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«Foa cancellato perché libero. È una vergogna»

Alberto Contri, sul Sussidiario.net lei ha scritto una lettera aperta all’amministratore delegato della Rai Giampaolo Rossi sulla inaspettata chiusura di Giù la maschera, la striscia quotidiana di Radio 1 ideata e condotta dall’ex presidente Marcello Foa. Risposte?
«Nessuna».
Come se lo spiega?
«Penso che non mi considerino degno di attenzione. Ma non tanto me come persona, quanto l’argomento che ho sollevato. Non dev’essere trattato perché crea solo imbarazzo».
Eppure, con Rossi ha lavorato a stretto contatto a Rainet. Anche per una vecchia colleganza una risposta era opportuna.
«Siamo stati in uffici attigui per quattro anni. Io gestivo e lui apprezzava e dichiarava su Rainet. Ma eravamo anche ottimi amici e lo stimavo molto. Da quando è diventato prima direttore generale poi amministratore delegato non sono più riuscito a parlargli».
Il silenzio dei vertici aziendali è un tratto distintivo di questa vicenda. Anche il direttore di Radio 1, Nicola Rao, dopo un colloquio con Foa in cui aveva promesso risposte, si è dileguato. Come se lo spiega?
«Temo che sia lo stile di questa gestione che ci sta portando silenziosamente nel Grande fratello di George Orwell».
In che senso?
«
Se guarda i telegiornali sono a base di notizie non date, omertà, incensamenti e tagli di nastri. E il resto è tutto intrattenimento che addormenta e non deve disturbare».
Un quadro tragico.
«Non me l’aspettavo. Essendo politicamente un moderato mi aspettavo maggiore attenzione alla diffusione del senso critico, che invece vedo anestetizzato. Prendiamo, per esempio, le notizie sul caso del ministro della Salute Orazio Schillaci o le nuove evidenze emerse dai video delle riunioni del Cts (Comitato tecnico scientifico) sui vaccini: di tutta questa discussione sui tg Rai non c’è traccia alcuna. È ciò che, paradossalmente avviene anche sulla stampa sugli obiettivi del deep state e del potere di oggi in Italia».
Può spiegarsi?
«Al Meeting di Rimini i nipotini di don Giussani hanno applaudito ugualmente Mario Draghi e Giorgia Meloni che, in realtà, dovrebbero essere su fronti opposti. L’establishment e il deep state comandano».
Accuse pesanti. Torniamo al caso del giorno: un ex presidente della Rai non ha ricevuto comunicazione ufficiale della cancellazione del suo programma.
«È una vergogna con la v maiuscola. Perché non è solo un fatto di galateo: come diceva Giovanni Testori, la forma è essa stessa sostanza. Non aver sentito il bisogno di incontrarlo è la cartina di tornasole dell’atteggiamento stile Marchese del Grillo, <Io sono io…>, il seguito lo conosce. O, per meglio dire, la convinzione di padroneggiare la comunicazione fa calpestare qualsiasi regola di rispetto professionale».
A volte lei è stato ospite, che tipo di programma era Giù la maschera?
«Per me rappresenta la quintessenza del servizio pubblico».
Che cosa le piaceva in particolare?
«In un’ora si affrontava un argomento di attualità, anche delicato, con tre ospiti di opinioni e tendenze diverse trattati con garbo e uguale spazio. Non si prendeva mai parte per uno o l’altro, a differenza dei talk show dove si cerca la rissa per fare audience e non si insegue minimamente uno straccio di verità».
Ricorda qualche puntata che ha sollevato proteste?
«Quella dove fu invitato il dottor Massimo Citro Della Riva che aveva avuto espressioni molto severe nei confronti dei vaccini. Ma nonostante l’equilibrio dato dalla presenza di personalità che interpretavano il pensiero ufficiale delle istituzioni (erano presenti l’ex funzionario dell’Oms Francesco Zambon e l’infettivologo Massimo Galli ndr), Foa fu obbligato a una trasmissione riparatrice. Che però, essendo fatta sempre con il sistema tre opinioni diverse, non accontentò del tutto chi l’aveva pretesa».
Era un programma sotto costante osservazione?
«Sicuramente, perché trattava temi spesso delicati con indipendenza e anche con la partecipazione di Alessandra Ghisleri che forniva dati e ricerche documentate».
Perché il servizio pubblico che dovrebbe vantare questo programma come la sua quintessenza invece lo ha chiuso?
«Per questo ho scritto la lettera aperta indirizzandola a Giampaolo Rossi ma, in realtà, rivolgendomi a quello che chiamo il giro del fumo che avvolge la Rai e la politica».
Oltre all’establishment o al deep state era disturbato anche l’Usigrai, che avrà brindato.
«Certo. C’è stata una quantità di argomenti come il declino demografico e l’immigrazione che intersecavano e sollecitavano l’attività del governo. La mia supposizione è che, forse, questi argomenti e gli ospiti che li trattavano magari esprimendo pareri negativi sull’attività del governo, possano essere stati troppi».
Foa ha detto che poteva aspettarsi la chiusura da una Rai di sinistra non da una Rai con questa governance.
«Assolutamente. È il motivo del mio grande stupore».
Una buona parte dell’opinione pubblica aspetta ancora qualche segnale chiaro di innovazione della Rai che la vulgata chiama teleMeloni.
«Se il buongiorno si vede dal mattino non siamo messi benissimo. Mi sembra che il motto di questa gestione sia quieta non movere et mota quietare (non agitare ciò che è calmo e calma ciò che è agitato). Soprattutto: non disturbare il manovratore».
La prima vittima di radioMeloni, sempre che ci sia, è un programma condotto da un ex presidente di area moderata e di formazione montanelliana?
«Questo è il fatto politico preoccupante. Comunque, chi ha deciso la defenestrazione, ovvero il direttore di Radio 1 Nicola Rao, risulta essere una persona di provata fede meloniana».
Radio e teleMeloni, sempre che ci siano, cancellano gli irregolari di destra?
«Siamo davanti a una sorta di eterogenesi dei fini. So per certo che non si vuol dare l’impressione di occupare la tv pubblica, ma in questo caso si è andati ben oltre, liberando la Rai di una persona di centrodestra per poter dimostrare di essere equidistanti».
Nessuno dagli ambienti politici, né la Lega né Fratelli d’Italia, ha difeso il programma.
«È vero, nessuno l’ha difeso nella maggioranza. E i queruli esponenti di Articolo 21, sempre prontissimi a difendere il servizio pubblico e la libertà d’informazione, dove sono finiti?».
O sei omologato o anche la destra ti cancella?
«Sì».

