«Che errore uniformare tutta l’Italia con i decreti»
Professor De Rita, lei ha 88 anni ma conserva lo spirito ribelle dei ventenni: niente app e niente mascherina.
«Nessuno che mi conosca direbbe che ho uno spirito ribelle. Sono un uomo tranquillo, arrivato a 88 anni camminando con passo lento verso la morte, compimento della vita. Il mio detto preferito si trova nel salmo 83: “Cresce lungo il cammino il suo vigore finché compare dinanzi a Dio in Sion”».
Era una provocazione. Capisco la difesa della privacy meno il no al dispositivo di protezione.
«Oltre al fastidio, ci sono due ragioni. La prima è che mi sembra di respirare l’anidride carbonica del mio fiato. Forse proteggerà gli altri, ma a me non pare salubre. La seconda ragione è che la mascherina fa risaltare gli occhi e quando guardo i miei coetanei, diciamo gli over 75, vedo sguardi in parte disperati e in parte inespressivi. Non voglio apparire così».
Ecco: intervistare Giuseppe De Rita vuol dire imbattersi in pensieri originali e motivati. Fondatore e presidente del Censis – il Centro studi investimenti sociali che tutti gli anni ci consegna una fotografia del sistema nervoso del Paese – romano, otto figli avuti da Maria Luisa Bari, scomparsa nel 2014, De Rita è una delle figure più lucide e autorevoli del panorama intellettuale italiano. Un grande saggio. Che, con l’eccezione della partecipazione allo staff di Ciriaco De Mita a fine anni Ottanta, ha sempre mantenuto un’equilibrata distanza dalla politica. Nonostante questo, all’elezione per la Presidenza della Repubblica del 2006 ricevette 19 voti.
Professore, è corretto il confronto di questo periodo con quello della guerra?
«Non direi. Chi lo fa non ha visto le centinaia di quadrimotori americani che sganciavano bombe sulle nostre città. O le motociclette delle SS che attraversavano Roma mitragliando ad altezza d’uomo. Quella di oggi è una paura viscida e indistinta. Perciò anche persone razionali possono non controllarla. Qualche giorno fa a Roma alle 5 del mattino si è avvertita una piccola scossa di terremoto. C’è chi è sceso affannosamente in strada, io no. Una certa paura è stata alimentata dal clima generale di emergenza. C’è stato poco “ragionamendo”, direbbe De Mita».
L’enfatizzazione del pericolo è servita a puntellare un potere fragile?
«Questa mi sembra un’esagerazione. Il fatto è che tutto il sistema italiano era impreparato. E quando si è impreparati si sbanda. La Germania ha risposto diversamente. Ha funzionato il rapporto tra i länder e lo Stato centrale, non ci sono stati problemi per le mascherine e i letti in terapia intensiva. Il muscolo ha assorbito la botta e ha permesso di controllare la paura. Noi siamo abituati ad arrangiarci giorno per giorno. È la virtù dell’Italia. Ma abbiamo copiato la Cina, dicendo che gli altri ci seguivano. Non era vero. Così, alcuni errori ne hanno innescati altri».
Il principale?
«Stare tutti insieme appassionatamente, mentre l’Italia è fatta di differenze. Non era pensabile trattare la Lombardia come la Basilicata o Bergamo come Viterbo. Per differenziare bisognava essere sicuri che la muscolatura avrebbe risposto bene. Non essendolo, abbiamo fatto norme uguali per tutti».
Siamo nella crisi più complessa della nostra epoca governati dai politici più sprovveduti della storia repubblicana?
«Come ha detto Giulio Sapelli, siamo governati da eterni disoccupati. Sarebbe interessante che qualche giornalista consultasse la Navicella parlamentare per studiare i curricula di ministri e sottosegretari e vedere cosa tornerebbero a fare se non rieletti. Ma non è tutta colpa loro».
E di chi?
«La ventata anticasta si è trasformata in lotta contro il merito e l’esperienza. Un risvolto disastroso. Quando governava la Dc c’era un lungo percorso di formazione, da vicesindaco ad assessore regionale fino a deputato. Una volta alla Camera, i primi anni si trascorrevano a imparare. Se appena arrivati si va al governo è inevitabile che i governanti siano inadeguati».
Di conseguenza?
«Il dilettantismo genera improvvisazione e semplicismo. Non si mette in quarantena una società complessa come la nostra senza tener conto della specificità di situazioni e corpi intermedi, dalla Chiesa alle filiere produttive, dalle categorie professionali ai sindacati. È come andare avanti chiudendo gli occhi per evitare di vedere il pericolo».
Vede anche lei una sovrapposizione della comunicazione sulla politica come appare da una certa strategia degli annunci?
«La pandemia ha accentuato la verticalizzazione delle decisioni. Tutto si concentra al vertice: Protezione civile, Comitato tecnico scientifico, due o tre ministri con il premier. Quando prevale l’angoscia, il potere si concentra. Il risultato è che anche il rilancio è statalizzato. Ma questo non è un meccanismo privo di conseguenze».
Quali, per esempio?
