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«L’euroburocrazia ci trasforma in sonnambuli»

Novantuno anni e otto figli, Giuseppe De Rita è una delle menti più lucide del Paese. Fondatore e animatore del Censis, il Centro studi investimenti sociali che nell’ultimo rapporto ha tracciato il profilo di una società italiana «affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali», De Rita è l’uomo cui si ricorre quando ci si trova davanti a svolte difficili da decodificare come quella verificatasi all’ultima consultazione europea.
Professore, chi ha vinto davvero le elezioni?
«Nessuno. L’astensione è tale da far pensare che qualsiasi decisione venga presa sarà sempre tecnicamente di una minoranza. Avere il 28% di metà del Paese significa disporre concretamente del 14% dei consensi e quindi espressione di una forza largamente minoritaria. Questo stabilisce le condizioni in cui si lavora. Perciò è difficile dire che qualcuno abbia vinto. Anche se, numericamente, si può dirlo di Elly Schlein e Giorgia Meloni, mentre Giuseppe Conte ha perso».
L’astensionismo è stato forte anche in Europa, il fenomeno dei sonnambuli e degli sfiduciati è continentale?
«La crisi della partecipazione politica si registra in tutta Europa. Ma lei vuol dirmi quale sia l’appeal di Olaf Scholz o di Emmanuel Macron? Possiamo riconoscere che noi sonnambuli non esercitiamo una buona domanda, ma dobbiamo tralasciare la qualità dell’offerta. L’astensione sarà anche un peccato di omissione, vedendolo dal punto di vista del catechismo cattolico, ma è un peccato giustificato dal fatto che la qualità dell’offerta politica è bassissima. Se al mercato mi offrono un prodotto che non mi piace, tiro dritto».
Quindi la causa principale è il deficit di qualità del personale politico?
«Questa è sicuramente una delle cause. La seconda è che, tendenzialmente, il cittadino della società occidentale comincia a vivere trascurando le cose importanti. Non paga le tasse, non partecipa alla vita della scuola, non va a messa. La tendenza è a occuparci delle nostre cose e non di quelle collettive».
Prevale il disincanto nei confronti della globalizzazione o la distanza dalle istituzioni continentali?
«Credo che il problema vero sia una certa estraneità degli organismi di governo europei. Io stesso non vedo vicini i grandi palazzi di Bruxelles, forse perché sono abituato a palazzi più semplici e famigliari. L’Ue emana un’immagine fredda, tecnocratica e ricca. La lontananza degli uffici e la ricchezza degli stipendi. Delusi dalla globalizzazione? Non direi. Vorremmo una politica europea più forte e unitaria nella difesa e nella diplomazia. La globalizzazione è accettata, tutti parlano di piattaforme e di Amazon. Ormai si usa Amazon anche per mandare i biglietti di auguri. È questa la globalizzazione. È l’Europa che non entra nel nostro concetto di globalizzazione».
Questa disaffezione è anche causata dal fatto che i tratti che caratterizzano l’Europa, dai simboli religiosi nelle città al riconoscimento del ruolo delle donne fino alla nascita degli Stati nazionali, siano stati progressivamente messi tra parentesi?
«Invece dovremmo riconoscere che l’Europa ha fatto grande la storia dell’ultimo millennio. Purtroppo oggi è di moda di rinnegare la storia».
È la cultura della cancellazione.
«Si cancellano i grandi imperatori, i grandi navigatori… Nei social e nei media l’opinione prevalente è la distruzione della storia per concentrarsi sul futuro. Come se la cultura contemporanea avesse bisogno di mangiarsi il passato, di vivere fuori dalle piazze di una volta. C’è l’ambizione di costruire le autostrade per il futuro. Ma la mia impressione è che se non si sanno gestire bene le città di una volta non si possono manco abbozzare le autostrade del futuro».
Mentre scolora l’appartenenza a una comunità e a una storia cresce la percezione di un’Europa sempre più dirigista, fatta di regole e divieti?
«La situazione va vista da due angolazioni. La società contemporanea è così complessa e articolata che ha bisogno di essere governata. Questo può avvenire o concentrando il potere con la forza come fanno certe dittature, oppure dettando regole e gestendone gli effetti. Negli anni Cinquanta i padri fondatori decisero per questa seconda ipotesi, non per un’Europa che concentrasse il potere e imponesse decisioni dall’alto. Anche i titoli degli organismi avevano questo carattere, si parlava di “mercato comune”, di “patto di stabilità”, tutte formule e meccanismi regolatori. Oggi queste istituzioni sono afflitte dalla burocrazia e sono esposte a lobby sempre più invadenti».
Gli elettori sanno chi sono e che ruolo ricoprono Ursula von der Leyen, Roberta Metsola o Christine Lagarde?
«È normale che non lo sappiano. Immagino che mio padre e mia madre non sapessero chi erano Konrad Adenauer e Robert Schuman, sebbene fossero grandi statisti».
