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«Il Muro è caduto, ma il comunismo è vivo»

Una storica dell’anima. Una narratrice delle persone semplici, capace di una tenerezza e di una pietas che non hanno nulla a che vedere con il buonismo patinato di moda. Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura 2015, è stata protagonista dell’annuale appuntamento dell’università di Padova con un premio Nobel con una lezione intitolata: «Abbiamo paura della libertà». Bielorussa, perseguitata dal regime del presidente Aljaksandr Lukasenko, riparata a lungo in Europa e tornata a vivere a Minsk nel 2011, Aleksievic ha scritto grandi reportage sugli eventi più tragici della Russia, dalla guerra in Afghanistan al disastro di Chernobyl (Ragazzi di zinco e Preghiera per Chernobyl, dal quale è stata tratta la pluripremiata serie tv; entrambi riproposti dalle edizioni e/o). Citando i festeggiamenti per i trent’anni della caduta del Muro di Berlino, ha osservato che «abbiamo goduto di queste manifestazioni come in una sorta di grande luna park. Ma se oggi riguardiamo ai nostri anni Novanta ci accorgiamo che eravamo dei romantici perché ci illudevamo che la nostra vita si sarebbe trasformata in una festa della libertà. Poco alla volta ci siamo resi conto che la nostra era una rappresentazione naif di quello che stava accadendo. Per esempio, non sapevamo molto di ciò che avevano vissuto i dissidenti russi, perché conoscevamo solo il piano di creare l’uomo perfetto, l’homo sovieticus, un personaggio tragico. Sulle facciate delle baracche dei lager staliniani che avevo visitato campeggiava lo slogan imperativo: “Convogliamo con mano di ferro l’umanità verso la felicità”. Così, finalmente, stiamo prendendo coscienza che la strada della libertà è ancora tortuosa e tragica. Perché il comunismo continua a espandersi».

La libertà è uno dei suoi pilastri irrinunciabili della civiltà moderna: perché non è ancora una conquista sicura?

«Purtroppo il fascismo fa parte della nostra vita perché in democrazia è la maggioranza che governa. Così è ancora il fascismo a decidere».

Usa il termine fascismo come sinonimo di dittatura o come espressione di un sistema storicamente definito?

«Il premio Nobel Czeslaw Milosz ha dichiarato che presto il fascismo si mostrerà a tutti come un’operetta di cattivo gusto al confronto con il comunismo che penetra in maniera profonda nella natura umana. Il comunismo proclamava un sistema di vita uguale per tutti e perciò era considerato giusto. Quello che stiamo vivendo è un momento difficile perché tutti coloro che desiderano una vita nuova non pensano che quando il benessere si diffonderà anche loro saranno benestanti. Di solito si sottolinea come vivono bene gli altri senza riconoscere come viviamo bene noi».

Essendo più affascinante, il comunismo è più pericoloso?

«Il fascismo è più diretto, più semplice. Il comunismo propone delle idee affascinanti».

Perché ritiene che il comunismo sia in espansione?

«A Mosca e a San Pietroburgo è difficile trovare qualcuno davvero felice. Il comunismo non vuole morire e cercherà ancora a lungo di impossessarsi delle nostre menti. I russi di oggi rimpiangono quello che avevano i loro genitori e i loro nonni. Vorrebbero conservare la proprietà privata, ma anche una certa idea egualitaria. Il modello cinese esercita un certo fascino. Sto intervistando tante persone che rimpiangono il fatto che in passato erano tutti uguali, che si lavorava di meno e la vita era più semplice. Rimpiangono l’epoca di Leonid Breznev: se ricordi loro i lager e i gulag ti rispondono citando la vittoria della Seconda guerra mondiale».

Nei suoi libri ha raccontato la guerra e la catastrofe nucleare di Chernobyl, concentrandosi sulla descrizione del male.

«Voglio descrivere il male nella quotidianità delle guerre, nei piccoli conflitti che ci sono. Voglio capire perché viviamo così».

Che risposta si e data? Il male viene dalla superbia dell’uomo che si ritiene onnipotente grazie alla tecnologia o dall’ideologia?

«Il male proviene dall’ideologia. Lo abbiamo visto anche nel periodo di Boris Eltsin, presunto riformatore, vittima dell’alcolismo. Vladimir Putin ha creato un programma di recupero di ciò che è stato e ha trasformato a proprio vantaggio il pericolo del ritorno del comunismo. La difesa dagli attacchi alla Russia è stato il punto di partenza della sua ascesa. Il popolo taceva e lui ha cominciato a parlare. Disse che avrebbero cercato e ucciso i Ceceni, nemici della Russia, fin dentro i bagni».