«Avrà notato che non c’è stata beneficenza privata, se si eccettua l’iniziativa di Gaetano Caltagirone in favore del Gemelli e dello Spallanzani. Per il resto, niente appelli dei giornali o della Chiesa. Tutta la beneficenza è andata allo Stato attraverso l’app della Protezione civile».
Qualcuno veramente c’è stato… E la prevalenza della comunicazione?
«Verticalizzando e statalizzando si crea una distanza che si colma attraverso gli eventi. I famosi decreti, i provvedimenti poderosi. Gli eventi sono il terreno della comunicazione. Oggi si sottolinea il ruolo dei social, della Bestia di Salvini, del portavoce del premier, innalzandolo ad artefice. In realtà, Rocco Casalino dipende da un processo più strutturale».
L’approccio sanitario all’epidemia doveva essere complementare a una visione sociologica che è mancata?
«Non vorrei che la mia sembrasse una critica antagonista. Anche il ruolo quasi esclusivo avuto dai virologi nell’emergenza fa parte del processo di verticalizzazione. Il Comitato tecnico scientifico è composto in un certo modo. Cardiologi, animatori e altri specialisti sono rimasti al margine. Solo ora con le autopsie si inizia a vedere che non si muore di coronavirus, ma di altre complicazioni. Se domina la virologia il corpo umano è ridotto a portatore del virus e si perde di vista una visione completa».
Come giudica il decreto Rilancio?
«La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire».
Ha visto la chat privata fra alcuni magistrati che attaccano Matteo Salvini? Quanto la cultura inquisitoria che domina nel M5s e nella magistratura può aiutare la ripresa?
«Tra Tangentopoli e post-Tangentopoli siamo diventati un Paese inquisitorio. Personalmente non amavo Francesco Saverio Borrelli, ma era un signore che aveva una storia familiare e suonava il pianoforte. Quelle espressioni fanno parte del protagonismo di magistrati che inseguono il protagonismo di Salvini. C’era anche in Borrelli, ma non in queste forme scomposte. Il degrado inquisitorio dipende dalle persone che interpretano ruoli e leggi. Non credo che potrà ostacolare la ripresa del Paese. L’Italia è meglio della magistratura che si precipita nelle Rsa nel pieno della tragedia».
Come possono sentirsi i piccoli e medi imprenditori di fronte al ricorso al prestito statale di Fca con sede nel Paese europeo a noi più ostile?
«Se si fa una società liberale e liberista si stabiliscono criteri che valgano per la richiesta Fca di oggi o per quella del Censis di domani. La Sace e la banca fanno le istruttorie tecniche e concedono il prestito in base a valutazioni oggettive. Ognuno fa il proprio mestiere. Se invece si introducono elementi politici si nega il prestito ai Benetton a causa dei morti del ponte Morandi e alla Fiat perché ha la sede in Olanda. Ma così non si gestisce più nulla».
Da cosa deriva l’eccesso di burocrazia che ci affligge? E perché siamo così impotenti nel combatterla?
«Si sottolinea la burocrazia statale, ma anche in banca e nei commissariati chiedono decine di firme. La burocrazia è il prodotto della diffidenza dell’italiano medio nei confronti del proprio simile. Se va in campagna un contadino non le parla bene del suo vicino. Moltiplichi questa diffidenza cellulare nelle relazioni più complesse, tra enti e organismi, ci aggiunga dieci anni di cultura del Vaffa, e avrà la burocrazia che ci sommerge».
Si può estendere il modello del ponte Morandi senza Codice degli appalti alla ripresa post-coronavirus?
«A Genova hanno applicato quello che a Roma si dice “famo a fidarse”. Sindaco e presidente della Regione si sono fidati, consapevoli di rischiare. Se fosse caduto un calcinaccio e qualcuno avesse aperto un’inchiesta… Non credo si possa agire in deroga per rifare le strade di Roma».
Il ponte Morandi mi ha ricordato l’Autostrada del Sole completata in anticipo di tre mesi.
«E anche il traforo del Monte Bianco, realizzato sulla spinta del conte Dino Lora Totino. Era un clima diverso, c’erano entusiasmo collettivo, gioia di vivere, voglia di crescere. Oggi non riusciamo a fare dieci chilometri di Tav. Se serve la firma del funzionario a ogni metro la gioia di vivere è finita».
In questa crisi i vecchi hanno mostrato di avere più carte di tanti giovani sprovveduti. Dopo la rottamazione è il momento di ricorrere all’usato sicuro?
«Persone come Sabino Cassese e il presidente Sergio Mattarella hanno fatto la ricostruzione e il boom economico, ma appartengono a una generazione che ha dato quello che poteva dare. Al massimo può consigliare chi deve decidere. Non però come le task force che stabiliscono i metri di distanza tra marito e moglie. Ho letto l’invito di Sapelli a coinvolgermi. Ma per far cosa?».
Il presidente della Repubblica, visto che già nel 2006 qualcuno la votò.
«Ne parleremo alla prossima intervista».
La Verità, 23 maggio 2020