 

La Verità, 30 agosto 2025

«Macché TeleMeloni, la Rai è piena di woke»

Alberto Contri, le piace TeleMeloni?
«Francamente non riesco a capire cosa sia realmente. È una formula giornalistica, un’etichetta sciocca perché la Rai è da sempre, per definizione, incline al governo del momento. Posso testimoniarlo in prima persona: in Rai la sensibilità governativa si è sempre affermata nella scelta delle persone e nelle carriere da promuovere».
Presidente per vent’anni della Fondazione Pubblicità e progresso, autore e saggista (ultimo libro La sindrome del criceto, Nexus, 2023), Contri ride quando gli ricordo che è stato consigliere Rai dal 1998 al 2002 in quota Forza Italia.
«Così dicevano, ma era anche quella una scorciatoia giornalistica. Quando venni nominato, Fedele Confalonieri mi mandò un messaggio: apprendo dai giornali che sei di Forza Italia, non lo sapevo; e forse non lo sapevi neanche tu. Tant’è vero che poi, insieme a Vittorio Emiliani che avrebbe dovuto essere in quota alla sinistra, promuovemmo eventi come La Traviata a Parigi o chiedemmo ad Antonio Lubrano di spiegare le opere con i sottotitoli, scandalizzando i puristi della lirica».
Poi è stato amministratore delegato di RaiNet che in qualche modo è stata l’antenata di RaiPlay.
«Non in qualche modo, RaiPlay è la figlia diretta di RaiNet, tant’è vero che l’attuale direttrice, Elena Capparelli, era la mia principale collaboratrice. Il presidente invece era Giampaolo Rossi».
Torniamo a TeleMeloni. Questa Rai è totalmente al servizio del governo e del premier?
«Totalmente al servizio… Forse nella gerarchia delle notizie dei tg o nel silenzio su alcune altre».
Per esempio?
«Qualche giorno fa la numero uno dell’Intelligence americana Tulsi Gabbard ha accusato Barack Obama di alto tradimento. Ha detto di essere in possesso di prove che dimostravano la sua influenza sulle indagini sul Russiagate nel 2017 per indebolire Donald Trump. Mentre in America non s’è parlato d’altro per giorni, i nostri telegiornali hanno silenziato la notizia».
Forse si è ritenuto che la Gabbard volesse recuperare considerazione presso Trump dopo che l’aveva criticato per l’attacco all’Iran?
«Ne dubito. Si trattava di una conferenza stampa ufficiale. Con lei c’erano diverse altre personalità che hanno messo a disposizione dei documenti. Invece di dare questa notizia sono stati proposti numerosi servizi sulla vicinanza fra Trump e Jeffrey Epstein, un gossip di tutt’altra importanza».
Se così fosse, sarebbe una conferma dell’inesistenza di TeleMeloni.
«Infatti, perché sono ancora attivi i giornalisti di sempre. Forse una certa inclinazione filogovernativa la si vede nell’eccesso di cronaca nera, utile a non disturbare il manovratore».
Quindi, secondo lei nella gestione dell’informazione TeleMeloni esiste?
«Forse c’è una tendenza fisiologica ad allinearsi. Nulla di diverso da ciò che c’è sempre stato con qualsiasi governo. È il solito doppio standard: se lo fa la sinistra è lealtà culturale, se lo fa la destra apriti cielo. Coloro che oggi accusano li ho visti all’opera per anni».
E cos’ha visto?
«Intervenivano senza troppe remore. Il presidente dell’epoca Roberto Zaccaria aveva codificato il metodo sostenendo che l’informazione andava suddivisa in tre parti, una alla maggioranza, una all’opposizione e una al governo. Così i due terzi degli spazi erano filogovernativi. La stessa spartizione si applicava nei programmi di approfondimento».
