Tag Archivio per: centrodestra

«Mattarella si è schierato dalla parte di Letta»

Sinistra radicale. Sinistra storica. Storico di sinistra. Biografo di Antonio Gramsci. Uomo intransigente. Candidato sindaco di Torino con liste di sinistra sinistra (2,5% di consensi). Ispiratore della petizione contro lo schwa, la vocale inclusiva. Pronto a interrompere la collaborazione con La Stampa per le posizioni assunte sul Donbass dal quotidiano diretto da Massimo Giannini. È Angelo D’Orsi, salernitano, torinese d’adozione, frequente ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, su La7.

Professore, cosa la fanno pensare le prime elezioni settembrine della storia repubblicana?

«Sono un modo di forzare la situazione da parte del presidente della Repubblica, inducendo a votare in una certa direzione».

In che senso?

«Si vuole affermare che dopo Mario Draghi c’è il diluvio. Una certa fretta ha impedito di esperire la possibilità di formare un nuovo governo».

Sergio Mattarella aveva questa alternativa?

«In teoria, sì. Poteva verificare l’esistenza di una maggioranza diversa o chiedere delle modifiche».

Con un Parlamento logorato e scosso, le critiche sarebbero state ancora più violente.

«Un tentativo avrebbe costretto le forze politiche a responsabilità più esplicite».

E l’incombenza della legge finanziaria e degli impegni per il Pnrr?

«Sono giustificazioni oggettive, mi rendo conto. Ma vedo anche il tentativo di enfatizzare il ruolo simbolico di Draghi».

Come definirebbe questa crisi?

«È una crisi organica, nessuna delle forze in campo riesce a sconfiggere l’altra. Sono le crisi più pericolose nelle quali spunta l’uomo della Provvidenza».

Chi ne esce peggio?

«Ne escono tutti piuttosto male. Soprattutto il presidente del Consiglio che ha detto più o meno: “O me, o morte”. La risposta della destra lo ha spiazzato. Il primo sconfitto è Draghi perché al Senato ha sottolineato che era lì perché gli italiani lo chiamavano».

Più di Mattarella?

«Da qualche tempo Mattarella ha dimenticato il ruolo di supremo arbitro della Costituzione. Agisce da attore a tutto campo, che porta avanti la linea del Pd di Enrico Letta».

Critica durissima.

«È ciò che vediamo. Draghi oblitera il Parlamento e Mattarella lo lascia fare».

Però adesso si parla di Draghicidio.

«In realtà, Draghi stesso si era reso conto di non riuscire e non volere gestire il rapporto con i partiti. La sua replica era un invito a togliergli la fiducia. Un presidente del Consiglio che avesse voluto ottenerla non avrebbe usato quell’aggressività».

Guidato da Conte il M5s da movimento anticasta è diventato un laboratorio di bizantinismi?

«I 5 stelle sono un grande mistero. Hanno il record di tradimenti della storia repubblicana. Parlo di tradimenti della loro natura e dell’identità. Se Conte facesse un suo partito non avrebbe nulla a che vedere con i 5 stelle dell’origine».

Di Letta che cosa si può dire?

«È la tragedia di un uomo ridicolo. Diventando più bellicista del più bellicista dei leader europei, ha dimenticato la tradizione del partito. Nei giorni della crisi i tratti ridicoli sono riemersi quando ha continuato a dire che si lavorava alla stessa maggioranza, mentre era evidente a tutti che non si poteva. Letta difetta di capacità di lettura degli eventi e non è bastato a dargliela l’insegnamento all’Ecole Sciences-Po, che è il meno qualificato tra gli istituti di Scienze politiche parigini».

Il centrodestra si è ricompattato sulla linea di Giorgia Meloni?

«Restando all’opposizione ha calamitato tutta la limatura di ferro della sua area».

Ma i moderati come Mariastella Gelmini e Renato Brunetta se ne vanno.

«È un’evoluzione chiarificatrice. Personalmente non approvo le espressioni centrodestra e centrosinistra. Questa finta fusione di centro e destra o di centro e sinistra intorbida le acque e produce scissioni. Il centro tende a fagocitare le ali estreme che estreme non sono. Il mio maestro Norberto Bobbio mi ha insegnato che la vera libertà democratica è dalle coercizioni esterne e anche la possibilità positiva di scegliere tra opzioni diverse e divergenti».

In questa crisi c’è chi intravede la mano di una Russian connection: cosa ne pensa?

«Che sia una fantozziana boiata pazzesca».

Gli italiani come escono da questa crisi?

«Sono disinteressati a ciò che avviene nel palazzo. Non dobbiamo rallegrarcene, ma dobbiamo preoccuparci del fatto che le istituzioni non fanno nulla per avvicinarsi alle loro esigenze».

Su quali temi potrebbero farlo?

«Sul fatto che questa guerra non ci riguarda. Sul rifiuto da parte della maggioranza dei cittadini dell’aumento delle spese militari, soprattutto dopo una pandemia che, per altro, non è finita. In questa situazione aumentare le spese per le armi vuol dire togliere denaro ad altre necessità. Oggi nel servizio sanitario nazionale i tempi di attesa sono biblici, per un’ecografia si aspettano dai 300 ai 900 giorni. Questo dovrebbe essere in cima all’attenzione dei nostri governanti. Il Parlamento deve tornare a essere il cuore pulsante della democrazia».

A proposito di Parlamento, anche a lei, storico del fascismo, nei giorni scorsi pareva di trovarsi al cospetto di un uomo della Provvidenza?

«È l’impressione che abbiamo avuto in tanti. Lo schema dell’intervento di Draghi ha ricordato il discorso del “bivacco di manipoli” di Benito Mussolini. È passato un secolo ma, volgarità a parte, lo schema è lo stesso: o mi date tutto il potere oppure è la catastrofe. Un secolo fa era il caos. Mussolini insulta il Parlamento che non solo lo applaude, ma gli vota la fiducia. Draghi ha ottenuto 18 interruzioni per applausi da un Parlamento che ha regolarmente bypassato».

Adesso si parla dell’agenda Draghi: l’ex governatore della Bce potrà rispuntare?

«Sarebbe il draghismo senza Draghi. L’Italia è un paese pieno di sorprese, Draghi ha mostrato un’ambizione personale che non sospettavo ed è un uomo dei poteri forti. Questi elementi portano a non escludere di vederlo coinvolto in altri progetti. Anche se oggi la sconfitta è totale».

Gli appelli delle categorie, di una fetta di sindaci, dell’associazionismo e persino dei clochard di che cosa sono sintomo?

«Sono la dimostrazione del passaggio dalla post-democrazia al totalitarismo morbido, al neo-leaderismo plebiscitario. Mi ha turbato che quasi 2000 tra sindaci e presidenti di Regioni abbiano firmato un appello pro Draghi. Anche questo è stato un vulnus alle istituzioni. Aveva ragione la Meloni, sono state trasformate in succursali di partito».

Draghi ne è stato sedotto?

«Ha detto che era lì perché il popolo italiano lo aveva chiamato. Invece, i sindaci e le Regioni non sono il popolo italiano, ma rappresentanze istituzionali che non avrebbero dovuto entrare a piedi uniti nel piatto di una crisi. Ha cavalcato questo movimento eterodiretto, mentre avrebbe dovuto ignorarlo non solo per dimostrarsi più signore, ma più corretto istituzionalmente».

Qual è la sua opinione sul governo Draghi?

«Ha fatto politiche antipopolari, favorendo piccoli gruppi di privilegio, un 5% del totale della popolazione. Il restante 95, non parlo solo degli operai o dei rider ma della massa di impiegati, insegnanti, artigiani, piccoli imprenditori, patisce le conseguenze della crisi economica potenziata dalle problematiche della pandemia. La quale ha aumentato la distanza tra ricchi e poveri non solo in termini economici, ma anche di status sociale e di possibilità di reagire ai colpi della sorte. Ora, con la guerra, su questa situazione si aggiungono gli effetti delle sanzioni alla Russia che sono, di fatto, sanzioni alla popolazione italiana».

Viviamo in una bolla mediatica fatta di appelli, narrazione univoca, tg monoliticamente schierati?

«Siamo in una situazione inedita, mai visto un tale unanimismo. Ti consentono di parlare e dissentire, ma poi le minoranze vengono sbeffeggiate, irrise, messe all’angolo. Nel suo La democrazia in America Alexis de Tocqueville scrive che le minoranze devono avere la possibilità di diventare maggioranze. Oggi siamo al paradosso che la maggioranza della cittadinanza è contraria all’impegno militare, ma questa maggioranza non ha rappresentanza da nessuna parte».

Che giornali legge al mattino?

«Benedetto Croce diceva che comprava i giornali al mattino e gli passa la voglia di leggere perché erano tutti ugualmente instupiditi. La Stampa, La Repubblica e Il Corriere sembrano un unico giornale. Anche Il Manifesto mi ha deluso. Dovrei smettere come dice Croce. O cercare alcune cose interessanti sul Fatto quotidiano, su Avvenire, Domani e anche La Verità benché lo consideri un giornale di destra. Quotidiani minori, fuori dal coro».

L’insistenza sulle varie emergenze come la crisi finanziaria, la pandemia, la guerra, il clima, serve a giustificare il ricorso a premier tecnici anziché a governi politici?

