindi non si sente fuori gioco?

«Ci sono tanti spazi, tanti ruoli. Il ministero si divide in tre grandi settori con altrettanti sottosegretari. Quello che si occupa di musica è un grande manager e un importante uomo di potere. Spero lo usi bene. Io vorrei dedicarmi alla tutela degli artisti, per rendere più produttivo il lavoro dei cantanti, dei cantautori, dei compositori, degli uomini d’arte. Sgarbi si occupa di tutelare le opere del passato e portarle nel presente. Io vorrei valorizzare le persone e le creazioni del presente per portarle nel futuro. Vorrei aiutare gli artisti vivi».

Il nuovo Carmelo Bene è troppo anarchico per stare dietro una scrivania in via del Collegio romano?

«L’uomo di cultura spende la vita a comprendere e perseguire la libertà. Libertà dell’uomo non libertà in senso astratto. Tutta la cultura, persino la canzone, scaturisce dalla cultura anarchica, dall’impegno politico e intellettuale contro i regimi. Basta pensare a Giuseppe Verdi e al suo Va’ pensiero che è una proto-canzone. O a Ulisse Barbieri che fu incarcerato a 16 anni dal regime austroungarico e quando uscì, quattro anni dopo, iniziò a scrivere canzoni».

Quale sarebbe il suo primo atto?

«Metterei la musica nel Codice delle belle arti che è stato aggiornato l’ultima volta nel 2004. Sarebbe utile per tutelare i teatri, incentivare la produzione, proteggere gli strumenti musicali come beni artistici. Poi bisognerebbe restaurare i nastri originali delle canzoni degli anni Cinquanta e Sessanta che si stanno deteriorando».

Avrebbe molto da fare…

«Soprattutto non voglio far politica, ma spettacolo. Con un’attenzione particolare a ciò che va in onda nel servizio pubblico. Ma temo che il mio linguaggio divulgativo non sia amato dai dirigenti di questa televisione, a mio avviso troppo concentrata sugli ascolti».

Un incarico al ministero dovrebbe darle un ruolo più ecumenico?

«Sono abituato a misurarmi con ciò che conosco, non amo debordare. Mi basterebbe un ruolo relativo alla musica in televisione».

Adesso a che cosa sta lavorando?

«A un grande concerto per il 23 dicembre, in occasione del mio cinquantesimo compleanno. Parteciperanno tanti cantautori e amici come Gianna Nannini, Renato Zero, Subsonica, Vibrazioni, Carmen Consoli, Daniele Silvestri, Michele Bravi e molti altri. Spero che un evento così possa interessare anche il direttore dell’Intrattenimento Rai, Stefano Coletta».

Com’è stato tornare a X-Factor, dall’altra parte del palco?

«Mi sono sentito a casa. Sul palco sto meglio che sul banco dei giudici».

Ha fatto pace con Sky?

«Non gli ho mai fatto guerra. Anche perché in questi anni, dopo X-Factor, ho fatto tante cose con Sky Arte».

Che cos’è la contemporaneità?

«Da musicista è creare ordine nel caos, un compito quasi da medico della musica. Riuscire a dare armonia al rumore che è la musica contemporanea».

Dal punto di vista estetico, contemporaneità non sarà cantare bistrati di rossetto?

«Effettivamente a X-Factor ho dato una mano di rosso di troppo. Dico la verità: spesso riguardandomi non mi accetto».

Complimenti per l’autocritica. Pare anche a lei che si esaltino fenomeni musicali più per il look che per i contenuti senza che in giro ci sia David Bowie.

«Non è il mio caso. Cerco di mantenere un certo equilibrio, consapevole che andare in scena è teatro».

Non è il suo caso, ma…

«Vogliamo parlare dei Maneskin? Hanno un sound strepitoso, che giustifica i loro pizzi e merletti».

M’inchino al suo magistero, ma a me sembra sound campionato.

«Se li confronta con la condizione miserrima del sound italiano contemporaneo i Maneskin sembrano i Creedence Clearwater Revival».

Con Giorgia Meloni dialogate ancora su whatsapp?

«Ogni tanto sì, la lascio libera perché immagino la pressione… Abbiamo in comune la passione per la storia politica. Ogni tanto c’è qualche scambio…».

Ce ne rivela uno?

«Siccome Macron usava tre aggettivi come si fa in poesia dicendo che gli italiani sono irresponsabili, cinici e vomitevoli, le ho suggerito di rispondergli in versi. Per dire che Francia e Italia si amarono e ora non si amano più. Ma noi chiediamo rispetto perché da noi i francesi hanno imparato la bellezza. Perciò, offendendo noi, offendono sé stessi e questo non piace a Dio: “Chiare, fresche et dolci acque ove le belle membra pose colei che solo a me par donna”…».

Crede che questo governo abbia sbagliato qualche mossa?

«Mi perdona se evito di parlare di politica».

La perdono, ma sui rave party poteva essere più preciso?

«Il provvedimento è così vago che sembra quasi non riguardare i rave. Serve più precisione. Innanzitutto i rave sono ambiti di diffusione musicale, perciò si dovrebbe partire dalla qualità della musica. Che può essere inquinamento acustico o piacere per le orecchie».

A proposito di rumore.

«Spesso fanno musica d’avanguardia. Però non dovrebbero essere clandestini o marginali. Invece quasi sempre la diffondono in modo disturbante, disfunzionale, disarmonico».

Dovrebbero essere razionalizzati?

«Dovrebbero essere considerati e gestiti come dei concerti. Perché la loro musica elettronica non è meno importante della classica».

Al governo c’è bisogno di qualche consigliere per la comunicazione?

«La destra è un po’ naif perché non è abituata a gestire grandi livelli di potere. Questo ha conseguenze positive e negative. Positive perché predispone a un atteggiamento di apertura, negative perché prelude a qualche ingenuità».

Quindi la risposta è sì?

«Credo di sì, che ci sia bisogno di qualche buon comunicatore. Ma si può imparare dal percorso di Giorgia Meloni che, invece, è una grande comunicatrice».

In Italia è più conformista la politica o la musica?

«La musica. In Italia domina la paura, per questo le canzoni sono costruite sempre sui soliti quattro accordi del giro di do. Come tu li metti, si tratta sempre di accordi tonali che già negli anni Quaranta sarebbero stati banali. Il Trio Lescano faceva canzoni più audaci di Ligabue».

Che fine ha fatto la casa gialla?

«È un meraviglioso libro che so stanno studiando al ministero. Lo avevo proposto sia ad Alberto Bonisoli che a Dario Franceschini: invano. Lì dentro ci sono le mie idee sulla tutela degli artisti vivi…».

Parlavo della casa-laboratorio come luogo fisico.

«È ancora disabitata. È stata sventrata e svuotata del suo contenuto che, ricordo, era incastonato nei muri… Pensi alla fretta di sbattere fuori una famiglia con una madre incinta e, a distanza di tre anni, non ci vive ancora nessuno».

Ora dove vive?

«In una casa in affitto dove non ci stanno i miei strumenti per lo studio che sto tentando di ricostruire».

Le manca solo riconciliarsi con Bugo?

«Prima che lo demoliscano potrei fare a San Siro la reunion con Bugo. A ingresso gratuito e al grido di Le brutte intenzioni, la maleducazione, la disobbedienza (titolo della canzone di Sanremo ndr). Così, finalmente, ci si renderà conto che lo stadio non va abbattuto. Ah ah ah».

 

La Verità, 19 novembre 2022

«Il mio programma su Rai1 era ok, ma l’hanno chiuso»

Poliedrico e versatile, Enrico Ruggeri continua a navigare controcorrente. Musicista, conduttore televisivo e radiofonico, autore di romanzi, presidente della Nazionale cantanti, non ha paura di prendere posizione senza sottoscrivere il pensiero unico. Anzi. «Uno dei vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata», riflette in questa intervista, «è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo».

Perfetto, allora. Cominciamo dal bilancio del tour estivo nelle piazze e nei teatri?

«Il bilancio è ottimo,:ci siamo molto divertiti sia noi della band che la gente che ci ha seguito. In giro c’è molta voglia di concerti».