Per questo hanno fatto bene Giorgia Meloni ed Elly Schlein a personalizzare la campagna? Gli elettori cercano qualcuno in cui riconoscersi?
«È uno dei meccanismi di identificazione. Io sono contrario alla personalizzazione della politica, però capisco che in un momento di difficoltà, in cui agisce una marea di soggettività, qualcuno scelga di metterci la faccia. Poi ci sono le personalizzazioni che funzionano, come quelle di Schlein e Meloni, e quelle che non attecchiscono, come nel caso di Matteo Renzi e Carlo Calenda».
Come valuta il fatto che il governo Meloni sia l’unico in Europa che registra un consistente incremento di consensi?
«Essendo l’ultima arrivata la Meloni ha fatto scelte drastiche. Ha optato per una linea europeista e atlantica e d’intesa con gli Stati Uniti. Una scelta che ha pagato più di altre posizioni articolate. Poi ha fatto la sua scelta netta anche contro la politica dei bonus. E la gente ha capito».
Hanno fatto bene i vescovi italiani a suggerire un voto in favore dei partiti dichiaratamente europeisti?
«Non potevano fare altro. La scelta europeista è stata fatta anche dagli statisti cattolici del dopoguerra».
Perché a suo avviso sono stati poco ascoltati?
«Tutto sommato lo sono stati. Cosa potevano dire se non “votate per i partiti europeisti”? Forse pensavano di favorire i centristi. Alla fine, però, non ho visto prevalere il voto antieuropeo».
La dialettica pace-guerra è stata centrale in queste elezioni ed è giusto che lo sia?
«Assolutamente no, ed è giusto che non lo sia».
Perché?
«Perché si tratta di un meccanismo così delicato e criptico che montarci sopra una dimensione politica è sbagliato. Si entra in questioni complicatissime di cultura militare, di geopolitica e di economia internazionale che vanno trattate in modo serio e approfondito. Non basta dire di essere per la pace».
Da questo punto di vista, come giudica la candidatura di Marco Tarquinio nel Pd?
«Tarquinio ha fatto benissimo il direttore di Avvenire e poi ha scelto di impegnarsi, da pacifista oltranzista, in queste consultazioni, senza disturbare troppo il partito. Terra terra, è andato avanti».
Da ospite in un partito che va da un’altra parte?
«Se ha fatto questa scelta ne ha pagato in bene e in male i pro e contro. Non tocca e me valutarli».
Perché, sebbene nei sondaggi la maggioranza degli italiani si dichiari contraria all’invio di armi, i partiti pacifisti e antimilitaristi non hanno avuto i riconoscimenti attesi?
«Son cose troppo serie per farne comizi e orientamenti elettorali. Pensi quanto difficile è la valutazione su quali armi mandare in Ucraina. Non basta proclamarsi per la pace e sventolare la bandiera bianca. Anzi, è inutile e dannoso ridurre a un fatto di opinione una crisi internazionale così complessa».
Altra contraddizione: le proteste ambientali e gli annunci di apocalissi imminenti si sprecano mentre i Verdi perdono consensi.
«Anche in questo caso il problema ambientale è ridotto a fatto di opinione. Quando viene sottratto ai tecnici, agli esperti, ai programmi di intervento e gestione dell’ambiente sfuma in qualcos’altro e perde di interesse».
La bocciatura dell’asse franco-tedesco va attribuita al disagio sociale di Francia e Germania o al contrasto alla politica bellicista?
«La causa della sconfitta non è il contrasto alla linea bellicista di Parigi e Berlino. Chi conosce la realtà di questi Paesi capisce che la loro crisi non viene dallo schieramento anti russo. Nel caso della Francia, si origina nella dimensione identitaria, nel conflitto spaventoso fra ebrei e antisemitismo che investe le periferie e nel crollo della religione cattolica come elemento unitario di quella popolazione. L’asse con i tedeschi c’entra poco. In Germania, la crisi è generata dall’aumento delle diseguaglianze. La fine dell’era dei grandi traguardi economici crea tensioni e frustrazioni che si manifestano al voto e nelle città in modi meno cruenti di quelli francesi».
Se Paesi leader come Francia e Germania, ma pure Austria e Belgio registrano uno spostamento verso destra, è giusto che a Bruxelles si riproponga la maggioranza di prima?
«Non so dove si collocheranno i repubblicani francesi né se Meloni appoggerà la maggioranza Ursula. Mi astengo».
Che strada intravede per riformulare un’idea e una prassi europea più vicina alle esigenze dei cittadini?
«L’Europa sta gestendo la complessità di questi decenni con la cultura delle regole e delle normative. Questa politica era efficace negli anni Cinquanta. Ora risulta troppo fredda, in questi anni non basta gestire l’esistente. Serve una politica con più intenzionalità».
Intenzionalità significa progettualità, visione?
«Ogni momento di svolta della storia è stato determinato da una intenzionalità. L’uscita dal feudalesimo è stata favorita dal ruolo del clero e dal solidarismo dei Monti di pietà. La stessa ricostruzione italiana del dopoguerra aveva una intenzionalità. Oggi l’Europa gestisce l’esistente senza una progettualità».