«Se la politica si rivela inutile c’è sempre un banchiere a cui ricorrere. Ma non tutti i banchieri sono uguali. Anche Luigi Einaudi era un banchiere, ma aveva una cultura politica di primissimo livello».

Adesso però si va a votare, chi arriva meglio al 25 settembre?

«La Meloni, anche se non credo che vincerà. Perché nascerà un raggruppamento in cui il Pd catalizzerà le forze minori per sconfiggerla. Però chi parte meglio è lei perché è stata coerente rimanendo fuori dal governo».

Quindi concorda con osservatori come Luca Ricolfi, Paolo Mieli e Alessandra Ghisleri che dicono che non è scontata la vittoria del centrodestra?

«La maggioranza è un centro mobile che si sposta verso sinistra o verso destra a seconda delle circostanze. Un grande polipo che acchiappa quello che può all’insegna dell’opportunismo. Questo perché le forze politiche non hanno un’ideologia forte, ma prevale la fluidità. O la liquidità di cui parla Zygmunt Bauman».

Dopo la tumulazione del campo largo ora Letta si appella agli «occhi della tigre» di Rocky.

«Cosa non si fa per guadagnare attenzione, dietro la seriosità del personaggio emerge la cialtroneria».

Se la destra vincesse saprà governare fronteggiando i poteri forti interni e internazionali?

«La risposta è no. Qualunque risultato ci sia prevedo che anche la prossima legislatura non arriverà al termine naturale».

Non resta che emigrare?

«Temo di sì. Mi sento straniero in patria».

 

La Verità, 23 luglio 2022 

 

 

«Se il premier punta al Colle, elezioni inevitabili»

Giulio Tremonti è stato ministro delle Finanze e dell’Economia nei governi Berlusconi. L’ultimo suo libro, edito da Solferino, s’intitola Le tre profezie – Appunti per il futuro dal profondo della storia.

Professor Tremonti, sul futuro del Paese si staglia l’elezione del presidente della Repubblica: come andrà a finire?

«Sulla elezione del Capo dello Stato si stanno moltiplicando articoli e memorie, libri e aneddoti, tutti comunque riferiti al passato, alla Prima e alla Seconda repubblica, ovvero riferiti a un passato felice o semi-felice che non c’è più. Oggi la realtà è diversa e drammatica ed è quella che è stata descritta con terribile lucidità da Rino Formica: “Un ciclo si è chiuso. Oggi c’è un Parlamento decomposto e incontrollabile”».

Insomma, finirà male?

«Bertolt Brecht scriveva: “Beato il Paese che non ha bisogno di eroi”. Oggi è pure peggio, data l’assenza di eroi. È per questo che pare diretta al naufragio la nave della “concordia” varata magicamente per notturno artificio nel febbraio scorso. Un naufragio nelle torbide acque della politica nazionale, e fra poco nelle tempestose acque di quella internazionale. Con una specifica: è un naufragio non per tragedia, quasi per commedia».

In che senso?

«Si sta ripetendo la storia dell’altra Concordia, la nave da crociera che naufraga dopo un lunghissimo inchino, con l’astuta discesa del suo comandante. Senza che ci sia un ufficiale che invita al rispetto del dovere, intimando di tornare a bordo, nel pieno di quello che era e che è ancora un possibile naufragio».

Dopo aver tentato di scendere, il comandante che tornasse a bordo godrebbe ancora di autorevolezza e di carisma?

«Non credo alla discesa, credo al senso di responsabilità».

In assenza di eroi e dentro un quadro così fosco, a cosa possiamo appellarci?

«Nella Repubblica di Platone la politica è definita come la forma superiore della tecnica perché per fare politica devi conoscere insieme la struttura della nave, l’equipaggio, i fondali, le correnti, i venti e le stelle. Semplificando, oggi la nave è il Palazzo, l’equipaggio è il popolo, il resto, i fondali, i venti, le correnti e le stelle sono il mondo circostante».

Cominciamo dal Palazzo.

«Ci sono tre palazzi: Montecitorio, Palazzo Chigi e Quirinale. Nel fare le elezioni del presidente della Repubblica, il primo palazzo, il Parlamento, che rappresenta la volontà popolare, è stato sempre centrale. Il secondo palazzo, il governo, è sempre stato quasi del tutto irrilevante e, comunque, mai in concorrenza alternativa con il terzo».

Come invece sembra accadere oggi?

«Speriamo di no».

Passiamo al popolo.

«Nella nostra storia repubblicana è stata sempre rispettata la centralità del popolo, ma in questa fase c’è l’impressione di una marginalizzazione del popolo da parte del palazzo. Si ha la sensazione che non sia sovrano, ma sovranizzato».

Può spiegare?

«Giorno dopo giorno aumenta l’evidenza, e non solo nei sondaggi, delle paure e delle sofferenze crescenti che investono sempre più larghi strati della popolazione. Contemporaneamente, c’è la sensazione di una sovrana indifferenza».

Dove la vede?

«Gli esempi non mancano e crescono di giorno in giorno. Da ultimo si riducono le tasse a chi ha di più e non ha chi ha di meno. Le mascherine sono un costo imposto a tutti, anche senza sgravi per chi ha di meno. I rincari non sono solo sulle bollette dell’energia, ma ormai su tutto il carrello della spesa. Così che emerge dal remoto passato la figura del “caro pane”. Si continua a parlare di scostamento di bilancio, ma la parola scostamento serve a occultare la realtà di un pubblico indebitamento sempre meno sostenibile».

Poi ci sono i condizionamenti esterni, i fondali e le correnti…

«Sullo scenario internazionale vediamo che la storia, che secondo i globalisti doveva essere finita, sta tornando con il carico degli interessi arretrati. E sta tornando, accompagnata dalla geografia lungo un arco di crisi che va dal Pacifico fino ai confini dell’Europa. Dalla pandemia che continua fino all’emersione dei nuovi conflitti. Nell’euforia della cosiddetta ripresa si evocano gli anni Venti, gli anni della Montagna incantata nella quale Thomas Mann prefigurava: “Il denaro sarà imperatore, ma solo fino alla completa demonizzazione della vita”. La Montagna è del 1924, la crisi finanziaria del ’29 è venuta subito dopo. Dopo quella del 2008 si è pensato che sono stati confusi la causa con gli effetti. Si è fatto girare l’helicopter money con il whatever it takes che non è stato un pronto soccorso, ma una lunga degenza. Si è creata e si sta ancora creando una massa infinita e incontrollabile di finanza».

A pagare le conseguenze sarà la nostra Italia?

«L’alternativa non è tra chi va al Quirinale e chi va al governo, ma tra questo governo e le elezioni».

Nessuno parla di elezioni.

«Ma nel caso in cui il comandante scendesse dalla nave, è fortemente improbabile che un governo composto da para-zombie possa subentrare all’attuale».

Che cosa intende per governo di para-zombie?

«È fortemente improbabile che, per quanto capaci, i ministri attuali possano sopravvivere in una Zombieland politica, interna ed esterna».

Qual è il suo giudizio sul governo attuale?

«Nel discorso sulla fiducia pronunciato in Senato il 17 febbraio scorso gli obiettivi erano tre: la vaccinazione come mezzo per l’uscita dalla pandemia, il Pnrr e soprattutto le grandi e necessarie riforme, per le quali si citava Cavour».

Il suo giudizio?

«Oggi è difficile sostenere che la pandemia è a termine. Mi pare particolarmente difficile sostenerlo osservando il labirintico, caotico, apparato dei quasi divieti e quasi permessi che si stanno sviluppando sulla Gazzetta ufficiale. La formula quasi era quella tipica di Bisanzio. La speranza è che anche il virus si metta a leggere la Gazzetta ufficiale».

Ma come? L’altro giorno il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta ha detto che l’Italia è il modello seguito da tutti, a cominciare dal green pass.

«Omissis».

Passando al Piano nazionale di ripresa e resilienza?

«I 51 punti del Pnrr sono attualmente e, per la verità, piuttosto confusamente, solo sulla carta. In questo contesto, oggi e domani, la forza del governo dovrà prevalere sulla triplice burocrazia: europea, nazionale e regionale. E se è difficile per questo governo, tanto più sarà difficile per un altro governo. Per quanto riguarda le riforme Cavour style vale lo stesso».

Il comandante vuole scendere anche perché ritiene insubordinato l’equipaggio?

«Nella Terza repubblica francese il pubblico si beava per il fatto che i leoni divoravano il domatore. In questa nostra repubblica lo scenario è meno cruento, ci sono modi diversi e per certi versi più subdoli per creare difficoltà al domatore».

Intanto c’è da risolvere il problema del terzo palazzo, il Quirinale.

«La sovranità appartiene al popolo. Come detto, dev’essere chiaro che l’alternativa è tra questo governo e le elezioni».

Il centrodestra sta rischiando di sprecare l’occasione di decidere il prossimo Capo dello Stato?

«Anche su questo omissis».

C’è chi si preoccupa che il futuro presidente sia una donna.

«Inviterei a rileggere La Repubblica di Platone dove le qualità politiche si valutano oggettivamente e non per gender. D’altra parte, nel G7 di Carbis Bay del maggio scorso, c’è ripetuto l’invito a superare lo status sessuale auspicandone la fluida mutevolezza come ai tempi di Eliogabalo: uomo di giorno, donna di notte. Naturalmente, sto scherzando».