Ha notato qualcosa di diverso nel pubblico rispetto a prima della pandemia?

«Quasi due anni di astinenza l’hanno caricato di attesa e di entusiasmo. Ho visto molta voglia di viaggiare per partecipare ai concerti: in Abruzzo c’erano ragazzi che arrivavano dal Piemonte, in Veneto dalla Toscana. Di solito, alle mie serate, a un certo punto tutti si alzano e si ammassano sotto il palco. Purtroppo adesso non è possibile, perciò a volte circola anche una voglia repressa».

Ha notato nuove preferenze riguardo al repertorio?

«Ho fatto 35 album e ogni sera cambiamo la scaletta. E anche se alcune canzoni vanno sempre proposte, non replico mai lo stesso concerto. Conosco persone che non ci sono mai venute, ma non conosco persone che siano venute una volta sola».

Dalle richieste ha constatato che c’è maggiore attenzione a canzoni più esistenziali?

«Io abbino temi profondi a musiche coinvolgenti. Se ti chiedono di ascoltare una determinata canzone non sai se è per la densità dei testi, per la musica ritmata o per entrambe le cose».

Come si gestisce un tour nelle piazze e nei teatri con tante restrizioni?

«Per fortuna non c’è più l’obbligo delle mascherine e si possono vedere le persone in faccia. Certo, l’arena non è piena a causa del distanziamento, ma ci accontentiamo. Meglio fare concerti così che non farli per niente».

Nei giorni scorsi la Nazionale cantanti di cui è presidente si è impegnata con la onlus creata da Paolo Brosio per la creazione di un ospedale di Pronto soccorso a Medjugorje. Che cos’è esattamente la Nazionale cantanti?

«Intanto è uno strumento per difendere i deboli. 100 milioni di euro in beneficenza in quarant’anni non sono poca cosa. È una meravigliosa esperienza di volontariato, molto più che una serie di partite di calcio in posti strani. Giocando a calcio, andiamo a incontrare la sofferenza dov’è. Sono orgoglioso di collaborare a questi progetti».

A volte, quando si sente parlare della Partita del cuore si avverte un retrogusto di buonismo.

«Il buonismo è fatto di parole. Se costruire ospedali e strutture per il trapianto del midollo significa essere buonisti, mi va bene esserlo. Ci sono persone che sono sopravvissute anche grazie alle nostre partite».

Lei arriva dopo le presidenze di Mogol e di Gianni Morandi…

«Mogol è il fondatore, quello che ha avuto il sogno e ha acceso la scintilla. Forse non tutti ricordano che nel 2000, grazie a Mogol, Shimon Peres e Yasser Arafat s’incontrarono per l’ultima volta a una nostra partita. Morandi ha consolidato il progetto, rendendolo popolare e realizzando manifestazioni con decine di migliaia di persone. Adesso ci sono io».

Che differenza c’è fra la vostra storia e quella del Concertone del Primo maggio?

«Qui si vola più alto del dibattito politico nostrano, fatto più per avere consensi che per reale convinzione. Un conto è dire no alla guerra, un altro prendere un aereo militare e andare a Sarajevo durante la guerra dei Balcani. Oppure a Bagdad o sulla Striscia di Gaza. Noi usciamo dal mondo delle parole ed entriamo in quello dei fatti. Non a caso abbiamo incontrato persone come il Dalai Lama e Gorbaciov».

Ora il fatto è il Pronto soccorso a Medjugorje, ci è mai stato?

«Mai. Sono stato a Lourdes, ma non a Medjugorje. Anche Brosio è un visionario e in questo progetto è assecondato da Andrea Bocelli e da persone come Sinisa Mihajlovic e Al Bano che, anche se non gioca a pallone, è in prima fila con noi».

È stato a Lourdes da credente?

«Certo. Vi ho percepito una vibrazione particolare, diversa rispetto a qualsiasi altro posto del mondo. Devo dire che, avendo visto prima tutto il merchandising delle bancarelle, ero un po’ prevenuto. Ma poi, una volta dentro la grotta, capisci che non sei in un posto come gli altri. C’erano anche Morandi e Celentano…».

Quand’è successo?

«Una quindicina d’anni fa».

Chi ebbe l’idea di andarci?

«Celentano. Eravamo andati a Lourdes con la Nazionale e Adriano si era aggregato, senza giocare. Una volta lì, propose di visitare la grotta».

Andaste solo voi tre?

«C’era anche Claudia Mori. Fu una sensazione forte, anche Celentano ne fu toccato».

Qualche giorno fa ha sorpreso un suo tweet in cui elogiava l’intervento di Javier Prades al Meeting di Rimini intitolato «Il coraggio di dire io». Che cosa l’ha colpita in particolare?

«Per prima cosa che sia riuscito a rendere fruibile per tutti un filosofo come Kierkegaard, passando per Pirandello e arrivando ai Queen. Rendere vivo e attuale un pensiero che di solito mette soggezione non è un fatto di tutti i giorni. Poi mi ha colpito il fatto che una riflessione così fosse accompagnata da applausi simili a quelli di un concerto. Non tutto è perduto se ci sono ragazzi che vivono una ricerca più alta e non ascoltano solo la trap».

Cosa voleva dire scrivendo a commento di quell’evento che «il mondo non è solo carta velina»?

«Che non c’è solo l’effimero, un mondo di gente che si agita per cose inutili, vacue. Sentire Prades che parla in un posto affollato di ragazzi è un segnale confortante».

Ha colpito anche lei come alcuni cronisti il fatto che davanti alla platea del Meeting i leader politici si siano confrontati senza litigare o alzare la voce?

«I politici hanno capito che al Meeting se litighi fai brutta figura perché quello è il luogo del confronto».

Ha detto che molti suoi colleghi temono di suscitare disapprovazione, lei non ha paura di schierarsi?

«Uno dei pochi vantaggi dell’invecchiare e di avere una carriera consolidata è che non mi può succedere niente di grave se dico qualcosa in cui credo. Molti artisti sono terrorizzati all’idea di perdere consensi. Perciò si limitano a pronunciarsi contro la guerra, contro la povertà e contro la violenza sui bambini. Tutto bene, ragazzi: ma forse bisognerebbe entrare un po’ più nel merito».

Dobbiamo essere soddisfatti per il fatto che oggi il rock italiano sia rappresentato dai Maneskin?

«Io ci vedo due notizie positive. La prima è che, in un periodo in cui domina la trap, si compone musica al computer e il successo si misura con le visualizzazioni, i Maneskin vanno in cantina a provare e suonare. La seconda è che, dopo anni in cui lo stereotipo italiano prevalente è stato pizza e mandolino, oggi si scopre che gli italiani sanno anche fare rock».

Quindi, soddisfatti e appagati dai Maneskin?

«Al di là del loro specifico valore, sono un passo avanti rispetto a ciò che ci ha rappresentato finora».

Ora che Charlie Watts è morto abbiamo scoperto che tra i Rolling Stones ce n’era uno che è rimasto 60 anni con sua moglie.

«Il vero trasgressivo era lui, visto l’andazzo. Nel suo libro, Keith Richards scrive che il suono degli Stones era dovuto al lieve ritardo della batteria di Watts e al lieve anticipo della sua chitarra. Non a caso, non c’è mai stata una band in grado di rifare le loro cover. Mentre ce ne sono mille che rifanno i pezzi dei Beatles, dei Queen, di Vasco. Quel suono è solo loro, e Charlie Watts ne era uno degli artefici».

Era anche la dimostrazione che si può fare rock ’n’ roll senza rovinarsi di sesso e droga?

«Infatti lui stava dietro, alla batteria, mentre Richards stava davanti. Ci sono l’immagine e la sostanza. Il rock è fatto di tante componenti diverse e sul palco si vivono traumi positivi e negativi. C’è chi reagisce drogandosi e chi riesce a crearsi una realtà tranquilla quando smette di suonare. Ricordiamoci che chi va sul palco fa la cosa più stressante del mondo».

Parlando di palco, lei aspetta di tornarci con un nuovo disco?