Qualche giorno fa l’amministratore delegato Giampaolo Rossi ha replicato alle critiche alla Rai rivendicando il fatto che è «la prima fonte informativa degli italiani» e che sullo sport investe molto e vantando «il ritorno di Benigni». Dobbiamo essere soddisfatti?
«Assolutamente no. Se scorro i palinsesti non vedo novità rilevanti. Non c’è nessuna discontinuità.
Da quanti anni Mara Venier conduce Domenica In, da quanti anni c’è Ballando con le stelle, da quanto tempo c’è Antonella Clerici, che mi sta pure simpatica?».
Squadra che vince non si cambia.
«No, certo. Ma qualche iniezione di novità si potrebbe fare. E poi Rossi dice una cosa più ambiziosa: la Rai racconta il Paese. L’ha detto anche quando ha presentato il Concertone del primo maggio: il nostro è un racconto che rispetta il pluralismo. Quale sarebbe il pluralismo rappresentato da Big Mama? Anche la fiction di oggi è farcita di cultura woke e di figure rappresentative delle comunità arcobaleno».
La Rai vanta anche il successo dell’ultimo Festival di Sanremo e di Affari tuoi.
«È come giudicare il guardaroba di una persona dall’abito per la cena di gala. Poi la quotidianità è tutta virata al relativismo etico».
Le piace di meno l’intrattenimento o l’informazione?
«Mi sembra tutto modesto. Come è modesto l’intero contesto nazionale, e cito la disillusione di Marcello Veneziani per lo stato del Paese. Che inevitabilmente si riflette sulla tv pubblica».
Che dovrebbe avere una funzione diversa?
«Di elevazione del senso critico della popolazione. Se prendiamo la musica c’è da essere scoraggiati, altro che elevazione. Si mira verso il basso perché puntando verso il basso è più facile catturare l’audience. E qui emerge il peccato originale dei due colossi che si contendono la pancia del pubblico».
Diceva della cultura woke nella fiction.
«E anche nei varietà e nei programmi d’infotainment. Mentre in America si registra un decadimento in seguito alla ribellione dei cittadini, in tante trasmissioni della Rai, radio compresa, che seguo per motivi professionali, prevale il woke de noantri».
C’è qualche dirigente in particolare che lo promuove?
«Ricordo che una volta, quando era direttore di Rai 1, Stefano Coletta sbottò contro chi chiamava Rai 1 Gay 1: “A me non interessa con chi vanno a letto i miei collaboratori”. Io dico che quando si manda in onda un numero rilevante di persone di orientamento omosessuale la loro visione si diffonde urbi et orbi. L’ha detto più volte anche Mauro Coruzzi in arte Platinette: mai come ora i gay sono sovrarappresentati in tv. Invece, con grande rispetto per le scelte di ciascuno, sono poco più del 3,5% della popolazione. Nella giuria di Ballando con le stelle, che è il varietà di punta del sabato sera di Rai 1, sono la metà. Se si dice che la Rai racconta il Paese, penso che la giuria di un programma popolare dovrebbe rappresentare la segmentazione del pubblico».
Va meglio la parte degli approfondimenti e dei tg?
«Purtroppo no. Ci è voluto molto tempo prima di far apparire la realtà di Gaza. E anche sull’Ucraina c’è stata una narrazione a senso unico. Ricordiamo l’oscuramento del corrispondente da Mosca Marc Innaro che, piuttosto di non far nulla, chiese di andare al Cairo. Non si poteva dire tutta la verità sull’Ucraina, o come ha fatto papa Francesco, che la Nato si era avvicinata ai confini con la Russia. All’opposto, quando Giorgia Meloni dialogava con Joe Biden, da Washington Claudio Pagliara era facilitato a pronosticare la vittoria di Kamala Harris. Credo che questo non avvenga a causa di imposizioni, ma per forme di allineamento fisiologiche. La Rai è un corpaccione stratificato negli anni, hai voglia a spostare le persone… Uno come Giancarlo Loquenzi, ex direttore di Radio radicale, conduce Zapping da decenni e va spesso ospite del Tg3 insieme a Giovanna Botteri».