 

La Verità, 15 giugno 2024

 

«Il governo delle tre paure cambierà a gennaio»

Professor Marcello Pera, a cosa dobbiamo il piacere di rivederla presente nel dibattito politico?

«È del tutto casuale, mi hanno cercato ora, non prima. Non sono rientrato in politica».

Però sembra sia tornato da una lunga vacanza.

«In realtà, mi sono dedicato alle mie attività di sempre. Ho scritto un libro e ne ho in mente un altro. Se possibile, spero di continuare a fare il mio mestiere».

Presidente del Senato dal 2001 al 2006, filosofo, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo al quale si è avvicinato anche grazie al rapporto con Benedetto XVI, da qualche tempo Marcello Pera ha ritrovato nuova visibilità sui media.

Il momento difficile l’ha richiamata in servizio come certi poliziotti nei film americani che si commuovono davanti a un caso disperato?

«Di disperato in Italia c’è l’Italia stessa. Ci troviamo in una situazione gravissima. Da ogni punto di vista: istituzionale, politico, economico. Siamo molto mal messi e faremo fatica a rialzarci».

Che cos’ha pensato vedendo l’ultimo rapporto Censis nel quale si dice che circa il 58% degli italiani è disposto a cedere quote di libertà in nome della salute collettiva?

«Ho pensato alla battuta di Boris Johnson che fece arrabbiare il presidente Sergio Mattarella. Johnson disse che gli inglesi amano la liberta più degli italiani che prediligono la sicurezza. Penso avesse ragione. Il rapporto Censis lo quantifica. Diciamo che noi amiamo la libertà guidata».

Diagnosi infausta.