È preoccupante lo scenario d’indifferenza che sottolinea tra la situazione della popolazione e le priorità dei palazzi.

«Le forze politiche – forze, si fa per dire –  sono concentrate sul Quirinale. Tuttavia, un vero grande problema rischia di essere sottovalutato. È l’emersione, più che prevedibile già prevista, di forme di protesta, che vanno ben oltre i no-vax, pronte a confluire in un movimento simile a quello che portò alla nascita dei Cinque stelle. Dal vaffa al vax, è una forza attorno al 5%, che si sta saldando con sofferenze e paure crescenti e che potrà erodere e spiazzare gli schemi politici convenzionali».

Se si andasse davvero a elezioni e il centrodestra le vincesse, dopo un governo come quello attuale pensa che riuscirà a prendere le redini del Paese e altri poteri interni o internazionali non lo impediranno?

«Credo che ci troviamo di fronte a un eccesso di retorica provinciale sulle cancellerie europee. Per l’esperienza che ho, sono stati più forti i traditori interni che le pressioni esterne. L’impegno per la chiamata dello straniero l’abbiamo già visto all’opera nel 2011. E non è stato per il bene dell’Italia. In quell’anno ero il presidente dei ministri del Tesoro del Ppe, la stragrande maggioranza. Il colpo non è venuto dall’Europa, ma dai “patrioti” italiani. È così, con la chiamata dello straniero, che arrivammo al governo Monti».

C’è da temere che l’Europa consenta sempre meno margini di autonomia alle nazioni come mostra il caso polacco?

«Dopo una lunga fase di errori, l’Europa si è messa dal lato giusto della storia fronteggiando con gli Eurobond la gestione della pandemia. Se posso, gli Eurobond sono stati una proposta italiana fatta nel 2003 e poi ancora nel 2010».

Qual è il lato giusto della storia?

«Gli Stati uniti d’America ci hanno messo due secoli, con in mezzo una tragica guerra, per arrivare a uno Stato federale. L’Europa ha solo 70 anni e può evolvere verso una unione federale solo passando attraverso una crescente confederazione degli Stati nazionali. Questo è nei Trattati europei che, diretti verso l’Unione, presuppongono ancora le identità e le costituzioni nazionali. Nella cerimonia per il cambio ai vertici della Bce nel 2019 i politici stavano in platea ad applaudire estasiati. Avrebbe visto Helmut Kohl, Charles de Gaulle, Francesco Cossiga, Alcide De Gasperi, Robert Schuman fare altrettanto? Il futuro per un’Europa politica è nella politica e non nella finanza».

 

 La Verità, 8 gennaio 20221

 

«L’Italia sta con Padre Pio, ma comanda la Cirinnà»

È un bipolarismo culturale prima ancora che politico quello che Pietrangelo Buttafuoco tratteggia in questa intervista, fornendo una chiave di lettura tridimensionale allo stato delle cose. L’Italia degli anni Venti è scavata dalle dicotomie: uomini o caporali, Padre Pio e la Cirinnà, salesiani o gesuiti. Libero da acquartieramenti vincolanti, lo scrittore catanese non ha peli che ne ingombrino la parlata. Sono cose che passano, il romanzo in uscita da La nave di Teseo – «un divorzio all’italiana, ambientato nella Sicilia del dopoguerra, che si risolve in un Faust al femminile» – susciterà di certo polemiche e gridolini di sdegno nel bel mondo politicamente corretto. Ma lungi dal preoccuparsene, Buttafuoco se la ride. Come fa, in sottofondo, mentre chiacchieriamo da qui in avanti.

Caro Pietrangelo, la prima indicazione che le amministrative ci hanno consegnato è che non si voterà fino al 2023?

«Il dato più evidente è stato il non voto più che il voto. Il vero bipolarismo è quello di Esopo tra il topo di città e il topo di campagna».

Il quale non è andato alle urne.

«Ribadendo l’annoso problema che la maggioranza silenziosa non ha rappresentanza politica e culturale. Questo, salvo eccezioni. L’ultima delle quali è stato Silvio Berlusconi. Che, all’apice, veniva massacrato allo stesso modo in cui abbiamo visto svillaneggiati Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Con il grande svantaggio di non avere, loro due, la forza del Cav; non ultima quella di pagare gli avvocati».

Sta di fatto che lo schieramento che più voleva anticipare le politiche ha preso una batosta.

«Da quando chiedevano le elezioni è passato un lasso di tempo che ha svuotato l’entusiasmo. Queste amministrative sono state un secondo Papeete».

Addirittura?

«Si fosse votato quando toccava avrebbero stravinto. Invece, il patrimonio si è depauperato».

Anche il Pd non vuole affrettare i tempi perché il M5s è in crisi e la coalizione è fluida.

«Siamo di fronte a un groviglio di contraddizioni. La prima è che, da padrone del sistema, il Pd ha l’abilità di trarre vantaggi da ogni situazione. All’inizio Draghi era visto come fumo negli occhi. I suoi capi speravano nel Conte tris, poi erano vedove di Conte, infine si son fatti piacere Draghi, che ora sembra roba loro».

La seconda?

«All’esordio la Lega era il pilastro di Draghi. Giancarlo Giorgetti gli sedeva accanto come un fratello. Ma pure in questo caso, il vantaggio si è capovolto. E lo stesso Draghi ci ha messo del suo».

Cioé?

«Ha sentito il richiamo delle sirene della rispettabilità sociale, tanto che non ha fatto l’auspicato cambio di passo tenendosi Roberto Speranza, Luciana Lamorgese e perfino il reddito di cittadinanza. Anche l’abbraccio con Maurizio Landini si trasformerà nel suo contrario, sarà Draghi a dover abbracciare Landini. È l’antica regola italiana: nella difficoltà ci si butta a sinistra».

Anche se adesso sta rinascendo il centro?

«Vedremo. Temo che, seguendo il solito richiamo, Carlo Calenda possa replicare la parabola di Mario Segni. Quando Berlusconi gli offrì il ruolo di leader dei moderati, Mariotto rinunciò per non inimicarsi il sistema. Invece, se vuoi vincere devi intercettare la maggioranza degli italiani che è naturaliter antisistema. Nel senso che sono più uomini che caporali».

Chi sono i caporali oggi?

«Gli stessi di ieri. Quelli che si danno quest’aria di compostezza presto indosseranno le uniformi richieste dall’epoca. I trentenni meravigliosi della task force di Palazzo Chigi, si sarebbero scapicollati con Bettino Craxi e prima con Amintore Fanfani, Alcide De Gasperi e Giuseppe Bottai. Chi sosteneva il Borbone è già pronto per il Savoia, per la camicia nera, il fazzoletto rosso, lo scudocrociato, la falce e martello e ora per sventolare la bandiera dell’Europa. Il codice del potere è sempre lo stesso, cambia solo l’uniforme».

I burocrati più longevi dei ministri?

«L’originalità italiana è nel trasformismo del potere narrato da I Viceré di Federico De Roberto e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa».

Anche il Pd ha interesse a mantenere Supermario dov’è sperando di piazzare uno dei suoi al Quirinale?

«Dipende dalla capacità di tenuta del centrodestra che, sulla carta, ha un vantaggio numerico. E questo anche considerando il fatto che, a dispetto di Berlusconi, i ministri di Forza Italia sono più affini al Pd che al resto del centrodestra e potrebbero, dunque, votare Paolo Gentiloni, il vero candidato dem. Tuttavia, i margini per giocarsela ci sono. Bisogna solo individuare una figura di pacificazione. E trarre insegnamenti dai due Papeete. In queste amministrative sono stati commessi diversi errori».

La crescita di Fratelli d’Italia ha bloccato la svolta moderata di Salvini?

«In politica c’è un momento in cui un leader dice: basta, voti non me ne servono più. Il caso di Meloni è particolare perché il successo è suo, non di Fdi. Ricordiamoci che parliamo di granai pieni, non di carestie. Ma il granaio pieno va distribuito, altrimenti marcisce. L’acutezza dell’establishment è stato far tenere il granaio chiuso e marcire il consenso».

Prendendo qualche grande città il centrodestra ne avrebbe messo a frutto una parte?

«La cagnara sul fascismo ha spaventato il popolino. È stato un gigantesco pizzino per dire: “Voi la coda non la muovete”. Sì, il candidato di Roma era debole, ma il dossieraggio cui si sono prestate autorevoli testate e la quasi totalità dell’informazione tv ha paralizzato i topi di campagna».

La batosta è stata determinata dalla campagna sul fascismo più che dai candidati sbagliati?

«Tutto insieme. Senza quella cagnara, a Torino il centrodestra avrebbe vinto. Il grande centro dei moderati lo faranno grazie a Forza nuova che fa il gioco del Pd».

Come ha evidenziato a suo modo @LefrasidiOsho. Che idea ti sei fatto della tempistica delle inchieste?

«Mi affido all’arguzia di Giulio Andreotti: a pensar male ci si azzecca».

Vince il centrodestra moderato: conseguenze?