La vecchia Telekabul però è stata ridimensionata.
«Ma dove? Pensiamo a Monica Giandotti, brillante suffragetta progressista, che da Lineanotte di Rai 3 è approdata alla conduzione di Tg2Post».
E da studioso dell’innovazione nella comunicazione cosa pensa dei programmi di divulgazione sull’intelligenza artificiale e la rivoluzione digitale?
«Ho sempre apprezzato Codice. La vita è digitale di Barbara Carfagna. Purtroppo, in questa ultima stagione sta mostrando una tendenza riduzionista, materialista e transumanista».
Semplificando?
«Un conto è raccontare le avanguardie digitali, un altro è magnificare l’idea di Alexandr Wang, “l’astro nascente della Silicon Valley”, di fare un figlio solo quando potrà impiantargli un neuralink nel cervello allo scopo di avere un figlio enhanced, potenziato. Oppure, altro eccesso, tessere le lodi del cosiddetto gemello digitale, costituito da ciò che rimane di noi in rete che, quando smettiamo, potrebbe continuare a lavorare al posto nostro».
Invece?
«Quando è disconnesso da quello primigenio, il gemello digitale è solo una massa di dati inerti che, non essendo gestita dal libero arbitrio di una coscienza, non potrà mai fare nulla».
Codice. La vita è digitale da quale direzione dipende?
«Va in onda su Rai 1 e Mara Carfagna è una giornalista del Tg1 che gode di ampia autonomia. Ma, anche se ogni tanto intervista qualche voce critica degli algoritmi, il servizio pubblico dovrebbe fare attenzione a promuovere certe derive transumaniste».
È stata una scelta vincente eliminare i direttori di rete e creare strutture editoriali per generi – intrattenimento, informazione, fiction, sport – trasversali alle reti?
«Si procede per tentativi. Con Carlo Verdelli direttore editoriale si era provato a organizzare l’informazione, senza riuscirci. Ora si è accentrato il potere in poche mani per semplificare i processi. Ma sono le reti a sapere di quali prodotti hanno bisogno».
Invece così le reti non hanno più identità?
«Esatto. Adesso le gerarchie sono meno chiare e, oltre alla concorrenza di Mediaset, gestire quella interna alla Rai è più complicato. In questa governance che prevede un direttore generale e un amministratore delegato è tutto un po’ confuso e non si capisce bene chi comanda».
Da un anno e mezzo si attende la nomina del presidente di garanzia, rimpiazzato dalla reggenza di Antonio Marano, consigliere anziano. È questa situazione a indebolire la linea di comando o manca una squadra di dirigenti che possa aiutare l’ad?
«La seconda che ha detto. Comunque, il presidente di garanzia è un ossimoro. Ne ho conosciuti tanti, anzi, tante visto che molte erano donne, da Anna Maria Tarantola a Lucia Annunziata fino a Monica Maggioni. Non ho mai capito bene quale fosse la loro funzione. Ancora più incomprensibile mi risulta quella della Commissione parlamentare di Vigilanza, un reperto di archeologia partitocratica. In questa situazione non si può prendersela più di tanto con Giampaolo Rossi. La Rai avanza per inerzia. La conferma è che da decenni i programmi sono sempre gli stessi: Sanremo, Benigni…».