«Sì. In tutto questo periodo ho scritto parecchio. Il mio è lo studio più bello d’Europa, però non lo affitto. Prima ci trovavamo a fare musica e poi andavamo tutti a cena insieme. Con il Covid suoniamo e poi offro tamponi a tutti. Abbiamo un sacco di pezzi pronti, aspettiamo di vedere che cosa succede a ottobre, nella speranza di pubblicare il disco e ripartire…».

Invece, in televisione?

«La televisione è vittima di strani meccanismi. Il programma Una storia da cantare su Rai 1 è andato talmente bene che non mi hanno più chiamato».

Prego?

«Chi è arrivato alla direzione di Rai 1 (Stefano Coletta ndr) dopo il mio programma con Bianca Guaccero non poteva ammettere che la gestione precedente (Teresa De Santis ndr) aveva fatto qualcosa di buono, come portare le canzoni e le storie di Fabrizio De André o Sergio Endrigo nella prima serata del sabato. Perciò il contratto non è stato rinnovato».

È un giudizio molto duro.

«Audience e costi di produzione sono facilmente verificabili. Abbiamo fatto ottimi ascolti con una produzione che è costata dieci volte meno di tanti programmi appaltati all’esterno. Ma questa è stata la mia condanna. Così è se vi pare. Invece, su Rai 2 ho condotto Musicultura».

Poi ci sono la radio, i romanzi… da dove nasce questo eclettismo, insolito tra i cantautori?

« Avendo una formazione plurima, mi piace raccontare la vita in mille modi diversi. Non credo che molti dei miei colleghi, forse escluso Francesco De Gregori, abbiano letto Il Capitale di Marx. Io sì».

Se è per questo il cantautore di riferimento del Pd è Fedez, mentre De Gregori almeno sulla vicenda dei concerti in pubblico si è esposto…

«Ed è stato un segno di grande apertura mentale».

 

La Verità, 27 agosto 2021

«Sanremo irripetibile, Fiore dovrà essere al top»

Il Fantastico di Adriano Celentano, il concerto di Madonna a Torino, quello dei Pink Floyd in piazza San Marco a Venezia, il Pavarotti & Friends, la grande giornata a Bologna con Giovanni Paolo II per il Giubileo, i Festival di Sanremo condotti da Mike Bongiorno e Piero Chiambretti, Raimondo Vianello, Fabio Fazio e Raffaella Carrà: dietro tutti questi eventi c’è un uomo di televisione, dirigente e autore insieme, che risponde al nome di Mario Maffucci, già capostruttura e vicedirettore di Rai 1. Ha 81 anni, due figli, una moglie e vive a Roma, zona Parioli. Ha appena fatto il vaccino contro il Covid e ora è al telefono: «È proprio sicuro che abbia qualcosa d’interessante da dire?».

Che Sanremo si aspetta quest’anno?

«Sarà un Festival diverso dagli altri perché senza il pubblico, una presenza dalla quale gli artisti traggono energia».

Questa assenza peserà di più sui cantanti, i conduttori o gli ospiti?

«Credo che sugli ospiti peserà meno perché hanno il confronto con Amadeus e Fiorello. Cantanti e conduttori avranno maggiori difficoltà. Soprattutto Fiorello, che sarà costretto a dare il massimo, mentre l’anno scorso ha dato il minimo».

In che senso?

«Ha fatto una grande prova d’autore, improvvisando tutto. Un grande artista come lui se lo può permettere. Così, ha preso spunto da quello che succedeva, dalle emozioni del pubblico. Stavolta questo confronto non potrà averlo».

Mancherà una fonte importante.

«Che stimola a inventare. Tra Fiorello e Amadeus c’è grande feeling, ma la sfida è più impegnativa».

Era proprio impossibile stabilire dei protocolli, farli rispettare e avere qualche centinaio di spettatori in sala?

«Sarebbe stato possibile, ma ingiusto nei confronti degli altri teatri che restano chiusi».

Altri programmi Rai hanno il pubblico e l’Ariston sarebbe stato usato come uno studio televisivo.

«Ma l’Ariston è un teatro aperto al pubblico».

Che consiglio darebbe ad Amadeus e Fiorello prima di cominciare?

«Di essere consapevoli di avere un’occasione unica per intrattenere tutto il Paese condizionato dalla pandemia».

È l’approccio del dirigente della tv generalista che creava grandi eventi.

«Il Festival di Sanremo è un evento, in un certo senso unico al mondo. Nasce come manifestazione popolare, senza pretese artistiche. Poco alla volta diventa una fabbrica di musica e intrattenimento. La tv l’ha manipolato, protetto e fatto crescere, trasformandolo in qualcosa di più di una sfilata di belle canzoni».

La convince il fatto che la moglie di Amadeus, Giovanna Civitillo, condurrà il Prefestival?

«Perché no? È un programma marginale, è in grado di farlo, non mi sembra un fatto da biasimare».

Nemmeno sul piano dell’eleganza?

«No, non direi».

Avrebbe potuto essere una buona idea Mina direttore artistico?

«Straordinaria. Ci rendiamo conto di che cos’è stata e che cos’è Mina dal punto di vista musicale?».

Non è decollata per mancanza di coraggio?

«Secondo me si sarebbe tirata indietro».

A quanto si sa, non si sono mai fatti avanti i vertici Rai.

«Da anni Rai 1 attribuisce la direzione artistica al conduttore secondo un canone per cui egli è il playmaker del Festival. Con Mina ci vorrebbe qualcuno felice di averla come direttore artistico. Quelli del presentatore, del direttore artistico e del selezionatore delle canzoni sono ruoli che si potrebbero spacchettare. In questa situazione credo che Mina sia difficile che arrivi».

Agenti e società di produzione esterne hanno troppo peso in Rai?

«Quello che oggi chiamiamo agente, nel vocabolario di qualche anno era l’impresario di artisti. I vari Lucio Presta e Beppe Caschetto hanno fatto la fortuna di tanti spettacoli. La cronaca televisiva attribuisce a Pippo Baudo o ad Amadeus la capacità di portare sul palco le star, ma dobbiamo sapere che dietro di loro c’è il lavoro di qualcuno che ha la forza di coinvolgerle».

Ha visto che due componenti del Cda Rai hanno chiesto di verificare se la lista degli ospiti rispetta la policy aziendale?

«Ho visto, aspettiamo le verifiche. È giusto mantenere un certo equilibrio e controllare la misura dei diversi contributi. Ma allo stesso tempo non dobbiamo perdere di vista il gol finale che è il divertimento del pubblico. Poi certo, l’en plein del cast di un singolo agente non lo approvo».

Anche ai suoi tempi contavano molto gli agenti?

«Ai miei tempi spuntava il potere dei nuovi impresari. Ma c’era un’azienda in grado di stare sul mercato con una forte attrattiva».

Uno dei migliori era Bibi Ballandi?

«Portava il suo contributo senza mai esagerare».

Perché secondo lei quest’anno su Rai 1 funzionano le fiction mentre sono sottotono gli spettacoli di intrattenimento?

«Non c’è voglia e forse non ci sono le condizioni per sperimentare con coraggio. Per essere sicuri dei risultati ci si affida ai format collaudati. Ma così non s’inventa niente e, con la ripetizione, i programmi si usurano e perdono smalto. I successi sono frutto di un dosaggio di componenti tra le quali c’è una percentuale di rischio. Non si può pretendere che il direttore di rete sperimenti se non è aiutato da un gruppo di dirigenti pronti a farlo».

Da Domenica in a Fantastico, da Scommettiamo che… a Beato tra le donne, qual era il segreto dei suoi?

«Sono molto grato a Baudo perché mi ha insegnato l’abc dello spettacolo, facendomi crescere alla scuola del teatro leggero. Il massimo divertimento l’ho provato con Renzo Arbore: leggerezza, autoironia, spettacoli inventati dall’inizio alla fine, spesso le prove erano ancora più divertenti di ciò che andava in onda. Poi c’è stata l’avventura con Adriano Celentano».

Quel famoso Fantastico.