«Resta attuale la strategia dell’armonia di Pinuccio Tatarella. Dare visibilità a tutte le sfumature, il consenso si costruisce in un caravanserraglio aperto. Se non ci si impegna a dare un destino politico e culturale alla maggioranza degli italiani si costringe il Pd a governare».

Il consenso si costruisce nel dibattito culturale, lontano dalle urne?

«Faccio un esempio. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza degli italiani ami Padre Pio e ciò che rappresenta. Invece, grazie a un’accorta regia, sembra che stia più a cuore la cultura della Cirinnà. Vuoi un altro esempio?»

Prego.

«Ogni volta che si deve nominare una persona autorevole per i destini del Paese tutti citano Emma Bonino, quando sappiamo bene che per i padri di famiglia e la gente semplice che lavora è una figura inesistente. Certi culti vivono solo nel racconto dei giornali e nei palinsesti tv».

La pandemia ha bocciato populismi e politica di pancia e promosso competenza e pragmatismo?

«La pandemia è un’occasione per mantenere lo status quo e neutralizzare dissenso e spirito critico. Il mondo occidentale è una grande sala d’attesa dove si passa da un’emergenza all’altra. Esco dalla metropolitana a Piazza del Popolo e vengo fermato da una volante che mi chiede il certificato verde: emergenza sanitaria. In Via del Corso m’imbatto nei blindati della polizia: emergenza terroristica. 100 metri dopo trovo uno che chiede l’elemosina, emergenza finanziaria. Quando penso che tre bastino, sullo smartphone mi vedo recapitare un video di Greta Thunberg con l’emergenza climatica».

Finirà come ha ipotizzato Paolo Mieli sul Corriere della Sera, cioè si faranno «i conti senza il voto» per adeguarsi alla «formula Ursula»?

«Conoscendo il senso dell’umorismo di Mieli, immagino che volesse rifarsi alla Modesta proposta di Jonhatan Swift: ingrassare i bambini denutriti per farli mangiare ai ricchi».

Fuor di metafora?

«Si toglie il voto ai “deplorevoli», come li ha chiamati Hillary Clinton, inadatti a gestire la cosa pubblica. Mieli è allievo di Renzo De Felice, studioso di Mussolini, per il quale le elezioni erano “ludi cartacei”».

Ha lanciato il sasso e nascosto la mano o no?

«Non dimenticare La dissimulazione onesta di Torquato Accetto, formula molto gesuitica. Un’altra dicotomia italiana è quella dei salesiani massacrati dai gesuiti. Ricordiamoci che Berlusconi è un allievo dei salesiani mentre Draghi lo è dei gesuiti».

La quadratura sarebbe il primo al Quirinale e l’altro a Palazzo Chigi?

«È dal 1641, anno in cui viene stampata La dissimulazione onesta, che i gesuiti orchestrano i giochi. Perciò, come diceva Ludwig Wittgenstein: “Di quel che non si può parlare si deve tacere”».

La terza indicazione rafforzata dalle amministrative è che per governare serve il benestare dell’Europa?

«In un’ottica provinciale sì. Oggi il gioco con la posta più alta si è trasferito nell’oceano Pacifico, dove Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia fronteggiano la Cina».

Come finirà il braccio di ferro con la Polonia?

«Sula Polonia non può gravare una pregiudiziale storica come sull’Italia o la Germania. I polacchi hanno fronteggiato i due moloch del Novecento. E hanno alle spalle il mito fondante di Karol Woytjla, mentre l’Unione europea segue la moda passeggera di Bergoglio».

Perché se siamo un Paese in prevalenza moderato il partito del sistema è il Pd?

«Perché ha avuto l’astuzia gesuitica d’innestarsi nella dissoluzione apparente delle due chiese del regime partitocratico, il Pci e la Dc. Per fare carriera i figli di buona famiglia devono bazzicare quelle stanze».

Perché la cultura è in mano alle élite di sinistra?

«Perché purtroppo la Chiesa è stata politicamente complice dei suoi persecutori».

Giudizio molto duro.

«Ma vero. Se chiacchieri con un alto prelato non ti parla di Dio, ma dell’etica. Se chiedi al cattolico medio il nome di un filosofo ti cita Norberto Bobbio e non l’unico grande filosofo che abbiamo avuto, Augusto Del Noce. Faccio quest’esempio apposta, perché avevano le aule confinanti all’università di Torino».

Finirà che il centrodestra resterà digiuno mentre la sinistra famelica «ha già il tovagliolo al collo e si papperà un’altra volta il Quirinale», come teme Maurizio Gasparri?

«Ma certo, si prenderanno tutto».

 

La Verità, 23 ottobre 2021

«La strada per il Colle passa dal centrodestra»

Patti chiari e intervista lunga, Bruno Vespa è un maestro di ospitalità che sa mettere a proprio agio l’interlocutore invitato nell’accogliente casa di Cortina d’Ampezzo dove, come tutti gli anni ad agosto, l’ex direttore del Tg1 e conduttore di Porta a porta, la Terza camera del Paese, trascorre un paio di settimane di vacanza. I patti sono che non si parla di televisione e di Rai, ma di politica e del suo Quirinale – Dodici presidenti tra pubblico e privato (Rai Libri), ora che è iniziato il semestre bianco che porterà alla scelta del successore di Sergio Mattarella (sé medesimo?) nel prossimo mese di febbraio.

A tutte le elezioni del presidente della Repubblica il candidato più accreditato viene giubilato. È successo a Giovanni Spadolini, Giuliano Amato, Franco Marini, Massimo D’Alema, Romano Prodi…

«Tranne che a Francesco Cossiga, sul quale funzionò il patto di ferro stabilito in precedenza tra Democrazia cristiana e Partito comunista».

Stavolta a chi toccherà?

«A nessuno perché ancora non c’è un candidato esplicito. Ci sono tanti aspiranti coperti, ma nessuno si scopre per non esser costretto a dire di esser stato giubilato».

Parlando di candidati coperti, anche lei, come si legge nel libro, ha rischiato di correre a sua insaputa.

«Quello è un fatto divertente. Silvio Berlusconi disse a Matteo Renzi che siccome, a suo avviso, conosco bene l’Italia… “perché non eleggiamo lui?”. Era solo una battuta, che fu Renzi a riferirmi».

Anche il patto del Nazareno fu tradito quando Renzi estrasse dal cilindro Sergio Mattarella. Come giudica il suo settennato?

«Mattarella è uno dei presidenti più amati, forse il più silenzioso di tutti. Ha incaricato tre maggioranze diverse in tre anni, muovendosi bene in momenti delicati. Soprattutto in occasione della formazione del primo governo Conte e in quella della mancata nascita del Conte ter».

Anche la crisi dell’agosto 2019 non è stata uno scherzo.

«No. Ma la maggioranza imperniata su M5s e Pd è stata una scelta più facile, tant’è vero che se n’era già parlato dopo il voto del marzo 2018».

Quando non diede l’incarico a Matteo Salvini nonostante il centrodestra avesse la maggioranza relativa?

«Non era sufficiente. È vero che il mandato a Roberto Fico fu molto più lungo di quello concesso a Elisabetta Alberti Casellati. Ma Salvini avrebbe dovuto cercarsi 50 parlamentari e sarebbe stato un governo fragilissimo. Poi fu Renzi a mandare all’aria l’ipotesi Pd-M5s in televisione. Mentre fece nascere il secondo governo Conte e ha impedito la nascita del terzo».

È il king maker dei governi pur con un partito infinitesimale.

«I sondaggi lo penalizzano, ma ha 47 parlamentari e conta di farli pesare anche nell’elezione del prossimo capo dello Stato».

Un po’ come faceva Bettino Craxi?

«Craxi aveva il 13%, Renzi era più forte nel Pd».

Con poco determina molto?

«Come Ghino di Tacco: bisogna passare per Radicofani».

Mattarella si è opposto anche alla scelta di Paolo Savona ministro dell’Economia.

«Quasi tutti i presidenti hanno imposto dei ministri, ma l’hanno fatto con il consenso del premier incaricato. Il veto su Savona è l’unico caso in cui un governo non è nato perché il capo dello Stato ha respinto un ministro».

Com’è cambiata la figura del presidente nella Seconda repubblica?

«È cambiata con l’avvento di Berlusconi. Mai Oscar Luigi Scalfaro si sarebbe comportato come fece se non fosse stato Berlusconi capo del governo. Scrivergli una lettera di galateo istituzionale alla quale Giuliano Ferrara, ministro per i rapporti con il Parlamento, rispose giustamente per le rime, fu un comportamento inedito nei rapporti tra Quirinale e Palazzo Chigi».

Con l’avvento di Berlusconi i presidenti sono diventati più interventisti?

«Sì, certo. Lo hanno tenuto sotto tutela. Che lui sia propenso alle scappatelle è evidente, ma loro lo hanno ripetutamente messo in collegio».

Nel caso della nomina di Mario Monti seguita all’invito a dimettersi a Berlusconi di Giorgio Napolitano si è parlato di «dolce colpo di Stato».

«L’ha scritto il sociologo vicino alla sinistra tedesca, Jurgen Habermas. Sicuramente fu un comportamento anomalo, tutto documentato. E emerso a posteriori fa una certa impressione. Tuttavia, dopo la guerra che gli fece Fini, Berlusconi aveva una maggioranza risicatissima, puntellata dai cosiddetti responsabili».