 

La Verità, 30 luglio 2025

L’autismo dei migliori avvelena ogni dialogo

Siamo diventati un Paese autistico. Cioè, lo siamo da tempo, ma è come se la pandemia da Covid-19 avesse radicalizzato e accelerato una tendenza in atto. Forse era inevitabile. Era inevitabile che l’avvento di un fatto inedito come un’epidemia planetaria portasse a esasperare le differenze, a divaricare le weltanschauung, le diverse visioni del mondo. Da una parte c’è infatti l’ideologia con i suoi derivati, il primo dei quali è il complesso di superiorità strisciante nell’area progressista. Dall’altra c’è il pragmatismo, magari un po’ qualunquista del buon senso. Le conseguenze delle due concezioni sono uno spettacolo quotidiano sotto gli occhi di tutti. Parlando della pandemia, nel primo caso si pontifica a reti e giornali pressoché unificati, sicuri di essere dalla parte giusta della storia. Nel secondo si rischia di amplificare posizioni poco credibili e spesso molto rudimentali. Tuttavia, considerando il fatto che, come si è soliti dire, la scienza procede per approssimazioni e giunge a regole definitive solo dopo infinite prove sul campo, forse sarebbe il caso di non distribuire certezze e imporre comportamenti come fossero dogmi assoluti e incontrovertibili. Lo dico da vaccinato fino alla terza dose.

Questa lunga premessa serve solo per sottolineare che le guerre di religione hanno fatto il loro tempo. Purtroppo, però, spesso accade che l’autismo dei buoni avveleni i pozzi del dibattito, riducendo drasticamente gli spazi del dialogo fin quasi a renderlo impossibile. L’abbiamo visto in modo esemplare l’altra sera quando, mentre stava tentando d’illustrare dei dati, l’ex presidente di Pubblicità Progresso e consigliere Rai, Alberto Contri, è stato costretto ad abbandonare #cartabianca per non sottostare alla gragnuola d’insulti scagliati dal giornalista saltafila Andrea Scanzi. Il tutto con l’approvazione degli altri ospiti (tranne uno) e nonostante il tentativo di Bianca Berlinguer di sedare gli animi. È un copione che si rifrange all’infinito, come l’immagine tra due specchi, nelle strisce d’informazione quotidiana di La7, di cui Otto e mezzo è l’esempio più plastico. La conduttrice, infatti, con i suoi cortigiani abituali, è la campionessa assoluta di questo autismo dei migliori. Quello che mal tollera le voci dissenzienti, le depotenzia nella loro capacità espressiva. Il catalogo è ricco. Nonostante la giornalista-scrittrice si spertichi negli inviti pubblici ad abbassare il grado di testosterone in politica per dare finalmente spazio all’empatia femminile, appena si appropinquano alla sua cattedra Giorgia Meloni o Maria Elena Boschi subiscono un trattamento da posto di polizia venezuelano. Al di là dell’appartenenza di genere, la discriminazione riguarda diffusamente le posizioni di tipo conservatore e si applica ai temi etici, alla giustizia, alla gestione dei flussi migratori oltre che, ovviamente, al Covid. Il problema è che la conduttrice di Otto e mezzo prolifera dentro e fuori la rete di appartenenza dove, non a caso, la tentazione di promuovere «un’informazione meno democratica» è di casa.

Secondo Ernesto Galli della Loggia il peccato è già ampiamente commesso: «Nell’arena pubblica specie radiotelevisiva», ha scritto restando voce solitaria sul Corriere della Sera, «capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione». Nel dibattito televisivo «la modernità diviene un feticcio da adorare» e a illustrarne le meraviglie, ha proseguito lo storico, viene regolarmente «chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra». Regolarmente maltrattato.