«Gli italiani sono propensi a rivolgersi allo Stato affinché li conduca per mano da qualche parte. È istintivo chiedere alla mamma Stato o al babbo Stato: aiutaci tu. Se le cose vanno male, la colpa è sua. Siamo sempre in attesa delle direttive dei dpcm, che nella loro frequenza scandalizzano sempre meno. Questo è un altro elemento che mi fa essere molto pessimista: desideriamo uno Stato paternalistico, che oggi abbiamo».

Siamo un popolo bambino?

«Che non vuole prendersi responsabilità per agire in prima persona e preferisce essere condotto. A tanti anni dal dopoguerra è un comportamento che mi spaventa».

Perché?

«Perché è uno scambio comodo. Io cittadino ti do la mia libertà e tu Stato mi salvi. Si commercia con l’anima».

L’infantilismo si sposa con l’assistenzialismo e il moralismo dei partiti di sinistra?

«Non è infantilismo, ma un atto cosciente e deliberato perché se ne trae un vantaggio».

È un atteggiamento che giustifica lo Stato etico.

«Si sposa con la cultura della sinistra, ma anche con quella cattolica come viene vissuta nel presente. Il cattocomunismo pesca nell’animo italiano».

È ancora vivo e vegeto?

«Mio Dio, sì. La classe dirigente del Pd è notevolmente cattocomunista».

Secondo il Censis il 77% degli italiani vuole pene severissime per chi non indossa la mascherina.

«È quello che dicevo: prima di tutto la salute, la famiglia, la propria sicurezza. Viviamo nella paura che qualcuno ci infetti».

Un altro dato è che la pandemia ha allargato la forbice tra lavoratori che hanno la certezza del reddito e chi ha introiti precari.

«La divisione tra i tutelati e i precari c’era già prima, ma ora si è acuita. Coloro che fanno lo smart working nella pubblica amministrazione, più smart che working, hanno una via d’uscita che gli altri non hanno. Come se ne esce? Ci vorrà la ripresa economica, un nuovo miracolo italiano. Non sono ottimista».

Adesso che si è superata l’opposizione del M5s al Mes e Conte potrebbe mettere da parte la task force sul Recovery fund ci salveranno gli aiuti europei?

«Se fossimo preparati a coglierli sì. Invece siamo preparati a spargerli. Vedo una rincorsa di lobby, parti e partiti a spendere questi fondi più promessi che garantiti. Non sono sicuro che avranno l’effetto di quelli che arrivarono dal Piano Marshall».

Tanto più che sono prestiti.

«Già come siamo adesso ci stanno portando al 169% del debito pubblico, una cifra che si pronuncia sottovoce. Mi chiedo: come si ripaga questo debito e chi lo ripaga?».

Le generazioni future?

«In realtà potrebbe essere un’ipoteca già per noi. Tra un anno, quando la pandemia sarà finita, gli altri Paesi riprenderanno a correre, mentre noi continueremo con il nostro solito Pil all’1-1,2%. Certamente i nostri figli avranno questo gravoso debito sulle spalle, ma si comincerà a soffrire prima».

Qual è il suo giudizio sulla retromarcia del M5s?

«La possibilità di spendere i soldi per le proprie clientele stando in Parlamento sovrarappresentati e con l’opportunità di eleggere il presidente della Repubblica ha convinto i 5 stelle a trangugiare il rospo indigesto».

Anche Matteo Renzi farà retromarcia sulla task force?

«Può darsi che sbagli, ma mi sembra il gioco del vai avanti tu che a me vien da ridere. Renzi si acconcia a fare l’ariete per conto di altri. Oggi sarebbe fuori dal Parlamento come tutti gli esponenti di Italia viva: sono consapevoli che per rientrarci devono pescare voti dal Pd».

Questa curva prepara il rettilineo per?

«Renzi recita la parte del guascone che ben gli riesce. Pd e 5 stelle sono stanchi di Conte che, penso, in gennaio cadrà per essere sostituito da qualcun altro».