La lievitazione dei poteri del capo dello Stato è conseguenza dell’indebolimento della classe dirigente attuale?

«Non c’è dubbio. È una supplenza di debolezze crescenti. E meno male che Mattarella si è comportato con equilibrio in situazioni che stavano scappando di mano. Direi che Draghi è stato il suo capolavoro».

Dipende anche dal fatto che i presidenti si sono assunti il compito di ridimensionare il centrodestra, dopo Berlusconi anche Salvini?

«Per Scalfaro, Berlusconi era un marziano. E non c’è dubbio che Salvini al governo sia vissuto come un’anomalia legittima».

Anomalia legittima… vengono in mente le convergenze parallele.

«È legittimo che Salvini sia al governo, ne ha tutto il diritto. Anche Mattarella ha chiesto la partecipazione di tutti. Ma non c’è dubbio che sia vissuto come un’anomalia, basta vedere i frequenti scontri con il Pd. Il fatto che due partiti come Lega e Pd approvino insieme riforme importanti è un miracolo congiunto di Mattarella e di Draghi».

L’anomalia è dovuta al fatto che Salvini è cresciuto nella Lega, partito dell’antipolitica come lo era Forza Italia?

«La Ztl della società italiana non si rassegna all’idea che ci sia la destra al governo. È un percorso lungo, vedremo come andranno le prossime elezioni. Il Pd è il legittimo punto di riferimento della classe dirigente e delle élites culturale, burocratica e, in parte, anche imprenditoriale italiana. Anche quando ha il consenso della maggioranza degli italiani, il centrodestra ha la vita più difficile…».

In questi anni Mattarella avrebbe potuto pronunciarsi a proposito delle varie crisi che hanno attraversato la magistratura?

«È una domanda alla quale preferisco non rispondere, per un riguardo al capo dello Stato. Posso solo dire che la magistratura sta vivendo la crisi più grave della storia repubblicana , ancora non si è capito come possa superarla e il Presidente della Repubblica lo è anche del Consiglio superiore della magistratura».

Scalfaro è quello che esce peggio nella galleria dei suoi ritratti?

«Sì, lo metterei in coda alla lista».

Mattarella rimarrà contrario all’idea di prolungare il mandato fino al 2023?

«Credo che il libro dimostri l’assoluta fragilità delle previsioni sul Quirinale. Nel merito ci sono due scuole di pensiero. Una per la quale Mattarella resterà fino a fine legislatura. L’altra, come lui ripete, che non accetterà prolungamenti. Secondo me la prima ipotesi è irrispettosa e con qualche elemento di debolezza. Si rieleggerebbe Mattarella, ma non per sette anni. Credo non si possa fare un contratto con il capo dello Stato in cui si dice: va bene, grazie, adesso ci porti a elezioni e poi te ne vai. Se si elegge Mattarella, lo si elegge per l’intero settennato».

Con Napolitano andò più o meno così.

«Ma decise lui di andarsene dopo due anni. Non si può fotocopiare Napolitano in una situazione diversa».

Oggi la situazione è ancora più complessa per l’emergenza sanitaria e il ruolo internazionale di Draghi.

«Non c’è dubbio che togliere Draghi da Palazzo Chigi sarebbe un peccato, ma il Paese potrebbe essere accompagnato a elezioni dal suo ministro dell’Economia, Daniele Franco. È sicuro anche che dal Quirinale Draghi potrebbe rivestire un ruolo superiore in campo internazionale. Ma parlarne ora è fantascienza. Tutto si deciderà tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio».

Una volta Napolitano le disse che erano maturi i tempi in cui il Quirinale avrebbe potuto essere occupato da un uomo proveniente dalla destra. Previsione realistica, profezia precoce o fantapolitica?

«Servono particolari condizioni politiche e sociali perché un uomo di destra vada al Quirinale. Oggi per la prima volta il centrodestra è decisivo per eleggere il capo dello Stato. Naturalmente conviene che sia una scelta condivisa».

Il Corriere della Sera è già sceso in campagna per il Quirinale?

«L’elezione del presidente della Repubblica è il gioco politico più appassionante dei prossimi sei mesi. È normale che i giornali ci costruiscano un giallo a puntate».

Sperando di piazzare il loro investigatore?

«E chi sarebbe?».

Walter Veltroni è un’importante editorialista del Corriere.

«Walter ha grandi capacità negoziali. Sta a lui convincere il centrodestra a votarlo».

Il giudizio generale sul governo Draghi è positivo: poteva segnare maggiore discontinuità nella lotta al Covid?

«La discontinuità è rappresentata dalla scelta del generale Figliuolo. Siamo passati dalle primule alla rinascita della Protezione civile che era stata lasciata morire».

Vera discontinuità sarebbe stata cambiare Roberto Speranza?

«Difficile cambiare il ministro della Sanità in piena emergenza».

Quanto crede al partito unico del centrodestra?

«In astratto, tra Lega e Forza Italia è possibile, anche se non si fa dalla sera alla mattina. Con la Meloni serve ancora più tempo».

Sul piano dei numeri sarebbe conveniente?

«La storia dice di no. Tutti i partiti che si fondono riducono i loro consensi. Ma le circostanze attuali potrebbero essere più favorevoli all’unificazione».

Come valuta la strategia di Enrico Letta di puntare sull’alleanza con Conte?

«È un esperimento interessante. Vedremo come finirà».

Chi è messo meglio in vista delle amministrative del 3 ottobre?

«E chi lo sa? I sondaggi agostani sono un non senso, quelli affidabili arrivano a tre settimane dal voto. Sono chiamati alle urne venti milioni d’italiani in mille comuni…».

Anche in Italia avremo una grossa coalizione?

«Qualcuno poteva immaginare Letta e Salvini insieme al governo in una situazione come questa? La grossa coalizione c’è già, ed è stata una fortuna. Per la sua collocazione internazionale, Salvini ha fatto bene a entrarci. Come la Meloni a starne fuori, perché avrebbe contato molto poco».

 

La Verità, 14 agosto 2021

«Non riusciranno a dividere Giorgia e Matteo»

Ragazza nell’associazionismo cattolico, attrice, conduttrice televisiva, un passato prossimo in Forza Italia come portavoce nazionale e parlamentare europea e un presente in Fratelli d’Italia, membro dell’esecutivo nazionale del partito più in crescita del momento. Padovana, in politica dal 1994, Elisabetta Gardini ha diverse stagioni da raccontare. Non è una che sgomita per mettersi in evidenza come tante sue colleghe, ma quando va, raramente, in tv, lascia il segno. Qualche giorno fa, ospite di Agorà su Rai 3, ha sotterrato la povera Barbara Lezzi, 5 stelle, sulla riforma della prescrizione: «Siete un movimento giustizialista, massimalista, manettaro, vorreste mettere tutta l’Italia sotto processo in eterno».

Che cosa disapprova maggiormente della riforma del ministro Alfonso Bonafede?

«Come ha scritto l’ex procuratore della Repubblica Carlo Nordio è una riforma aberrante, che stabilizza lo stato di imputato e viola diritti fondamentali come l’equo processo, la presunzione di innocenza, i tempi ragionevoli. I tempi eterni rendono ingiusta qualsiasi sentenza. L’Italia è già stata condannata più volte dall’Unione europea per la lunghezza dei processi. Sono convinta che sarà sonoramente bocciata».

Il governo cadrà o, pur di non andare a votare, troveranno un accordo?

«Come abbiamo visto eravamo su scherzi a parte. Faranno di tutto per andare avanti, ma non credo arriveranno a fine legislatura».

Ricominciamo: suo padre era pittore.

(Mostrandomi i suoi quadri sul telefonino) «È mancato sei anni fa. Presto, finché c’è mia madre, organizzerò una retrospettiva con le sue opere. Al liceo, con un tema su di lui ho preso uno dei più bei voti in italiano. Raccontavo che il nostro rapporto era conflittuale, ma attraverso i suoi quadri scoprivo un padre diverso».

Che cosa le ha lasciato?

«Un grande amore per l’essere umano e un esempio di coerenza. Diceva che chi crede in un principio non deroga. Che se lo scalfisci, il principio è destinato a scomparire. Negli anni della contestazione non era un concetto facile da accettare. Anche lui ammetteva debolezze e fragilità, ma diceva che il principio non deve essere intaccato».

È di formazione cattolica?

«Ero dell’Azione cattolica. Frequentavo le associazioni del volontariato, gli scout, Operazione Mato grosso. Stavo lontano dalla politica, negli anni Settanta non era salutare. Ho avuto compagni di classe finiti in galera. A Padova abbiamo visto Franco Freda e Giovanni Ventura, le Br, il sequestro Dozier, l’attentato alla Sinagoga. La politica faceva paura e non attraeva i giovani. Come anche adesso».

Le sardine non sarebbero d’accordo.

«Ma sono giovani? Se guardiamo l’età media di quelle piazze… Il capo ha 32 anni. In Italia lo consideriamo giovane, all’estero sono padri di famiglia».

Quasi un anno fa ha lasciato Forza Italia: che cos’ha trovato in Fratelli d’Italia?