«Il segreto era l’imprevedibilità, non a caso ebbe enorme rilievo sui media. Nacque dopo che Berlusconi ci aveva strappato Baudo, la Carrà ed Enrica Bonaccorti. Lo scopo era indebolire la Rai nella prospettiva della riforma del sistema televisivo che sarebbe sfociato nella legge Mammì».

Una vittoria in contropiede?

«Esatto. Sopravvissi a quella prova grazie all’appoggio di Biagio Agnes ed Emmanuele Milano (storico direttore generale Rai e direttore di Rai 1, ndr)».

Grandi dirigenti, grandi autori: oggi?

«Conosco alcuni direttori di rete come Franco Di Mare e Ludovico Di Meo, ottimi professionisti. Mentre non conosco Stefano Coletta, direttore di Rai 1. Ma non so se abbiano dietro una squadra così forte. Gli autori bisogna cercarli nel teatro leggero, nella musica, nel cinema, come avvenne per Sergio Bardotti, Giorgio Calabrese… In quel Fantastico debuttò Umberto Contarello, che poi è diventato lo sceneggiatore di Paolo Sorrentino».

Come definirebbe Celentano?

«L’artista con il quale nulla era prevedibile. L’unico modo per lavorare con lui era discutere ogni cosa che gli veniva in mente, sapendo che l’avrebbe realizzata».

Luciano Pavarotti?

«Artista immenso, uomo formidabile. A lui è legato uno dei maggiori rimpianti della mia carriera».

Cioè?

«Averlo trascinato nel secondo Festival di Fabio Fazio facendogli fare il notaio. Entrava, diceva qualcosa sui cantanti, usciva. Come si fa a ingaggiare Pavarotti senza farlo cantare?».

Me lo dica lei.

«Era già tutto definito: avrebbe dovuto fare un duetto con Nilla Pizzi su Grazie dei fior. Immagini cosa sarebbe stato… Ma, ad accordo concluso, Nicoletta Mantovani si oppose perché riteneva che, se Luciano avesse cantato durante il Festival, avrebbe tolto interesse al Pavarotti & Friends in calendario due mesi dopo. E Luciano accettò il volere della moglie».

Lavorò anche con il Trio: Marchesini, Lopez, Solenghi.

«Fu una stagione straordinaria che culminò nei Promessi sposi. Era appena finita la miniserie diretta da Salvatore Nocita e noi ne proponemmo la parodia. Qualcuno alzò il sopracciglio, ma proprio affiancare la satira alla tradizione era la forza di una tv libera e moderna com’era quella Rai».

Trasmettevate i concerti di Madonna, il Pavarotti & Friends, la serata per il Giubileo con Giovanni Paolo II e Bob Dylan. Oggi quella formula sarebbe riproponibile?

«Non credo, dipende da come si propone la televisione: se sei un broadcast con l’ambizione di essere partner di grandi eventi internazionali il mercato risponde. Non dimentichiamo il concerto di Frank Sinatra al Palatrussardi di Milano. E quello dei Pink Floyd che chiesero la collaborazione di Rai 1 per suonare a San Marco, trasmesso in mondovisione».

E ricordato per le conseguenze tremende sulla città di Venezia.

«Che non era preparata a gestire un evento di risonanza mondiale».

Eventi del genere oggi sono irripetibili?

«Allora la Rai era punto di riferimento delle tv pubbliche europee e c’era una disponibilità diversa degli sponsor. Ricordiamoci che parliamo di manifestazioni con grandi budget, che potemmo realizzare perché c’era un lavoro di squadra e anche la collaborazione con la Sacis (la concessionaria di pubblicità della Rai ndr)».

Ha commesso qualche errore o fatto scelte di cui si è pentito?

«Forse ero impreparato ad alcune conseguenze. Se dovessi rifare il concerto dei Pink Floyd mi porrei per primo il problema della sicurezza. Per quello di Madonna a Torino tutto filò liscio, anche grazie a un produttore come Davide Zard».

Che cosa guarda oggi in tv?

«M’inquietano i talk show politici, perché mi sembra che il pubblico non sia protetto e che, più che l’approfondimento vero, vi prevalga la propaganda. Se un politico fa un’affermazione, le redazioni non sono attrezzate per verificare in tempo reale se corrisponde al vero o no».

Ce n’è qualcuno che si salva?

«Apprezzo la scelta di Piazzapulita di ricorrere alle riflessioni di Stefano Massini anziché alle gag del solito comico. Lo trovo più in sintonia con il momento che viviamo».

Guarda anche la fiction?

«Purtroppo quella italiana non è a livello delle serie internazionali. Con l’eccezione di Montalbano, la nostra è una fiction provinciale».

Quali serie le sono piaciute ultimamente?

«Baghdad central, Homeland, La casa di carta».

Tra i comici chi le piace di più?

«Maurizio Crozza».

Ha conservato amicizie nel mondo della televisione?

«Ho conservato rapporti professionali. Mi manca Luciano Rispoli che mi fece da battistrada e con il quale avevo un rapporto di stima e amicizia».

 

La Verità, 27 febbraio 2021

 

Arbore: «Non è una tv ad Alto gradimento»

Come una madeleine di gioventù, se ancora oggi, trascorso mezzo secolo, rimbalzano nell’aria le note del rock and roll che annunciava Alto gradimento, una scarica di euforia si propaga a tutto il corpo. Il programma che Renzo Arbore e Gianni Boncompagni condussero dal 7 luglio 1970 al 2 ottobre 1976 su Radio2 è stata la più dirompente, anticonformista ed eversiva trasmissione dei nostri migliori anni. Perciò, per estensione nient’affatto iperbolica, la più bella di ogni tempo e luogo. Eccoci al telefono con Arbore dalla sua casa romana, lo studio di Striminzitic show, il programma che conduce con Gegè Telesforo nella notte di Rai2.

Quale fu la scintilla di Alto gradimento fra lei e Boncompagni?

Lo vuole sapere? Ero appena stato caciato da Per voi giovani che avevo inventato io. Il direttore della radio, Giuseppe Antonelli, allargò le braccia, affranto: «È stata una scelta politica».

Di chi?

Dei cattocomunisti che allora sembravano dover dominare.

Nomi?

Non posso, alcuni sono morti.

La scintilla?

Boncompagni veniva da Chiamate Roma 3131, ideato da Luciano Rispoli. Per la prima volta, il telefono era a disposizione del pubblico, ma presto era diventata una radio del dolore…

Le rispettive cacciate vi accomunarono?

Dissi a Gianni: «Tu vieni dalla radio del dolore e io sono stato mandato via, ma il direttore ha promesso di aiutarmi». Così pensammo a un programma di risate. In quegli anni di ideologie e terrorismo ridere era vietato. Perciò, andammo da Antonelli e gli proponemmo Musica e puttanate.

E lui?

«Con questo titolo non può passare, inventatevene un altro».  Siccome io prediligo i titoli negativi, tipo Indietro tutta o Meno siamo meglio stiamo, pensai Basso gradimento, che Gianni corresse con Alto. C’erano Giorgio Bracardi e Mario Marenco, fuoriclasse assoluti. Il programma esplose.

Se dovesse sintetizzare con un episodio quella follia?

Ricorderei il colonnello Buttiglione, che diventò subito un simbolo. Il fatto è che Buttiglione esisteva davvero e non ne poteva più di essere apostrofato per strada. Ci chiamò il ministero dell’Interno per chiederci di modificare lo scherzo. Così nacque il generale Damigiani.

Un altro ricordo?

Andai dai segretari di partito per chiedere la licenza di sfottò: furbamente me la concessero tutti.

Nella sigla finale di Indietro tutta, con sapido doppiosenso cantava «vengo dopo il Tg»: ora Striminzitic show viene dopo che cosa?

Purtroppo viene durante. Ho constatato che la seconda serata è defunta in quanto la prima, cominciando tardi e prolungandosi per far lievitare lo share, salta direttamente alla terza. Qualche sera fa ho perso l’inizio di Striminzitic per vedere come finiva Fuga da Alcatraz.