Si definisce una storica dell’anima. Chi ha visto la serie tv Chernobyl ricorda la storia della vedova del vigile del fuoco Vasilij Ignatenko che nel libro è ancora più drammatica. Da che cosa le viene questa pietas?

«Sono cresciuta tra queste persone e le ho osservate. Mi sono sempre chiesta perché nessuno capisce queste sofferenze».

Nella sua letteratura le voci degli umili diventano protagoniste.

«Perché parlare sempre degli eroi e non delle persone semplici?».

Annota che il giorno dell’esplosione della centrale nucleare di Fukushima venne presentata la nuova versione dell’ipad: perché mette in relazione questi due eventi?

«La relazione è data dalle prospettive tecnologiche. Produciamo oggetti e sistemi che poi non sappiamo gestire. È come se la tecnica fosse già più alta di noi. Il nostro inchinarci davanti a ogni nuova versione di cellulare o tablet è una forma di follia collettiva».

È l’illusione dell’onnipotenza che deriva dalla tecnologia?

«Non solo, anche il fatto che va oltre le nostre possibilità di gestirla».

Gli scienziati nucleari di diversi paesi le hanno detto che le loro centrali «sono affidabilissime».

«Un funzionario russo ha sostenuto che se ne poteva installare una sulla Piazza Rossa. Uno giapponese mi ha risposto che quello delle centrali nucleari è un problema di noi russi. Poi c’è stato il disastro di Fukushima».

«Quanto uomo c’è nell’uomo?», si chiede Fëdor Dostoevskij. È ottimista a questo proposito?

«Non sono molto ottimista. Credo sia necessario un cambio di mentalità. Io vivo in un condominio nel quale ogni singolo membro di tutte le famiglie che lo abitano possiede un’auto. Che umanità possiamo vedere in questa situazione?».

Il suo pessimismo è determinato dalla corsa frenetica al benessere?

«Sì».

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Chernobyl stana la falsità dell’ideologia sovietica

«Qual è il prezzo delle menzogne?». Il primo episodio di Chernobyl è racchiuso tra la domanda pronunciata dalla voce fuori campo di Valerij Legasov e la morte di un uccellino che precipita a terra, avvelenato dalle radiazioni. Lo scienziato mandato dal Cremlino per fare luce sull’incidente alla centrale nucleare del 26 aprile 1986 a 120 chilometri da Kiev non regge più il peso delle colpe e dell’omertà. Sono trascorsi due anni dal più grande disastro nucleare della storia e, dopo aver registrato le sue memorie su sei audiocassette, Legasov (Jared Harris) s’impicca. Tra le due morti che aprono e chiudono la prima puntata si dispiega tutta la drammaticità di Chernobyl, la miniserie in 5 episodi prodotta da Sky e Hbo, ideata e sceneggiata da Craig Mazin e diretta da Johan Renck (Sky Atlantic, lunedì, ore 21.15). Nella quale il vero protagonista è proprio la menzogna, ovvero il tentativo d’insabbiamento dell’accaduto operato dagli uomini della nomenklatura sovietica.

La temperatura del reattore numero 4 si è alzata fino a provocare l’esplosione del nocciolo, ma i responsabili della centrale non lo vogliono ammettere. La reputazione dell’Urss va tutelata prima e sopra ogni cosa. L’incidente è solo una disattenzione del personale di turno e sarà rapidamente ridimensionato. Chi sosterrà il contrario sarà ridotto al silenzio. Non serve evacuare la città né adottare procedure di particolare emergenza, l’immagine del socialismo è prioritaria, sottolinea il burocrate anziano citando l’effigie di Lenin appesa alla parete. Invece, tra i corridoi di lamiera, i sotterranei invasi dalle acque infette, le fiamme radioattive si consuma la catastrofe. Il volto intriso di timori e fragilità della moglie del pompiere richiamato in servizio trasmette tutto il senso d’impotenza e d’ineluttabilità della tragedia incombente. E mentre i vicini di casa provano a esorcizzarla, alcune particelle della nube tossica svolazzano minacciose nell’aria blu della notte.

Contestata dai media ufficiali russi, a metà tra linguaggio documentaristico e racconto di finzione, Chernobyl ha ottenuto il più elevato indice di gradimento per una serie tv sull’autorevole sito Imdb e si candida a essere uno dei migliori show dell’anno. Nelle facce spaventate delle maestranze, costrette dai superiori a mansioni a rischio di contaminazione e inadeguate all’apocalisse in atto, si evidenzia in modo lampante la contraddizione fatale tra ideologia e tragica realtà.

La Verità, 13 giugno 2019