«La casa dove ci sono i miei valori. Quelli che Forza Italia ha abbandonato, diventando un partito privo d’identità, con un leader che tenta di resistere, ma è circondato da un gruppo di persone, a cominciare da Antonio Tajani e Mara Carfagna, che poco hanno a che fare con la cultura del centrodestra. Fdi è un partito coerente, guidato da una leader come Giorgia Meloni, che interpreta al meglio la passione per l’uomo e per la famiglia che mi ha trasmesso mio padre. Poi ho trovato anche la collocazione internazionale nell’Alleanza dei conservatori e riformisti dove, fin dal 2009, speravo di portare il Pdl».

Invece?

«Vinse la linea di Tajani che volle rimanere nel Ppe. Era più utile alla sua carriera».

Da allora all’uscita da Forza Italia sono trascorsi dieci anni.

«Nel 2012 Berlusconi promise le primarie poi si ricredette. Allora Guido Crosetto, Ignazio La Russa e la Meloni s’inventarono le primarie delle idee. Io ero con loro su quel palco e in un’intervista dissi che alle primarie avrei votato per la Meloni. Già allora serviva un ricambio».

Però è rimasta con Berlusconi fino all’aprile dell’anno scorso.

«Perché credevo nel lavoro che ho portato avanti fino alla fine del mandato».

In che cosa consisteva?

«Nell’azione di riduzione del danno. Non si può imporre una legge che vada bene da Stoccolma a Lampedusa. Ogni Paese deve difendere le proprie specificità. Ci sono tanti campi in cui l’Italia può vantare delle eccellenze, dall’economia circolare alla pesca, dalla meccanica agricola all’alimentazione. Ho difeso le piccole e medie industrie e tante categorie produttive. La Brexit è stata un’occasione persa per rivedere il sistema dell’Unione rispetto al quale tanti Paesi iniziavano a mostrare insofferenza. Ma la Francia e la Germania si sono chiuse a riccio per non ammettere di aver sbagliato».

Come spiega la crescita di consensi del suo partito?

«Il declino di Forza Italia ha creato uno spazio e il lavoro di Giorgia Meloni, Crosetto e La Russa ha attratto tanti elettori critici verso gli eccessi della globalizzazione e l’invadenza delle religioni laiche in conflitto con la natura dell’uomo».

Per esempio?

«La formula genitore 1 e genitore 2 è quello più lampante. Oppure la religione ambientalista. Tutti vogliamo proteggere il pianeta, ma da questo a fare dell’ambientalismo una nuova religione ne passa. Ora l’essere umano è diventato il pidocchio della terra. Un altro esempio è il diritto a emigrare. Credo che il primo diritto sia stare bene dove si è nati. I cosiddetti nuovi diritti sono tutti imposti dall’alto».

Dov’è la differenza?

«I moderati e i conservatori difendono i principi del 1948, i progressisti hanno una concezione contrattualistica. E, guarda caso, quelli che propugnano sono diritti di morte o negativi: il diritto all’aborto, all’eutanasia, al suicidio assistito, il diritto a emigrare».

Anche il diritto all’adozione delle coppie gay attraverso l’utero in affitto è negativo?

«È un diritto per pochi privilegiati, a scapito del più debole, cioè il bambino. Sono pratiche di sfruttamento delle donne più povere, il cui corpo viene bombardato di ormoni per vendere gli ovuli o avviare le gravidanze. Non a caso i movimenti femministi americani che non sono di sinistra continuano a denunciarle. Ci sono studi, pubblicazioni, documenti, ma l’informazione mainstream li censura in modo che sembri che tutto il mondo femminile è favorevole all’utero in affitto».

Come spiega la crescita di popolarità di Giorgia Meloni?

«È brava. Se la ascolti le riconosci passione politica, competenza e coerenza. E tutto questo, nonostante sia donna. Checché se ne dica, in politica è ancora penalizzante».

Anche nel suo caso?

«È un’eccezione. Ci sono ministre, presidenti della Camera, ma i leader di partito sono sempre uomini. Giorgia Meloni è lontana dai vezzi della casta. Nel 2006 era già vicepresidente della Camera e l’ho sempre vista girare con la sua automobilina, senza scorta, accompagnata da qualche militante».

Perché da qualche tempo la grande stampa la elogia?

«Per seminare zizzania nel centrodestra».

Per creare una rivalità tra lei e Salvini?

«Sì, ma è una trappola nella quale non mi pare stiano cadendo. Bastava vedere il loro tweet insieme e sorridenti di qualche giorno fa, con i commenti dei militanti leghisti e di Fdi entusiasti della coppia. Un sondaggio dice che l’80% dei leghisti come seconda opzione voterebbe Fdi».

Giorgia Meloni, Daniela Santanchè, Isabella Rauti, lei: siete un partito a trazione femminile?

«Non direi. Siamo un partito dove ci sono donne con una propria storia e una propria visibilità che non sono frutto delle quote rosa, un’espressione mi provoca l’orticaria».

Oltre a lei, se ne sono andati Raffaele Fitto e Giovanni Toti, mentre Irene Pivetti e Alessandra Mussolini sono rientrate. Perché questo andirivieni in Forza Italia?

«Vedo più il percorso di andata che di ritorno. La Pivetti si è candidata, ma con il suo movimento, Italia madre. Alessandra è un’irrequieta, non credo sia un ritorno emblematico. Forza Italia arriva sempre seconda: dopo le Madamine torinesi, i SìTav, dopo i gilet gialli, i gilet azzurri. La maggior parte delle donne di Forza Italia sono di sinistra: la Carfagna è più attenta al Gay pride che alla famiglia, Michela Brambilla conduce battaglie animaliste estreme».

È così difficile creare un partito unico del centrodestra?

«Non mi sembra una prospettiva imminente. L’Italia è il Paese dei comuni e dei campanili, ci sono tante personalità spiccate. Il merito dei grandi leader è amalgamare le diversità in armonia. Com’era riuscito a fare Berlusconi e come ora ci fa intravedere quel tweet di Giorgia e Matteo».

Come si risolverà il contrasto sulle candidature per le elezioni in Puglia, in Campania e in Toscana?

«È un contrasto amplificato dai giornaloni che puntano a creare divisioni. Sono convinta che si troverà un accordo».

Cosa c’è di vero nei rumors che la vogliono candidata sindaco nel 2022?

«È un ritornello che ricorre da vecchia data. In politica ciò che avverrà fra 3 anni è fantascienza. Non c’è dubbio che io ami la mia città, più te ne allontani e più quando ci torni riscopri un rapporto unico e irripetibile».

È contenta che Padova sia Capitale europea del volontariato per il 2020?

«Molto. Credo sia il riconoscimento del senso di appartenenza a una comunità che in Veneto resiste e che si vede nelle eccellenze nella sanità, nell’istruzione e, appunto, nel volontariato. È una ricchezza che fa da filtro all’invadenza delle religioni laiche e che la politica deve proteggere e valorizzare, come sta accadendo in questa occasione».

Come fa una persona che milita in un partito di destra ad apprezzare il volontariato che, generalmente, guarda a sinistra?

«C’è il volontariato vero e c’è quello delle Ong che è una professione spesso pagata con stipendioni. Carola Rackete è una professionista. Gli alpini o la protezione civile devolvono gratuitamente tempo ed energie. Invece molti professionisti non agiscono per risolvere il problema, ma per perpetuarlo perché il loro lavoro arriva da lì».

 

La Verità, 16 febbraio 2020

«Mi dimisi per dignità, ma i soloni non si scusano»

Buongiorno Maurizio Lupi, come sta?

«Sto bene perché non ho nessun rimpianto e nessuna recriminazione. Quando mi sono dimesso da ministro l’ho fatto per difendere un’idea di politica e di governo, ma soprattutto la mia storia e la mia famiglia. Non potevo, né volevo, dimettermi da padre. E nemmeno modificare il giudizio sui miei collaboratori. Con quel gesto ho voluto riaffermare le ragioni per cui un giorno ho deciso di entrare in politica».

E come si sta, pubblicamente riabilitati?

«Sono stato fortunato a non essere mai indagato, a non dover spendere denaro per avvocati, a poter continuare a fare politica in un altro ruolo. Al contempo, provo grande dispiacere pensando a coloro che hanno ingiustamente pagato con il carcere e processi continui, da innocenti».

Il 15 marzo 2015, senza essere indagato, Maurizio Lupi si dimise da ministro delle Infrastrutture in seguito all’inchiesta Grandi opere secondo la quale l’imprenditore Stefano Perotti e il superdirigente del ministero, Ercole Incalza, si sarebbero interessati all’assunzione del figlio Luca. Al quale, in occasione della laurea, Perotti, amico di vecchia data del ministro, regalò un orologio Rolex. L’archiviazione dell’indagine è di aprile, ma la notizia è stata divulgata solo il 6 novembre. Nel 2018 Lupi è stato rieletto deputato nelle file di Noi con l’Italia, confluito nel Gruppo misto della Camera.

Sono passati 4 anni e mezzo dalle sue dimissioni da ministro del governo Renzi, dopo quello Letta: che anni sono stati?

«Di continuo cambiamento. La prima certezza saltata è stata il ruolo di ministro. Poi è cambiato il partito di riferimento, da Forza Italia e dall’Ncd, con un gruppo di amici abbiamo dato vita a Noi con l’Italia. Infine, è evoluta anche l’idea di centrodestra. L’unica certezza che si è consolidata è che bisogna essere sempre pronti a mettersi in gioco».