E quando ha girato su Rai2 Telesforo e Arbore erano già avanti.

Esatto, ma mi consolo perché il nostro show è seguito dagli «arborigeni» ed è molto apprezzato sui social.

Il meglio arriva late?

Come in America, dove ci sono i Late night show. Senza snobismi, è un tipo di televisione che conta sul pubblico più acculturato perché non si deve svegliare alle 5 di mattina. L’importante è che non sia too late, troppo tardi.

L’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini dice che vuole ripristinare la seconda serata.

Speriamo, ma se non si mettono d’accordo tutti, Rai, Mediaset, La7 eccetera, non se ne farà niente. Senza presunzione, la seconda serata l’abbiamo inventata nel 1985 io e Giovanni Minoli, allora capostruttura di Rai2. Alle 23 c’era il monoscopio, non a caso il programma s’intitolò Quelli della notte.

La seconda serata era la palestra dei nuovi autori.

Infatti, sono scomparsi. La carenza di oggi è proprio l’assenza di autori e talenti per la tv leggera.

Salini vuole anche ridurre l’influenza degli agenti esterni.

È una bella battaglia perché loro conoscono molto bene il cosiddetto prodotto.

Colgo una certa ironia.

Appartengo alla generazione che parlava di programmi più che di prodotti. Gli autori erano Antonello Falqui, Enzo Trapani, Corrado, Pippo Baudo… Ora si rincorrono i format stranieri.

Pochi autori bravi, agenti influenti e società di produzione esterne sono i lati della tv di oggi: la Rai è uno scheletro?

Se ci si affida alle produzioni esterne è difficile recuperare quelle interne. Anche perché, di grandi tecnici Rai ne sono rimasti pochi. E quei pochi se ne vanno, com’è accaduto con Eleonora Andreatta, per tanti anni capo della fiction. I veri inventori di programmi sono rari. L’intrattenimento è il genere che si è meno rinnovato e il pubblico ricorda ancora Raffaella Carrà, Mina e i grandi show della tv senza tempo. Il contrario della fast tv di oggi.

Per questo in Striminzitic show estrae dal suo archivio chicche da far invidia alle Teche Rai?

Non ho voluto se non qualche piccola citazione di Indietro tutta e Quelli della notte. In tanti anni ho creato parecchi format, perciò posso pescare dal repertorio meno sfruttato. Poi ci sono i filmati fatti con telecamere e telecamerine che mi sono sempre portato dietro quando m’invitavano come ospite o in certe incursioni stradaiole. Infine, c’è internet: con un click passi da un blues d’annata a Walter Chiari. È una miniera di cui solo Roberto D’Agostino ha colto le potenzialità.

Lei è stato il primo a raccogliere la provocazione di Pupi Avati a fare del lockdown un’occasione teleculturale: è un’intesa tra amanti di jazz?

Io e Pupi siamo amici, certo. Entrambi abbiamo constatato che i millennials non conoscono il nostro cinema migliore. Quello del neorealismo e della grande commedia che ebbe successo in tutto il mondo perché era pieno di idee.

Ci vorrebbe un Per voi giovani del cinema?

Se pensa che non conoscono Miracolo a Milano, La grande guerra, Umberto D., Le vacanze intelligenti di Alberto Sordi… Adesso per fortuna Cine 34 qualcosa ripropone.

Ha guardato molta tv durante il lockdown?

Moltissima. A Natale avevo avuto la bronco polmonite perciò sono entrato in clausura in anticipo. Ne ho approfittato per ordinare l’archivio e l’angolo della casa da dove con Gegè trasmettiamo lo show con due sole telecamere. Noi che abbiamo visto la guerra e il dopoguerra non ci scoraggiamo, ma quando leggo certi paragoni…

Cosa pensa?

Che allora c’erano il buio, la fame, il freddo, non c’era il riscaldamento. E manco la radio.

Chi le piacerebbe riportare in televisione?

Adriano Celentano, il protagonista dello spettacolo del Novecento e anche del Duemila.

L’ha visto su Canale 5? Anche lui ha bisogno di autori?

Sì, ma è sempre originale. Credo sia giusto si faccia conoscere dai giovani come artista, cantante, attore. Lui e Mina sono i più grandi, lui ha fatto anche film che andrebbero riletti, come Joan Lui

Puntualmente stroncato dalla critica.

Ma pieno di novità. E l’altro, Juppy Du: andrebbe studiato a scuola. Prisencolinensinanciusol è stato il primo rap al mondo.

Ha riproposto un Benigni ballerino sulle note di un brano di Elvis Presley. Le piace il Benigni esegeta e pedagogo?

Roberto ha arricchito il suo umorismo istintivo con la ricerca culturale. A me piaceva molto Tuttobenigni. È un talento straordinario, come abbiamo visto al cinema anche insieme a Massimo Troisi. Gli auguro di trovare un altro film di grande successo che ci faccia sorridere e pensare.

Chi può reggere il confronto con lui?

Forse Checco Zalone, passato anche lui dal cabaret al cinema.

Tra i giovani vede qualcuno che si avvicini a Marenco, Bracardi, Riccardo Pazzaglia, Nino Frassica, D’Agostino, Maurizio Ferrini?

Che improvvisi come loro no. Noi eravamo jazzisti della parola, oggi prevale il pop. Quella razza di improvvisatori è in estinzione.

È vero che era l’incubo di Baudo?

Sono malignità di Antonio Ricci. Siamo diversissimi, ma siamo amici e «conterroeni».

Lei era socialista e lui democristiano.

Simpatizzavo. Anche Craxi aveva simpatia per me. Una volta mi fermò e mi disse: «Non ho capito se mi vuoi bene o mi sfotti».

E lei si guardò dal risolvere il dubbio?

Votavo repubblicano, ma nella stagione della Milano da bere, con Craxi che era appassionato d’arte e di canzoni c’era un rapporto di cordialità.

Il presidente Mattarella è riuscito a procurarsi un televisore funzionante per vedere il suo show o è rimasto ostaggio di protocolli e gare d’appalto?

(Ride) Ha ancora il televisore di Pertini. È amabilissimo il presidente nell’accettare le nostre facezie…

Che cosa le dice il fatto che il portavoce di Palazzo Chigi sia un ex concorrente del Grande fratello?

Abbiamo visto tanti talenti cresciuti nei villaggi turistici, non mi pronuncio.

Tra migliaia di gadget possiede una statuetta di Abramo Lincoln: cosa pensa della profanazione del suo monumento a Washington come manifestazione di antirazzismo?

Sono profondamente antirazzista. Però profanare i monumenti, come quello di Montanelli che mi onorava della sua amicizia, o altri, è una deformazione di opinioni politiche momentanee che disapprovo.

Panorama, 1 luglio 2020

«Ora la vera provocazione è essere normale»

Piero Chiambretti, fa sempre lo stesso programma?

«Sì, non cambio niente per cambiare tutto».

L’opposto del Gattopardo: lei che animale è?

«Qualcuno mi vede come un panda, qualcun altro come un carlino. Siccome la mia carriera è nata con l’acquisto di un cocker, potrei essere un cocker. Purtroppo, non Joe Cocker».

Con un cast così eccentrico potrebbe essere anche un domatore di animali?

«Più che domatore sono domato dal cast. Animali di razza».

Oppure è un burattinaio che muove i suoi pupazzi pronunciando quel «là» come se tirasse un filo invisibile?

«È così. Cerco di usare due linguaggi, quello verbale e quello visivo, che ne formano un terzo, che è poi quello che arriva al pubblico. Nella speranza che ne capisca almeno uno».

Con rinnovato entusiasmo, da un paio di settimane Piero Chiambretti è tornato al centro di CR4La Repubblica delle donne su Rete4. Di rinnovato c’è anche il contratto con Mediaset, altri due anni: «Due alla volta posso arrivare a 100; i contratti si rinnovano, la vita finisce», chiosa, dolceamaro. Così, però, si è spento il suono delle sirene che saliva dai palazzi Rai, ma soprattutto dai lidi di La7 che l’ha corteggiato a fari spenti. Nella tv berlusconiana è contento, tanto più ora che, dopo tre anni di trasferta romana, è tornato a registrare a Milano con un budget più rotondo e carta bianca su tutto.