Il trampolino di lancio è sempre quello, l’autismo dei buoni. Cioè l’incapacità di mettersi in discussione e di ascoltare visioni diverse. Come definire per esempio il comportamento del Fatto quotidiano in materia di giustizia? La sequela di smentite alle sue tesi giunte dalle sentenze sulla mega tangente Eni o sulla trattativa Stato-mafia sono per caso servite a ridurre il digrignar di denti che attraversa le pagine del quotidiano diretto da Marco Travaglio? Ancor più testardi dei fatti, si prosegue monoliticamente nella medesima direzione.

Dubbi non sono ammessi. Dopo esser stato contestato da larga parte dei movimenti femministi e fermato in Parlamento, ora il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia viene riesumato dalla rete Re.a.dy (Rete nazionale delle pubbliche amministrazioni anti discriminazioni) che unisce regioni ed enti locali a guida progressista attraverso «azioni informative e formative» rivolte «a tutta la popolazione» per promuovere iniziative di sostegno dell’agenda Lgbt. In pratica, Re.a.dy opera per affermare un ddl Zan strisciante e mascherato in appoggio alle giornate del Gay Pride, nell’ambito del quale l’associazione stessa è nata. Siccome si è dalla parte del giusto, si procede imperterriti. Lo stesso si può dire per le campagne per la legalizzazione della cannabis e il suicidio assistito promosse in pieno stato d’emergenza. Il quale, evidentemente, ha importanza intermittente. Come ha ben reso il tweet di Gavino Sanna (presidente dell’Associazione consumatori del Piemonte): «Maestà, il popolo ha fame. Dategli bagni inclusivi e linguaggio gender neutral». Ma forse l’esempio più involontariamente comico di autismo dei buoni è la recente intervista concessa da Carmen Consoli al Corriere della Sera. Dopo aver spiegato di aver scelto il padre di suo figlio in un catalogo per la fecondazione assistita praticata in una clinica specializzata a Londra, rispondendo a Walter Veltroni che le chiedeva quale fosse oggi «la virtù che sta sparendo più pericolosamente», la cantante siciliana ha detto: «Empatia. Una notevole diminuzione di empatia, una grande rimonta del narcisismo. Crea sterilità. È tutto usa e getta. Le persone si trattano come se fossero un telefonino». Testuale. L’autismo è inscalfibile e impedisce di pensare a sé stessi in modo critico. Nel caso non ha aiutato a farlo nemmeno l’intervistatore, autore a sua volta anche del pamphlet Odiare l’odio, il cui titolo postula da solo che c’è un odio buono e uno cattivo. E, ovviamente, quello buono è il suo.

Recita il vocabolario Treccani alla voce autismo: «In psichiatria, la perdita del contatto con la realtà e la costruzione di una vita interiore propria, che alla realtà viene anteposta, come condizione propria della schizofrenia e di alcune manifestazioni psiconevrotiche».

Post scriptum Per fortuna esistono piccole, ma significative eccezioni. Esempi di rottura dell’impermeabilità nei confronti del reale e di chi la pensa in modo diverso. Li enumero sinteticamente. La convention di Atreju, dove sono sfilati i leader di tutti i partiti. La decisione di Repubblica di arruolare Luca Ricolfi tra i suoi editorialisti. La revisione dei toni critici di Antonio Socci su papa Francesco. Non è detto che dietro questi esempi ci siano intenzioni romantiche. Di sicuro non ci sono complessi di superiorità.

 

La Verità, 16 dicembre 2021

 

«Chi difende la famiglia naturale non è omofobo»

Mica facile per un cattolico destreggiarsi nel mondo della pubblicità e dell’advertising. Alberto Contri, 76 anni, nativo di Ivrea, cultore di jazz e contrabbassista a tempo perso, l’ha fatto per mezzo secolo in ruoli apicali di multinazionali e associazioni di settore, unico italiano mai entrato nell’Eaaa (European Association of Advertising Agencies). Già consigliere Rai, poi amministratore delegato di Rainet e tuttora docente dello Iulm di Milano, ha presieduto la fondazione Pubblicità Progresso, dimettendosi superata la boa del ventesimo anno. «Considerato che esercitavo quel ruolo a titolo gratuito, la fondazione è stata la mia forma di charity personale. Ma», racconta, «vent’anni di presidenza sono tanti e, quando negli ultimi tempi, un certo clima politicamente corretto ha iniziato a rendere l’aria irrespirabile, ho preferito lasciare». Dopo McLuhan non abita più qui? (Bollati Boringhieri), l’ultima sua pubblicazione dall’editore La Vela è La sindrome del criceto (postfazione di Salvatore Veca), vivace pamphlet contro il pensiero unico, la mitizzazione dell’intelligenza artificiale e l’invadenza della filosofia gender.