Perché si dimise nonostante non fosse indagato?

«A volte, più di tante parole valgono i gesti. Siamo uomini pubblici. Quasi tutti mi avevano sconsigliato di farlo e tanti non l’hanno fatto. Io ho preferito lasciare che qualcun altro proseguisse il lavoro iniziato. Quando ho visto che si dipingeva una cupola di corruzione ho voluto dare un segnale di assoluta libertà».

Perché la richiesta di archiviazione presentata ad aprile è divenuta pubblica solo pochi giorni fa?

«Bisognerebbe chiederlo a loro. Ringrazio il giornalista del Corriere della sera che ha dato la notizia. Era la seconda archiviazione in un anno e mezzo. Nel nostro Paese il sostegno a un’indagine su un reato, prima che sia comprovato, comincia già sui giornali. Per altro, dopo la divulgazione della notizia entrano in funzione i soloni del tribunale etico».

Anche i funzionari e imprenditori più coinvolti di lei saranno riabilitati?

«Questo è il dolore maggiore. Quando si agitano le manette bisognerebbe ricordare che la presunzione di innocenza, oltre a essere scritta nella Costituzione, serve a tutelare la vita delle persone. È giusto che chi commette degli errori ne risponda. Ma ora chi ripagherà un’impresa con 100 dipendenti tra le migliori d’Europa nel suo campo che ha dovuto chiudere? E chi risarcirà un alto dirigente statale che ha fatto 70 giorni di carcere ed è stato assolto 17 volte su 17? Infine, chi risponderà del danno per il clima inquisitorio instaurato che rende sempre più faticoso il processo decisionale nelle istituzioni?».

Quell’indagine era partita da alcune intercettazioni male interpretate.

«I magistrati di Milano hanno detto che la Procura di Firenze ha male interpretato un dialogo nel quale in realtà si stava ribadendo una norma di legge. Cioè, l’hanno interpretato al contrario, come espressione di un intento affaristico. Se decontestualizzi le conversazioni puoi prendere grandi abbagli. Da anni si attende la definizione della normativa sull’uso delle intercettazioni, ma finché ciò non avviene ognuno le usa liberamente».

La riforma del ministro Alfonso Bonafede la fa ben sperare?

«Dalla legge “Spazzacorrotti” in poi s’interviene solo con l’inasprimento delle pene o con l’introduzione di nuove figure e mezzi investigativi. Se si prescinde dalla proporzionalità della pena al reato alla lunga non ci resterà che la pena di morte».

Quanta soddisfazione le dà il fatto che è stata proprio la Procura di Firenze a chiedere l’archiviazione?

«C’è un giudice buono a Berlino. Si può sbagliare, ma riconoscere l’errore può far intraprendere una strada nuova».

Perché l’archiviazione dell’indagine ha avuto così scarso rilievo sui giornali?

«Perché non fa notizia dire, a distanza di anni, che era un’inchiesta infondata. Tutto brucia rapidamente. Fortunatamente c’è la Rete che permette una pur minima pubblicità delle notizie positive. Se dovessimo stare a gran parte dei giornali…».

Francesco Merlo su Repubblica ha distinto tra assoluzione penale e decenza politica.

«Certi opinionisti indossano i panni del grande inquisitore: sì, non c’era niente, ma ha sbagliato comunque. Anche Marco Travaglio ha ribadito che dovevo dimettermi, tirando in ballo la questione etica. Ma se non c’era reato, non c’era corruzione, non c’era alcuna richiesta di favori, non ero indagato allora e non sono stato condannato dopo e c’era trasparenza assoluta, dov’è la questione etica?».

Ha meno fiducia nei giornalisti che nei magistrati?

«Tra i commentatori non ho visto ammissioni di errori. Per qualcuno dovevo dimettermi anche da padre. Mio figlio, laureato in ingegneria con 110 e lode, aveva trovato un lavoro. Mi chiamò in lacrime da New York dicendomi che sotto il suo ufficio c’erano decine di giornalisti e chiedendomi quale fosse la colpa di aver ricevuto un regalo di laurea da una persona che conosceva da anni. Quando ci si accorge di aver sbagliato ci si può scusare, invece i Torquemada continuano per la loro strada. A loro vorrei regalare Pensieri improvvisi, un libriccino di Andrej Sinjavskij: “Quando ti becchi una malattia venerea, solo allora ti accorgi che tutti gli uomini sono puliti”».

Perché chi opera negli appalti delle infrastrutture è sempre in odore di corruzione?

«È una fama giustificata, ci sono precise responsabilità della politica. L’errore è generalizzare buttando il bambino con l’acqua sporca. Alla fine degli anni Ottanta fu promulgata una legge che bloccò fino al 2001 la realizzazione delle grandi opere per sconfiggere la corruzione. È il motivo per cui in questo campo l’Italia è un paese arretrato. Serve un patto trasversale per le infrastrutture materiali e immateriali. Poi chi governa deciderà come farle».

Che cosa pensa del crollo del ponte Morandi?

«Aldilà delle responsabilità accertate, penso che se avessimo costruito la Gronda quella tragedia non si sarebbe verificata. Le opere non realizzate spesso si trasformano in tragedie».

Rinnoverebbe la concessione ad Atlantia della famiglia Benetton per la gestione di Autostrade per l’Italia?

«In uno Stato di diritto si ritirano le concessioni solo nel momento in cui è accertato il mancato rispetto del contratto. Una volta documentate le responsabilità, chi ha sbagliato paga e ricostruisce. La tragedia del ponte Morandi era l’occasione per ridefinire le regole del rapporto concessionario. Ora si pensa al ritorno dello Stato padrone come fosse immune da errori, ma la storia ha già mostrato che non è così».

Il Mose e l’alluvione di Venezia?

«I ritardi nell’ultimazione del Mose sono l’evidenza di come si è tradita Venezia e quindi l’Italia. Nella primavera del 2014 era realizzato all’87%. Avrebbe dovuto essere pronto nel giugno 2016 e attivo, dopo i collaudi, nel gennaio 218. Lo scandalo delle tangenti ha fatto bloccare i lavori ed è iniziato lo scaricabarile tra le autorità. Invece, mentre la giustizia avrebbe dovuto fare il suo percorso pretendendo i rimborsi dai responsabili, si sarebbero dovuti accelerare i lavori di completamento dell’opera».

Ex Ilva, Tav, Mose, ponte Morandi, aree terremotate: come può esserci unità d’intenti se nello stesso governo ci sono il partito del Pil e quello della decrescita?

«Anche un movimento di moralizzatori potrebbe capire che la sfida della politica non è la campagna elettorale, ma governare il Paese. Se il reddito di cittadinanza si rivela un provvedimento assistenzialista e con quei soldi si può tagliare il cuneo fiscale, bisogna avere la forza di cambiarlo e di convincere il proprio elettorato».

Non è facile come dirlo.

«Bisogna provarci. Se hai il ministero dello Sviluppo economico, prima con Luigi Di Maio e ora con Stefano Patuanelli, e fai chiudere la più grande acciaieria d’Europa qualche domanda te la devi fare».

Noi per l’Italia aderirà alla coalizione degli italiani con Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni?

«Noi con l’Italia è a pieno titolo nel centrodestra. Senza esser presuntuosi vogliamo far tornare rilevante la proposta politica del centro, senza il quale il centrodestra si chiamerebbe destra».

Che spazio vede per i cattolici in politica?

«Uno spazio enorme. Oggi il partito dei cattolici sarebbe antistorico. Ma in uno scenario in continua e rapida evoluzione, i cattolici, come tanti altri, possono testimoniare un impegno al servizio del bene comune per ricostruire una società che nasca dalla persona e dalla libertà».

Cosa pensa della disponibilità al dialogo verso Salvini manifestata dal cardinal Ruini?

«Non si può non dialogare con chi rappresenta un terzo degli italiani. Trovando, nelle differenze, punti in comune su cui lavorare insieme. Salvini non è il diavolo, così come i comunisti non mangiavano i bambini».

Che cosa direbbe oggi al suo amico Roberto Formigoni?

«Quello che gli dico quando vado a trovarlo: che il suo operato ha cambiato la Lombardia ed è stato un modello per l’Italia di attuazione del principio di sussidiarietà con al centro la persona. Gli dico anche che non è solo».

E sulla sua vicenda giudiziaria?

«Le sentenze si rispettano e Roberto lo sta facendo. Ma, per conto mio, quella che lo riguarda non racconta ciò che è stata l’azione politica e di governo di Roberto Formigoni».

 

La Verità, 17 novembre 2019

Tarchi: «Il centrodestra? Alleanza immaginaria»

È colpa di noi giornalisti se Marco Tarchi non usa cellulari e dialoga solo tramite posta elettronica. Fece questa scelta una ventina d’anni fa, per «mettermi al riparo dall’uso pubblico, altrui, del tempo privato, mio. Se avessi avuto la tentazione di procurarmi un cellulare, mi sarebbe passata nel periodo 1994-96, quando, essendo uno dei pochi studiosi che sapeva qualcosa del mondo post neofascista improvvisamente risorto, ricevevo, al numero fisso di casa, continue chiamate di giornalisti che mi tenevano al telefono per 30-40 minuti chiedendomi di tutto, per poi scriverci su un articolo, sovrapponendo le loro opinioni alle mie e citandomi di passaggio in due righe. Stava diventando una persecuzione, a cui il non-uso di un cellulare mi ha sottratto». Insomma, ecco un raro caso in cui la voglia di visibilità non s’è mangiata la qualità della vita e un certo rispetto per le proprie opinioni. Ovviamente, Tarchi non usa i social media, detestandone «la capacità di moltiplicare egocentrismo, superficialità e volgarità».