Lei è nella manica di Piersilvio Berlusconi?

«Tutti lo siamo se lavoriamo qui».

Il programma si chiama La Repubblica delle donne, vi occhieggia Greta Thunberg e la bellezza è rappresentata da una ballerina nera: insegue le mode?

«La ballerina nera era solo nella prima puntata. Nella seconda parleremo di amore, poi cambieremo ancora. Se qualcuno intravede un orientamento è sempre traslato, oltre i luoghi comuni. Parlando di donne, Greta non si può non citare per il suo impegno. La sua immagine prevalente è con l’ombrello, io la rappresento solare».

Iva Zanicchi che dà 4 a Eugenio Scalfari per aver travisato Bergoglio, le rivelazioni intime delle gemelle Kessler, Malgioglio in gabbia come un uccello, lei che chiede alle ministre se hanno paura della morte: ospiti o membri del cast sono capitoli di un racconto?

«Provo a fare tv d’autore dentro una tv commerciale, sempre stando attento al gusto pop. È il mio stile. Avere libertà è una bella garanzia, altrimenti non saprei difendermi in caso di errori. Sarebbe più frustrante sbagliare su input di un altro. Sfido a trovare in Italia una rappresentazione televisiva come la mia. Ci sono tante imitazioni, ma prevedono l’originale».

Le sue donne sono compatte dalla parte del Me too?

«Non credo. Nella scorsa stagione Alessandra Cantini si tolse le mutande a mia insaputa e sostenne che le donne non sono vittime, ma artefici di certe situazioni. Scoppiò un putiferio e ho avuto conferma che non bisogna mai finire in mezzo a donne che litigano. Io mi addestro con l’osservazione di mia figlia Margherita di 8 anni, una ragazzina informata, ironica e intelligente più dei maschi».

E lei cosa pensa del Me too?

«Sono tranquillo, nella mia vita non ho mai fatto un’avance che non fosse una battuta ironica. Né ho mai sfruttato il ruolo di capocomico per secondi fini».

Nella prima puntata c’erano Drusilla Foer, Cristiano Malgioglio e Alfonso Signorini: che cos’è per lei la normalità?

«Come dice Amanda Lear, oggi il vero provocatore è l’impiegato di banca, talmente ordinario da risultare provocatorio».

La diversità è sovrarappresentata?

«La tv è lo specchio della realtà, il nostro programma è uno specchio rotto».

Essendo rotto consente un bel margine.

«Ogni puntata fa storia a sé. Nelle prossime, per esempio, si alzerà la quota rosa e si abbasserà la quota cipria».

Nel borsino dei social abbiamo visto Jennifer Aniston, Diletta Leotta, Chiara Ferragni e, unico maschio, Matteo Salvini, come mai?

«Salvini non è una donna, ma dal punto di vista dei social tra lui e Diletta Leotta non c’è nessuna differenza perché entrambi postano, hanno followers e vogliono piacere. Il discorso si fa più interessante se si circoscrive alla politica e si confrontano Salvini, Zingaretti e Renzi. Qui le differenze sono più evidenti».

Gli altri programmi della rete lo hanno spesso ospite.

«Rete 4 è il quartier generale del salvinismo. In mensa e nei camerini girano gatti e gente che beve mojito. Io non l’ho mai incontrato, l’ho invitato l’anno scorso, ma poi gli impegni, più suoi che nostri, hanno complicato l’ospitata».

Teme La Repubblica delle donne?

«Non credo, anzi…».

Le piace la nuova versione di Mario Giordano?

«L’ho visto poco però sono contento per lui. Pochi mesi fa era nella lista nera, aveva perso la direzione di un tg e si sussurrava potesse andare in Rai. Trovarlo ora allungato e vincente mi fa piacere. Chi lavora in tv non può mai dare nulla per scontato perché non ci sono garanzie né sindacati che ti difendono. Da ragazzo temevo le interrogazioni, oggi ogni volta che vado in video mi sembra di fare un esame di laurea».

Il tentativo di rivitalizzare Adrian e lo show di Celentano è stato accanimento terapeutico televisivo?

«Ognuno fa il proprio gioco, i critici criticano e Celentano fa sé stesso, con la sua voglia dire delle cose. Al di là degli errori commessi, con una storia come la sua, tanti a 83 anni avrebbero cominciato ad amministrarsi per proteggere nome e reputazione. Dobbiamo ammirare il suo coraggio di mettersi in gioco, preferisco un disastro di successo che un timido tran tran che non crea mai sorpresa».

A Celentano ha detto che è l’antenato di Greta. Che, a sua volta, è seguace di chi?

«Forse del colonnello Bernacca e del meteo».

Viva RaiPlay! è il programma più innovativo dell’anno?

«Non lo so. Quando sento la parola innovazione mi viene la pelle d’oca».

Non le piace la tv multipiattaforma?

«L’innovazione vorrei vederla nello stile e nel linguaggio più che nel cambio di piattaforma. Poi certo, insistendo su certi tasti, diventano familiari a tutti».

Ha visto Carola Rackete da Fabio Fazio?

«Non seguo la tv».

Prego?

«Cito Gianfranco Funari: facciamo tv per non guardarla. Non è snobismo, non la guardo per non essere influenzato da quello che fanno gli altri. Così posso illudermi di avere avuto una grande idea, ignorando che magari è in onda su tutti i canali».

Come vede le sardine?

«Mi sembrano un movimento che può far bene alla democrazia. Un movimento di opinione com’erano all’inizio i 5 stelle che, con tutto il rispetto, sono andati fin troppo lontano».

Sono fiancheggiatrici dell’establishment?

«Non saprei, stiamo attenti alle etichette. Sono nate in rete, l’importante è che non finiscano irretite».

Sua mamma scrive ancora poesie?

«Altro che, a Natale uscirà il quinto libro. S’intitolerà Farfalle di verso, il ricavato andrà in beneficenza».

L’editore?

«Finora ero io, per questo non ha sfondato. Adesso ci siamo affidati a Franco Cesati, un editore di Firenze, molto raffinato e presente online».

Quanto frequenta i social?

«Mediamente Instagram, poco Facebook. Più che altro ci sto per mostrare i backstage, postare delle frasi. Preferisco l’osservazione esterna».

È sessista la campagna per il Salone Margherita di proprietà della Banca d’Italia che vuole venderlo e che si conclude con la promessa di avere in omaggio Valeria Marini?

«Ma no, è un gioco… Valeria ce la teniamo ben stretta perché è un valore aggiunto anche nella versione taroccata o ritoccata. È la testimonial del nostro appello al ministro Dario Franceschini perché salvi il teatro».

Piacerà ad Aldo Grasso?

«Non lo leggo da una quindicina d’anni».

È torinista come lei, Giordano, Massimo Gramellini e Mattia Feltri.

«Spero che rimanga tale. Pochi ma buoni, ci vogliamo tutti bene…».

Sarà nella giuria di Sanremo Giovani con Pippo Baudo, Paolo Bonolis e Carlo Conti.

«Non basta invitare i giovani per fare una tv giovane. Per questo hanno scelto noi».

Dopo i sessant’anni si diventa più rigidi o più fluidi?

«Per quanto mi riguarda, più rigidi, più critici e autocritici. In una parola, più severi».

Tranne che in tv?

«Già, ma è solo televisione».

 

Panorama, 4 dicembre 2019

 

«Dopo il tumore prego, ma non so il Padre nostro»

«Questa è la mia officina e non la vendo a nessuno», esordisce Toto Cutugno, seduto tra i suoi collaboratori. Siamo nello studio di registrazione in un seminterrato di Milano est. «Qui veniva anche Adriano Celentano, il più grande di tutti, per il quale ho scritto alcuni successi come Soli. Poi Loredana Bertè, Pino Daniele, sono venuti in tanti… Adesso fanno tutto con i cellulari. Questo studio era di Gino Paoli, poi del maestro Pinuccio Pirazzoli, quello che lavora con Carlo Conti. Poi l’ho preso io». Intorno a Cutugno, 75 anni, toscano di Fosdinovo (Massa Carrara), ci sono il manager Danilo Mancuso, la responsabile dei rapporti con i media Gessica Giglio, i tecnici e i musicisti, anche loro reduci da un tour all’estero.