Com’è nato?

«Da tempo seguivo i progressi degli studi sull’intelligenza artificiale che tutto il mondo della pubblicità tiene in grande considerazione».

Che cosa non le tornava?

«Il fatto che non è il nuovo paradiso terrestre come molti fantasticano. È utilissima in tantissimi campi, dalla medicina alla ricerca spaziale, ma se non si sanno interpretare le informazioni che dà non serve a nulla».

Cosa c’è da temere?

«La sua mitizzazione. Anche la mia amica Barbara Carfagna, nel programma di Rai 1 Codice La vita è digitale, promuove le teorie sulla singolarità e il transumanesimo. Secondo lo scienziato americano Ray Kurzweil, poco alla volta la struttura biologica umana verrà integrata dalla nanotecnologia e dalla robotica e con l’aiuto di chip e microchip diventeremo onnipotenti ed eterni».

Invece?

«Invece, come dice Federico Faggin, lo studioso italiano inventore del microchip a base di silicio, non potrà mai esistere un computer con una coscienza: “Una macchina non può compiere scelte veramente creative, ossia scelte che non sono contenute nelle variabili che ha già immagazzinato”».

Elon Musk non la pensa così.

«Infatti la sua auto senza pilota va a sbattere. Perché la complessità della realtà non rientra negli algoritmi. Il computer non può intuire, improvvisare… Detto ciò, Musk è un genio, si è inventato questi vettori spaziali che ora tornano alla base, mentre prima cadevano in mare. Bisogna stare in guardia dalla sua idea che tutto ciò che è sperimentabile sia lecito e giusto».

Dell’intelligenza artificiale fanno grande uso quelli che lei chiama i nuovi padroni del mondo.

«I Gafa: Google, Apple, Facebook, Amazon. Hanno avuto intuizioni straordinarie, ma con quali effetti collaterali? Amazon sta distruggendo il commercio tradizionale, intere filiere produttive. Inoltre, tralasciando il fatto che non pagano le tasse come e dove dovrebbero, come singole persone stiamo regalando loro la nostra privacy. Di cui, Cambridge Analytica insegna, fanno ciò che vogliono».

Gli algoritmi producono conformismo?

«Tendono a tarpare la creatività, l’eccentricità. Uniformano opinioni e consumi, trasformandoci in piccoli automi. Le formule sono tante: se hai comprato questo puoi comprare anche quello; hai visto che cos’hanno comprato quella star e quel vip?».

Torna attuale il vecchio adagio del marketing: se ti danno qualcosa gratis vuol dire che il prodotto sei tu?

«La fregatura è che ci hanno abituati così. Tutte le ricerche di mercato dimostrano che pur di avere i social gratuitamente siamo disposti a tollerare pesanti intrusioni».

Sospetta che lo sviluppo che stiamo perseguendo anziché riguardare l’umanità nel suo complesso giovi «solo ai ricchi, i benestanti, i miliardari divenuti irraggiungibili monopolisti»?

«Da vent’anni celebriamo le magnifiche sorti e progressive di questo sistema, poi arriva un’epidemia e siamo tutti spiazzati. Ci affidiamo acriticamente all’autorità benefica dell’Onu e degli altri organismi mondiali, ma se andiamo oltre la narrazione di facciata ci accorgiamo che la fame e le malattie sono ancora tristemente diffuse».

Un altro allarme riguarda l’invadenza delle teorie gender.

«Oggi dire che gli uomini nascono dall’unione tra un uomo e una donna equivale a discriminare trans e omosessuali. Minoranze intolleranti e rumorose, come ben sa Joanne Rowling, violentemente attaccata per aver detto che il sesso conta più del genere».