Romano di nascita e fiorentino d’adozione, 65 anni, professore ordinario alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, già ideologo della Nuova destra italiana vicina ad Alain de Benoist, dopo una burrascosa espulsione dal Msi abbandonò la politica militante per dedicarsi agli studi. Dirige Diorama.it, mensile di «attualità culturali e metapolitiche» e pubblica per Il Mulino. L’ultimo libro (2014) s’intitola Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo.

 

Perché le elezioni francesi sono importanti anche fuori dalla Francia?

«Perché sono un test sulle capacità di crescita elettorale del populismo. Che si trova di fronte il perfetto rappresentante di quei poteri forti contro cui rivolge gran parte dei suoi strali».

Dopo la Brexit e l’elezione di Trump si è detto che l’era della globalizzazione è al tramonto. Oltre che dalla Francia, da dove potrà venire un terzo segnale?

«Non sono certo di questo tramonto. A sostenere la bontà della globalizzazione ci sono una molteplicità di soggetti – politici, economici, culturali – molto potenti soprattutto nel mondo della comunicazione. La loro capacità di seduzione e suggestione sul pubblico è tuttora elevata. La sfida populista è ardua, malgrado la sua presa sempre più estesa. In Austria, dopo il successo sfiorato nella corsa alla presidenza della Repubblica, la Fpö (Partito della Libertà, nda) potrebbe aggiudicarsi il primo posto alle elezioni legislative. E l’Afd (Alternativa per la Germania, nda) probabilmente entrerà in parlamento in Germania. Sono segnali destinati ad ampliarsi, in questa fase».

In Italia stiamo assistendo al ritorno di Matteo Renzi. Crede che saprà inaugurare una stagione nuova come ha annunciato o si tratterà del sequel di un film già visto?

«Propendo per la seconda ipotesi. Dubito che Renzi riesca a liberarsi dal complesso di onniscienza e onnipotenza che lo affligge e che voglia davvero convincersi di aver commesso gravi errori. Per lui, a sbagliare non possono essere che gli altri. È la stessa sindrome che ha afflitto Berlusconi».

Paolo Gentiloni si ritirerà senza fiatare?

«Non mi pare che il personaggio aspiri a costruirsi una figura, e una statura, autonoma. A meno che non gli si prospetti un’insperata finestra di opportunità, come possibili futuri alleati di governo disposti a concludere patti solo a condizione di escludere Renzi dalla presidenza del Consiglio, penso che tornerà in seconda fila».

Beppe Grillo, oltre la dicotomia destra/sinistra (LaPresse)

Beppe Grillo, oltre la dicotomia destra/sinistra
(LaPresse)

Come evolverà il tripolarismo italiano?

«Dipenderà in notevole misura dalla legge elettorale che verrà adottata e dalle mosse dei principali soggetti in campo. Uno dei quali, il centrodestra, è solo potenziale, e difficilmente riuscirà a sommare aritmeticamente i voti che a ciascuna delle sue componenti oggi attribuiscono i sondaggi, perché su molti temi le posizioni di Lega e Forza Italia sono incompatibili».

Sarà necessario un ritorno al proporzionale? Oppure l’unica strada praticabile sarà un Nazareno bis per escludere il M5s?

«Il Nazareno bis potrebbe forse produrre un governo delle larghe intese. Ma se questo fallisse nel tentativo di sanare i problemi del Paese, sarebbe la premessa di un trionfo successivo del M5s. Quanto al sistema elettorale, io sono da sempre un fautore del proporzionale puro, perché credo che le elezioni debbano prima di tutto dare una rappresentanza effettiva e soddisfacente alle opinioni dei cittadini. Ai partiti spetta poi tradurre la loro volontà in accordi e confronti. In quasi tutta Europa, il sistema proporzionale produce governi stabili, non il caos descritto dai fautori del maggioritario».

Del movimento capeggiato da Beppe Grillo le piace il tentativo di superare le categorie di destra e sinistra o qualcos’altro?

«Credo che il superamento della dicotomia sinistra/destra sia nelle cose, e il fatto che Grillo lo abbia capito va a suo merito. Molte persone, oggi, ragionano sui fatti, non sulle interpretazioni codificate nelle ideologie novecentesche o sui loro residui. Non sempre il M5s riesce a tradurre le intuizioni del suo portavoce e garante in scelte politiche conseguenti, ma non c’è dubbio che la sua azione abbia sottratto la politica italiana a un’ingessatura bipolare funesta».

Populismo è il termine politico più in voga: l’accezione dominante però è negativa, una sorta di anticamera della dittatura. Eppure, come dice Ernesto Galli della Loggia citando la Costituzione, la sovranità appartiene al popolo…

«Io mi batto, sul terreno scientifico, contro la degradazione del populismo a etichetta insultante. È una mentalità che può piacere o meno, ma che richiama la centralità del popolo come fonte legittima del potere in democrazia, e incita a ricostituirne un’identità comune: obiettivo non disprezzabile».

A sinistra si procede per scissioni, ma anche a destra l’alleanza tra Berlusconi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni appare irta di difficoltà. Qual è la possibile carta vincente del centrodestra?

«Non ne vedo. L’eterogeneità di questi soggetti è profonda. Oggi si sta affermando uno spartiacque tra fautori e avversari della globalizzazione e dei suoi effetti, e su questo tema cruciale Berlusconi e i liberali stanno su un versante, Salvini, Meloni, i populisti e i sovranisti sull’altro. Ricomporre il dissidio è impossibile, far finta che non esista produrrebbe un’armata Brancaleone».

Salvini, Berlusconi e Meloni. Per Tarchi un'intesa senza futuro

Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. Per Tarchi, un’intesa senza futuro

Mi sta dicendo che per il centrodestra e per gli elettori moderati non c’è speranza?

«Gli elettori a cui l’ipotetico centrodestra vorrebbe rivolgersi non sono tutti moderati. Anzi, molti di loro sono attratti da parole d’ordine radicali come quelle della Lega. Senza contare che molti moderati stanno con Renzi, che ha saputo spostare a destra un partito storicamente di sinistra. Non siamo più negli anni Novanta, l’anticomunismo non è più un collante. Il centrodestra è un’entità più immaginaria che reale».

Non sarà che il suo giudizio così drastico è inficiato dalla negativa esperienza personale in quell’area?

«Per niente. E poi non ho appartenuto a “quell’area”, ma al Msi, che era tutt’altra cosa. Una vicenda che si è conclusa più di 36 anni fa. Non sarebbe il caso di evitare di ricordarmela ogni volta che esprimo un giudizio sulle varie destre? Ragiono da analista, non da ex: categoria che detesto».

Qual è il suo pensiero in materia d’immigrazione?

«Difficile sintetizzarlo. Credo che il fenomeno migratorio di massa sia più una fonte di problemi che una risorsa, come vorrebbe la retorica del politicamente corretto. E che, sul piano pratico, non la si debba affrontare ricorrendo a due opposti e simmetrici ricatti psicologici – quello della paura, per cui ogni immigrato è un criminale potenziale, e quello della commozione e della compassione, per le quali ogni immigrato è un “piccolo Aylan” disperato e indifeso. Credo anche che diluire sempre più i caratteri specifici che hanno costituito ciascun popolo sia una grave ferita inflitta a quella diversità che è il fondamento della bellezza, non solo estetica, del mondo. Apprezzo il dialogo tra i popoli e le culture, detesto la loro omologazione sradicante».

Ci sono spazi d’integrazione della popolazione islamica nel nostro Paese?

«Ci sono, ma bisognerà vedere come saranno utilizzati da entrambe le parti. Imparare a convivere con l’altro-da-sé è sempre molto difficile, e per riuscirci occorre prima di tutto ammettere e conservare la reciproca diversità, trovando compromessi pratici accettabili. L’assimilazione, alla lunga, provoca alienazione e ripulse. Si veda ciò che accade nelle banlieues francesi».

Come giudica il magistero di papa Francesco sull’argomento?

«Giudico le sue come opinioni, che come quelle di tutti gli esseri umani sono discutibili. Comprendo la sua posizione, ma sostenere l’accoglienza indiscriminata di chiunque approdi in Europa mi pare una scelta irresponsabile, destinata a produrre future sciagure. Lo ha sostenuto anche Giovanni Sartori, un grande politologo a me caro, e concordo con lui».

Segue i programmi di politica in tv? Come valuta la rappresentazione che la televisione dà della politica italiana?

«Ne seguo saltuariamente qualcuno. Non posso, e non voglio, portarmi sempre il lavoro a casa… La televisione consente alla politica italiana e ai suoi protagonisti di presentarsi per quel che sono. Purtroppo».

 

La Verità, 7 maggio 2017