Dove siete stati?

«A Budapest, Praga, Varsavia e Bratislava. E a Kiev».

Bilancio?

«Molto positivo. Palazzetti e arene sempre esaurite. Grandi soddisfazioni anche a Kiev».

In Ucraina era indesiderato.

«Ci sono andato proprio nella settimana in cui un senatore mi aveva citato come spia sovietica. Prima ha accusato Al Bano, poi me. Mi sono messo a ridere. All’aeroporto c’erano tutte le tv ad aspettarmi. Ho fatto un grande concerto con l’orchestra sinfonica».

Come si è spiegato un attacco come quello?

«E chi lo sa? Magari alla moglie del senatore piacciono troppo le mie canzoni (sorride). L’ho anche invitato al concerto, ma non è venuto. Invece, i presidenti ucraini sono sempre venuti».

In quei giorni c’erano anche le elezioni presidenziali.

«Ed è stato eletto Volodymyr Zelensky, un comico che ricorda il nostro Beppe Grillo. Ho partecipato anche a un programma tv con lui. Un simpaticone. Aveva fatto una serie in cui interpretava il ruolo di un professore che diventa capo dello Stato. E lo è diventato veramente».

Il senatore che l’accusa appartiene a un partito avversario?

«Sì, ma è stata un’uscita isolata. Al Bano si era espresso in favore di Vladimir Putin durante la guerra di Crimea, io non ho detto nulla. Anni fa, dopo un concerto, Putin venne in camerino, mi ha dato la mano e se n’è andato. Un uomo con uno sguardo glaciale».

Però Al Bano è suo amico.

«Un fratello. Se sono qui lo devo a lui. Un giorno, era il 2007, viene a trovarmi. Gli dico: “Sai che cosa mi succede Al? Di notte devo alzarmi tre o quattro volte…”. Fa una telefonata e mi prende un appuntamento per l’indomani al San Raffaele. Il medico mi visita e decide di operarmi d’urgenza. Se non ci fosse stato Al Bano… Ora sono un miracolato che ama la vita più di prima. Solo, non riesco a camminare tanto e dovrei smettere di fumare».

In quali altri paesi la chiamano?

«Dovunque. In Turchia, in Afghanistan. Sono stato in tutte le repubbliche dell’ex Unione sovietica, dalla Kamchatka alla Lituania. Poi in Armenia, a Dubai, a Cartagine in Tunisia, in Algeria, in Germania, in Spagna. In Francia, all’Olimpia di Parigi».

Nel dicembre scorso.

«Grande serata. In Francia sono amato perché mi ha spalancato la carriera di compositore quando Joe Dassin volle cantare un mio brano. Poi sono arrivati Johnny Halliday, Mireille Mathieu e tutti gli altri».

Com’è l’Italia vista dai suoi concerti all’estero?

«Guai a chi me la tocca… Certo, ci sono tante cose che non funzionano. Ma quando sei fuori ti rendi conto della bellezza dell’Italia. Io la conosco anche nei suoi angoli remoti perché per tre anni, facendo Piacere Rai1 con Piero Badaloni e Simona Marchini, l’ho girata in lungo e in largo».

È più facile organizzare un tour in Italia o all’estero?

«Qui siamo cantanti nazionalpopolari, mentre all’estero ci vedono come artisti internazionali. Per questo è un po’ che non faccio tournée italiane. Ho un po’ di paura, mi è sembrato di esser finito nel dimenticatoio… Con tutto questo rap ho cominciato a pensare che la melodia mediterranea sia meno amata. Ma forse, se fai una bella canzone, l’apprezzano anche i giovani. Sto lavorando a un nuovo disco che sarà pronto in ottobre. Il mio manager vuole farmi provare sette otto tappe, poi vediamo. Anche dopo la vicenda dell’Ucraina, in tanti mi chiedono perché non faccio più concerti in Italia. Presto succederà».

Perché lei, Al Bano, Gigliola Cinquetti, i Ricchi e poveri, Riccardo Fogli, Marcella avete tanto successo soprattutto all’Est?

«La prima volta che sono andato a cantare in Unione sovietica era il 1986. C’erano ancora il Muro di Berlino e la dittatura. Feci 15 serate a Mosca e 15 a San Pietroburgo: 20.000 persone a concerto. La domenica se ne facevano due, uno al pomeriggio e uno la sera. I biglietti venivano venduti nelle fabbriche. Erano anni cupi, ma i russi vedevano il Festival di Sanremo. Cercavano quella spensieratezza che c’è nelle nostre canzoni. Le mie piacevano e piacciono molto alle donne, perché vedono l’italiano romantico e sentono l’armonia mediterranea. Poi in alcune mie canzoni ci sono delle assonanze con la musica popolare russa».

Perché ha il record di partecipazioni a Sanremo?

«Ci sono andato quindici volte. La prima, nel 1980, l’ho vinto con Solo noi e ho cominciato a pensare che fosse facile vincerlo. Così sono tornato, ma sono sempre arrivato secondo e la cosa mi fa un po’ incazzare. Però l’anno che sono arrivato dietro ai Pooh sono andato all’Eurofestival al posto loro, e l’ho vinto. Mi piaceva gareggiare. Arrivavo in albergo a Sanremo e dicevo a mia moglie: “Questa volta non mi voglio incazzare”. Ma dopo un quarto d’ora stavo già litigando con i giornalisti».

Motivo?

«Dicevano che ero ruffiano perché avevo scritto le canzoni sulle mamme e sui figli. Ma Le mamme parlava di mia madre che non c’era più e Figli l’avevo scritta dopo che era nato Niko. Ho scritto anche serenate, ballate malinconiche, Voglio andare a vivere in campagna…».

Mai stato idilliaco il suo rapporto con i giornalisti.

«Ce n’era uno molto importante che appena mi vedeva mi abbracciava. Ma appena c’era una telecamera teneva le distanze. Un altro mi elogiava in pubblico come musicista, ma stroncava le canzoni sul giornale. Io non sopporto l’ipocrisia, la doppiezza, amo la gente…».

Vede il pericolo che anche Sanremo diventi una manifestazione per intellettuali?

«Dipende sempre dal direttore artistico, anche lì si va per amicizie. Vorrei sapere quale canzone ha lasciato il segno negli ultimi vent’anni. Soldi mi piaceva, era una bella furbata e all’Eurofestival Mahmood è arrivato secondo. A me sembra che ci siano troppi talent, X Factor, The Voice, Amici, quello di Michelle Hunziker e J-Ax. Tutti bravi, ma dov’è lo spazio? E i ragazzi che non sfondano lo accettano o magari cadono in depressione?».

Ha seguito le polemiche del festival di quest’anno?

«Una volta c’era il voto popolare abbinato al Totip e vinceva la canzone che piaceva alla gente. Nel 1983 con L’Italiano sono arrivato quinto. Mentre con il voto del Totip, che quell’anno era sperimentale, avrei vinto. La sera mi telefonò Domenico Modugno: “Ho sentito la canzone, tu sarai il mio proseguimento”. Fu quella la mia vittoria».

Un verso di Insieme con cui ha vinto l’Eurofestival dice: «L’Europa non è lontana, c’è una canzone italiana». È la sintesi delle ultime elezioni?

«Quando l’ho scritta l’Unione europea non c’era ancora, ma qualche giorno fa a Bratislava la cantavano tutti. Sì, sembra la sintesi delle elezioni, anche se dicono che in Europa la canzone italiana conta poco. Speriamo che cambi, che riescano a ridurre le tasse, non ha idea di quante ne pago io».

Lei come le ha vissute queste elezioni?