Un Conte 3 è impensabile?

«Direi di sì. Troveranno un nome gradito a Di Maio e Zingaretti».

Enrico Franceschini?

«Troppo cattocomunista, anche se molto ambizioso. Serve una figura meno aggressiva e più accomodante per ricompattare M5s e Pd».

Domenico Delrio?

«È meno aggressivo e torvo di Franceschini, ma proviene dallo stesso ceppo. Troveranno qualcuno che li aiuti a presentarsi uniti, gestire la nomina del capo dello Stato e andare a elezioni una volta celebrate nuove nozze».

Conte sta governando con i dpcm, i sussidi e le task force: si poteva fare diversamente?

«Avrebbe potuto se fosse stato un uomo politico, espressione di una propria forza coesa. Inoltre, si è presto invaghito del gioco, ma devo dire che è stato abile».

Ha accentrato il potere.

«Ora è in difficoltà, ma per un certo tempo è riuscito a gestirlo. Per essere un premier raccolto tra i passanti ha mostrato talento e comincia a fare paura perché dispone di una quota di consenso. Minacciando una lista propria può negoziare sul futuro, non sarà facile disarcionarlo. Per questo occorrerà Renzi al suo peggio: anche questo gli riesce bene».

Il governo ha fatto invasione in campo religioso e liturgico?

«Non penso. Più serio e grave è il fenomeno di secolarizzazione della Chiesa che sta rincorrendo il mondo e si sta trasformando in una religione non più della salvezza ma del benessere. Ciò che sta accadendo nel mondo cattolico è veramente epocale e spaventoso. Sta perdendo la sua propria tradizione e la sua dottrina. Ci voleva un gesuita per fare questo…».

Quello di Conte è il governo delle tre paure? Del Covid, della non rielezione di molti parlamentari e di Salvini e Meloni?

«Certamente sì. La curva del Covid sembra risentire dell’andamento della politica. Per esempio, il contagio è scoppiato a fine settembre, dopo le ultime elezioni regionali, mentre nelle settimane precedenti sembrava debellato. Poi c’è la paura diffusa in Parlamento, non solo tra i parlamentari della maggioranza. Pensi a Forza Italia, le percentuali che hanno portato alle attuali rappresentanze non ci sono più. E poi c’è il mostro, il truce, il fascismo che avanza. La sinistra ha sempre bisogno di questi bersagli che fanno presa anche sui nostri media».

La narrazione.

«Salvini è fascista, vuole i pieni poteri, toglie la libertà, si allea con i polacchi e gli ungheresi: questo è il ritratto».

Difficilmente accadrà, ma se si andasse a votare il centrodestra sarebbe pronto?

«Temo di no. Penso che potrebbe avere la maggioranza, ma non sarebbe pronto».

Non possiede una classe dirigente adeguata all’ora più buia?

«Non vedo i tre partiti parlarsi, confrontarsi, stendere un programma comune nel quale coinvolgere le istituzioni, la politica, l’economia. Li vedo ancora in competizione e quindi quel programma comune che infonde credibilità nell’elettore è di là da venire. Ero presente in occasione della vittoria del centrodestra nel 2001 e ricordo il susseguirsi di incontri e scambi tra i partiti di allora. Ora questo lavoro che dovrebbe preparare le leggi e tenerle pronte nel cassetto, non c’è. E questo mi preoccupa».

Più della mancanza di una classe dirigente all’altezza?

«Sì, perché, in realtà qualche volto nuovo e credibile nella Lega e in Fratelli d’Italia comincia a spuntare. Invece, se il centrodestra dovesse vincere alle urne che cosa farebbe dell’attuale Costituzione, dell’assetto istituzionale, della presidenza della Repubblica, di un sistema di governo troppo debole? Quale posizione avremmo in Europa? Sull’economia e sul fisco? Può darsi che la riflessione su questi temi ci sia, ma io non ne ho notizia».

È ancora l’uomo che sussurra a Salvini?