«Premetto: io sono apolitico. Ho seguito i leader e a volte penso che parlano bene e razzolano male. Matteo Salvini mi piace, l’ho anche votato, vediamo che cosa riesce a fare. Io sono sempre stato berlusconiano, però adesso Berlusconi mi fa tenerezza. Quando l’ho conosciuto, prima che entrasse in politica, aveva grande carisma».

Come l’ha conosciuto?

«M’invitò ad Arcore nel ’93, voleva che passassi a Mediaset. Mi fece parlare e io gli raccontai di mio padre che suonava la tromba e di quella volta che gli telefonai dopo il successo di Soli cantata da Celentano: “Sì, bella canzone, ma è un po’ copiata, somiglia a questa…”, disse intonando un’aria che non c’entrava niente. Allora Berlusconi mi propose di andare a vedere il Milan in elicottero: “Perché non compone l’inno del Milan al posto di quello di Toni Renis? Intanto che vado a cambiarmi, provi qualcosa al pianoforte”. Dopo un po’ che strimpello, scende in giacca e cravatta per andare allo stadio, si avvicina, appoggia una mano sulla spalla e mi fa: “Mi piace, ma è un po’ copiata…”. Un grande. Siamo andati a vedere la partita, ma poi sono rimasto in Rai».

Che richiesta farebbe oggi al mondo politico?

«Di realizzare quello che promette. Chiunque sia, almeno la gente potrebbe fidarsi. Per esempio, le telecamere di sorveglianza negli asili e negli ospedali sono un’ottima idea. Ma che lo facciano davvero. Anche controllare gli sbarchi è giusto. Quando vedo queste mamme con i bambini che vagano per strada mi si spacca il cuore. Però non possiamo accogliere tutti noi… L’Europa c’è solo per presentare il conto? Che si divida i compiti anche sull’immigrazione».

Chi è oggi «un italiano vero»?

«Bella domanda. Allora era Pertini, il presidente partigiano. Anche mio padre è stato partigiano… L’italiano vero è chi realizza quello che ha promesso. Non dico tutto, ma in gran parte».

Mi dice il titolo del nuovo disco?

«Io pensavo Tic tac, ma il mio manager non è convinto. C’è una canzone sul tempo che s’intitola così. Chiedo di avere tempo perché ho ancora tante cose da dire e da fare».

Il tempo che passa… lei è credente?

«Quando ho scoperto di avere il tumore sono cambiato. Da bambini si dice “mamma aiutami”, da adulti si invoca Dio. Io ho cominciato a rivolgermi a Dio, anche se non vado in chiesa. Prego con le mie parole, il Padre nostro non me lo ricordo tutto: Padre nostro che sei nei cieli… sia santificato il tuo nome… E poi?».

 

La Verità, 2 giugno 2019

 

 

C’è Celentano smaschera sia C’è Grillo che Adrian

Il flop dei telepredicatori. La serata no dei guru. La caduta dei venerati showman. Beppe Grillo e Adriano Celentano, in onda in contemporanea e in concorrenza, sono sprofondati entrambi. Uno su Rai 2, l’altro su Canale 5: 4.34% di share (poco sopra il milione di telespettatori) per C’è Grillo, 11.88% (poco più di 3 milioni) per la prima parte di Adrian (la seconda cala di un milione e un punto di share). Fine di un’epoca, svolta storica, cambio di stagione? Una cosa è certa: di fronte alla comune e già complicata quotidianità, apocalissi, sciagure planetarie, catastrofismi, utopie e distopie varie non sono più di moda. Non lo sono i loro profeti, soprattutto se, come in questo caso, si esprimono con linguaggi datati e formule anacronistiche.

L’altra sera, facendo zapping da un canale all’altro sembrava di essere improvvisamente tornati indietro di un ventennio. Sulla rete diretta da Carlo Freccero c’era il comico genovese pre fondazione M5s che sghignazzava su Una storia italiana, opuscolo elettorale di Silvio Berlusconi, anno domini 2001. O, addirittura, con un altro tuffo nella macchina del tempo, sfotteva, sardonico, il viaggio di Bettino Craxi in Cina con corte al seguito. Preistoria, rivista oggi: inevitabili i bassi ascolti. Su Canale 5, tra un amplesso e l’altro, un orologiaio supereroe combatteva a colpi di arti marziali i poteri forti di una dittatura di stampo orwelliano. Solo che, anziché essere nel 1984, ci si doveva credere nel 2068: brutta storia se un fumetto fantascientifico risulta vecchio o persino vintage come sta accadendo ad Adrian. Insomma, due show stanchi e che denunciano l’età. È il malinconico destino che accomuna i due telepredicatori: il fatto di essere degli ex.

Solo che le similitudini finiscono qui. Perché tra il format realizzato con immagini d’archivio da Rai 2 e lo show celentaniano più atteso della storia della televisione italiana le differenze sono tante e sostanziose. C’è Grillo, per esempio, è costato 30.000 euro in tutto. E solo perché il suo protagonista ha rivendicato lo sfruttamento dei diritti d’immagine delle esibizioni realizzate in Rai. In secondo luogo, il risultato di audience è stato solo di poco inferiore alla media di rete, attorno al 6% di share. Malgrado ciò, pochi minuti dopo la pubblicazione dei dati di ascolto, il folcloristico dem Michele Anzaldi, ha chiesto la testa del direttore di Rai 2, twittando: «Freccero senza vergogna aveva giustificato la serata dicendo che serviva a far crescere ascolti, invece ha trascinato la sua rete in fondo alla classifica Auditel: ora si dimette?». A corto di argomenti, gli uomini del Pd non sanno più a cosa attaccarsi. E un’audience appena inferiore alle attese diventa pretesto per chiedere le dimissioni di un dirigente. Nell’autunno del 2016 non si ricordano analoghe richieste di dimissioni per il direttore di Rai 1 dopo la messa in onda di Dieci cose, il programma ideato e realizzato da Walter Veltroni che si fermò all’11% (2,3 milioni di telespettatori), uno dei minimi storici dell’ammiraglia Rai. Dal canto suo Freccero ha respinto al mittente le critiche e le richieste di dimissioni, attribuendo la défaillance alla presenza di Luigi Di Maio su Rete 4, ospite di Quarta Repubblica di Nicola Porro: «Il Di Maio politico ha battuto il Grillo non politico. Questo la dice lunga sulla mia indipendenza e su quanta differenza c’è tra il mio lavoro e il lavoro politico del M5s. Se fossimo “pappa e ciccia” avrei chiesto a Di Maio di non fare concorrenza a Grillo». Fine della querelle.

Più grave risulta l’involontario effetto rétro dello show di Celentano. A parte i costi sanremesi delle serate – si parla di 20 milioni – le rinunce a catena dei partner (Teo Teocoli, Michelle Hunziker, Ambra Angiolini) e le prese di distanza di Milo Manara, qui il Molleggiato e il Clan hanno proprio perso la scommessa con il tempo. La faccenda dispiace maggiormente pensando al fatto che il protagonista di show come Francamente me ne infischio e Rockpolitik era sempre stato un grande anticipatore, un perfetto interprete dello zeitgeist. Ora sta tentando di raddrizzare la baracca, provando a giocare sul fatto di aver consapevolmente «sabotato gli ascolti di Canale 5» e accettando di cantare (sempre struggente Pregherò). Ma che tutta l’impostazione sia datata lo confermano anche gli sgangherati monologhi di Natalino Balasso e soprattutto di Giovanni Storti, che ha paragonato i pullman degli sgomberi dei migranti dei giorni scorsi ai treni delle deportazioni degli ebrei ad opera dei nazisti.

Paradossalmente, proprio il confronto con C’è Celentano, trasmesso da Rai 2 a inizio gennaio – stesso format di C’è Grillo ma con il protagonista di Adrian – smaschera le debolezze dei due show paralleli. Le canzoni e i duetti del Molleggiato riviste quella sera (14.38% di share, quasi 3 milioni di spettatori) conservavano freschezza e attualità di momenti rappresentativi di una storia. Qualità che le gag del comico genovese, identificate con un’èra politica archiviata, e il cartoon del Molleggiato, troppo ambizioso e in realtà datato, non possono avere.

 

La Verità, 30 gennaio 2019