«Ci ho parlato qualche volta, ma non sono uno che sussurra. Se ne avessi l’occasione segnalerei i problemi che le ho enunciato. Nel 2001 il lavoro del centrodestra fu agevolato dal fatto che c’era una leadership forte. Adesso non c’è e prevale la competizione anche sorda sull’unità. Questo non lo sussurro, ma lo dico a voce alta».

Sarà difficile trovare il candidato premier?

«Si finirà per scegliere chi ha più voti. Lei ricorderà Ugo La Malfa: voti ne aveva pochissimi, ma era un leader».

Rebus di non facile soluzione.

«Lo scioglierà l’aritmetica».

Servirebbe qualcuno in grado di amalgamare le diverse anime?

«Con due o tre idee che si concretizzino in un programma sul quale concordino tutti».

Ci vorrebbe una certa maturità.

«E l’aiuto di Dio».

Alcide De Gasperi diceva che un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni.

«Ma lui un leader lo era e forse non possiamo aspirare così in alto. Nel 2001 ci fu Berlusconi. Se nostro Signore fosse benevolo, potrebbe suggerirci qualcuno di accettabile».

Il nuovo capo dello Stato che si sceglierà nel gennaio 2022 sarà inevitabilmente di centrosinistra?

«Non è una condanna biblica, ma probabilmente andrà così. Sarà eletto dalla maggioranza che c’è ora in Parlamento anche se non lo è nel Paese».

Siamo destinati alla discrepanza fra palazzo e Paese reale?

«Eletto con la maggioranza formata da Pd e M5s sarà un presidente di palazzo, certamente non di popolo».

 

La Verità, 11 dicembre 2020

«Che errore uniformare tutta l’Italia con i decreti»

Professor De Rita, lei ha 88 anni ma conserva lo spirito ribelle dei ventenni: niente app e niente mascherina.

«Nessuno che mi conosca direbbe che ho uno spirito ribelle. Sono un uomo tranquillo, arrivato a 88 anni camminando con passo lento verso la morte, compimento della vita. Il mio detto preferito si trova nel salmo 83: “Cresce lungo il cammino il suo vigore finché compare dinanzi a Dio in Sion”».

Era una provocazione. Capisco la difesa della privacy meno il no al dispositivo di protezione.

«Oltre al fastidio, ci sono due ragioni. La prima è che mi sembra di respirare l’anidride carbonica del mio fiato. Forse proteggerà gli altri, ma a me non pare salubre. La seconda ragione è che la mascherina fa risaltare gli occhi e quando guardo i miei coetanei, diciamo gli over 75, vedo sguardi in parte disperati e in parte inespressivi. Non voglio apparire così».

Ecco: intervistare Giuseppe De Rita vuol dire imbattersi in pensieri originali e motivati. Fondatore e presidente del Censis – il Centro studi investimenti sociali che tutti gli anni ci consegna una fotografia del sistema nervoso del Paese – romano, otto figli avuti da Maria Luisa Bari, scomparsa nel 2014, De Rita è una delle figure più lucide e autorevoli del panorama intellettuale italiano. Un grande saggio. Che, con l’eccezione della partecipazione allo staff di Ciriaco De Mita a fine anni Ottanta, ha sempre mantenuto un’equilibrata distanza dalla politica. Nonostante questo, all’elezione per la Presidenza della Repubblica del 2006 ricevette 19 voti.

Professore, è corretto il confronto di questo periodo con quello della guerra?

«Non direi. Chi lo fa non ha visto le centinaia di quadrimotori americani che sganciavano bombe sulle nostre città. O le motociclette delle SS che attraversavano Roma mitragliando ad altezza d’uomo. Quella di oggi è una paura viscida e indistinta. Perciò anche persone razionali possono non controllarla. Qualche giorno fa a Roma alle 5 del mattino si è avvertita una piccola scossa di terremoto. C’è chi è sceso affannosamente in strada, io no. Una certa paura è stata alimentata dal clima generale di emergenza. C’è stato poco “ragionamendo”, direbbe De Mita».

L’enfatizzazione del pericolo è servita a puntellare un potere fragile?

«Questa mi sembra un’esagerazione. Il fatto è che tutto il sistema italiano era impreparato. E quando si è impreparati si sbanda. La Germania ha risposto diversamente. Ha funzionato il rapporto tra i länder e lo Stato centrale, non ci sono stati problemi per le mascherine e i letti in terapia intensiva. Il muscolo ha assorbito la botta e ha permesso di controllare la paura. Noi siamo abituati ad arrangiarci giorno per giorno. È la virtù dell’Italia. Ma abbiamo copiato la Cina, dicendo che gli altri ci seguivano. Non era vero. Così, alcuni errori ne hanno innescati altri».

Il principale?

«Stare tutti insieme appassionatamente, mentre l’Italia è fatta di differenze. Non era pensabile trattare la Lombardia come la Basilicata o Bergamo come Viterbo. Per differenziare bisognava essere sicuri che la muscolatura avrebbe risposto bene. Non essendolo, abbiamo fatto norme uguali per tutti».

Siamo nella crisi più complessa della nostra epoca governati dai politici più sprovveduti della storia repubblicana?

«Come ha detto Giulio Sapelli, siamo governati da eterni disoccupati. Sarebbe interessante che qualche giornalista consultasse la Navicella parlamentare per studiare i curricula di ministri e sottosegretari e vedere cosa tornerebbero a fare se non rieletti. Ma non è tutta colpa loro».

E di chi?

«La ventata anticasta si è trasformata in lotta contro il merito e l’esperienza. Un risvolto disastroso. Quando governava la Dc c’era un lungo percorso di formazione, da vicesindaco ad assessore regionale fino a deputato. Una volta alla Camera, i primi anni si trascorrevano a imparare. Se appena arrivati si va al governo è inevitabile che i governanti siano inadeguati».

Di conseguenza?

«Il dilettantismo genera improvvisazione e semplicismo. Non si mette in quarantena una società complessa come la nostra senza tener conto della specificità di situazioni e corpi intermedi, dalla Chiesa alle filiere produttive, dalle categorie professionali ai sindacati. È come andare avanti chiudendo gli occhi per evitare di vedere il pericolo».

Vede anche lei una sovrapposizione della comunicazione sulla politica come appare da una certa strategia degli annunci?

«La pandemia ha accentuato la verticalizzazione delle decisioni. Tutto si concentra al vertice: Protezione civile, Comitato tecnico scientifico, due o tre ministri con il premier. Quando prevale l’angoscia, il potere si concentra. Il risultato è che anche il rilancio è statalizzato. Ma questo non è un meccanismo privo di conseguenze».

Quali, per esempio?

«Avrà notato che non c’è stata beneficenza privata, se si eccettua l’iniziativa di Gaetano Caltagirone in favore del Gemelli e dello Spallanzani. Per il resto, niente appelli dei giornali o della Chiesa. Tutta la beneficenza è andata allo Stato attraverso l’app della Protezione civile».

Qualcuno veramente c’è stato… E la prevalenza della comunicazione?

«Verticalizzando e statalizzando si crea una distanza che si colma attraverso gli eventi. I famosi decreti, i provvedimenti poderosi. Gli eventi sono il terreno della comunicazione. Oggi si sottolinea il ruolo dei social, della Bestia di Salvini, del portavoce del premier, innalzandolo ad artefice. In realtà, Rocco Casalino dipende da un processo più strutturale».

L’approccio sanitario all’epidemia doveva essere complementare a una visione sociologica che è mancata?

«Non vorrei che la mia sembrasse una critica antagonista. Anche il ruolo quasi esclusivo avuto dai virologi nell’emergenza fa parte del processo di verticalizzazione. Il Comitato tecnico scientifico è composto in un certo modo. Cardiologi, animatori e altri specialisti sono rimasti al margine. Solo ora con le autopsie si inizia a vedere che non si muore di coronavirus, ma di altre complicazioni. Se domina la virologia il corpo umano è ridotto a portatore del virus e si perde di vista una visione completa».

Come giudica il decreto Rilancio?

«La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire».

Ha visto la chat privata fra alcuni magistrati che attaccano Matteo Salvini? Quanto la cultura inquisitoria che domina nel M5s e nella magistratura può aiutare la ripresa?

«Tra Tangentopoli e post-Tangentopoli siamo diventati un Paese inquisitorio. Personalmente non amavo Francesco Saverio Borrelli, ma era un signore che aveva una storia familiare e suonava il pianoforte. Quelle espressioni fanno parte del protagonismo di magistrati che inseguono il protagonismo di Salvini. C’era anche in Borrelli, ma non in queste forme scomposte. Il degrado inquisitorio dipende dalle persone che interpretano ruoli e leggi. Non credo che potrà ostacolare la ripresa del Paese. L’Italia è meglio della magistratura che si precipita nelle Rsa nel pieno della tragedia».

Come possono sentirsi i piccoli e medi imprenditori di fronte al ricorso al prestito statale di Fca con sede nel Paese europeo a noi più ostile?

«Se si fa una società liberale e liberista si stabiliscono criteri che valgano per la richiesta Fca di oggi o per quella del Censis di domani. La Sace e la banca fanno le istruttorie tecniche e concedono il prestito in base a valutazioni oggettive. Ognuno fa il proprio mestiere. Se invece si introducono elementi politici si nega il prestito ai Benetton a causa dei morti del ponte Morandi e alla Fiat perché ha la sede in Olanda. Ma così non si gestisce più nulla».

Da cosa deriva l’eccesso di burocrazia che ci affligge? E perché siamo così impotenti nel combatterla?

«Si sottolinea la burocrazia statale, ma anche in banca e nei commissariati chiedono decine di firme. La burocrazia è il prodotto della diffidenza dell’italiano medio nei confronti del proprio simile. Se va in campagna un contadino non le parla bene del suo vicino. Moltiplichi questa diffidenza cellulare nelle relazioni più complesse, tra enti e organismi, ci aggiunga dieci anni di cultura del Vaffa, e avrà la burocrazia che ci sommerge».

Si può estendere il modello del ponte Morandi senza Codice degli appalti alla ripresa post-coronavirus?

«A Genova hanno applicato quello che a Roma si dice “famo a fidarse”. Sindaco e presidente della Regione si sono fidati, consapevoli di rischiare. Se fosse caduto un calcinaccio e qualcuno avesse aperto un’inchiesta… Non credo si possa agire in deroga per rifare le strade di Roma».

Il ponte Morandi mi ha ricordato l’Autostrada del Sole completata in anticipo di tre mesi.

«E anche il traforo del Monte Bianco, realizzato sulla spinta del conte Dino Lora Totino. Era un clima diverso, c’erano entusiasmo collettivo, gioia di vivere, voglia di crescere. Oggi non riusciamo a fare dieci chilometri di Tav. Se serve la firma del funzionario a ogni metro la gioia di vivere è finita».

In questa crisi i vecchi hanno mostrato di avere più carte di tanti giovani sprovveduti. Dopo la rottamazione è il momento di ricorrere all’usato sicuro?

«Persone come Sabino Cassese e il presidente Sergio Mattarella hanno fatto la ricostruzione e il boom economico, ma appartengono a una generazione che ha dato quello che poteva dare. Al massimo può consigliare chi deve decidere. Non però come le task force che stabiliscono i metri di distanza tra marito e moglie. Ho letto l’invito di Sapelli a coinvolgermi. Ma per far cosa?».

Il presidente della Repubblica, visto che già nel 2006 qualcuno la votò.

«Ne parleremo alla prossima intervista».

 

La Verità, 23 maggio 2020