In Italia sta per essere approvata la legge sull’omofobia, il ddl Zan.

«Così mentre di chiunque si potrà dire che si è comportato da stronzo, dei gay non lo si potrà dire. È vero che, nella storia, gli omosessuali sono stati discriminati e torturati. Ma provi a dire che oggi sono sovrarappresentati come ha fatto Platinette… Su Rai 1 il sabato sera va in onda un programma in cui due giurati su cinque, ovvero il 40%, sono omosessuali. Tutto ok?».

Perché i grandi marchi sponsorizzano manifestazioni come il Gay pride?

«Perché Accenture (la più grande società di consulenza aziendale al mondo ndr) ha diffuso uno studio secondo il quale chi promuove cause inclusive vende di più. Il che è tutto da verificare. Soprattutto è da verificare se questa politica convenga ai grandi marchi. Il calo demografico derivante dalla marginalizzazione della famiglia tradizionale farà diminuire anche i consumatori».

Perché la parola chiave è inclusività?

«Perché, paradossalmente per i militanti della diversità, uniforma le differenze. Per il pensiero unico difendere la famiglia naturale è sinonimo di arretratezza e omofobia. Ma, una volta inclusi, gli omosessuali diventano a loro volta intolleranti».

Il primato della natura enfatizzato dagli ecologisti funziona per i cuccioli di animali, non per gli umani?

«Secondo i veterinari non si possono togliere cani e gatti alla madre prima del compimento dei tre mesi, ma le madri biologiche non devono vedere i neonati dall’utero in affitto per evitare che si affezionino».

La legittimazione della pedofilia è così incombente?

«L’Associazione degli psichiatri americani sostiene che non è una depravazione, ma un’inclinazione naturale che va gestita. In Italia è stato prodotto con denaro pubblico un film sulla vita di Mario Mieli, attivista omosessuale morto suicida che teorizzava: “Solo noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino… l’essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini”».

Che cos’è la sindrome del criceto?

«Il criceto è dotato di grande velocità per sfuggire ai predatori, ma perché corre come un matto dentro la ruota senza che qualcuno lo insegua? Perché se sta fermo non sviluppa le endorfine e cade in depressione. Lo fa a prescindere dal fatto che quella corsa lo porti da qualche parte».

Perché è un comportamento emblematico?

«Pensiamo alla nostra classe dirigente, politica e imprenditoriale. Gente che occupa posti solo per paura di perdere potere e profitti, fregandosene delle conseguenze per la comunità».

Il prolungamento dello stato di emergenza deciso da Giuseppe Conte è un esempio di sindrome del criceto?

«Si enfatizza una situazione in modo strumentale camuffandola di buone intenzioni per puntellare la propria sopravvivenza».

Giustificando l’accentramento dei poteri.

«Sarebbe interessante se l’Osservatorio di Pavia misurasse per quanto tempo il premier ha occupato la tv con conferenze stampa, dirette Facebook e comunicazioni straordinarie. Tempo che avrebbe potuto dedicare al Paese, invece di continuare a correre nella ruota dei media».

I media sono la ruota?

«Sono organici a una politica di annunci e promesse. I talk show, le maratone elettorali sono un meccanismo sganciato dalla realtà e finalizzato a raccogliere incassi pubblicitari, le endorfine del sistema. Si prendono due esponenti di schieramenti opposti, gli si chiede quanto durerà questo governo e il gioco è fatto. Nessuno crede che un talk show produca una sintesi di qualche utilità per i cittadini».

In chiusura del libro parla di «nuovo umanesimo» come fece Conte insediandosi con il governo giallorosso.

«Sono diversi i referenti mentali. Io propongo un nuovo rinascimento basato sullo studio, il lavoro, il sacrificio. Conte è un avvocato e avrà studiato. Ma io che studio comunicazione da 50 anni mi sento umiliato quando vedo Rocco Casalino, un esperto che si è formato al Grande fratello la cui unica furbizia è saturare i media con il suo leader».

Diventerà un boomerang?

«L’overdose provoca saturazione e nausea. Anche perché Conte ha una comunicazione superficiale, basata su buzzwords: parole d’ordine come sostenibilità, economia green, inclusività, che ormai compongono il sottofondo di uno sciame di api».

Pier Paolo Pasolini profetizzava un’epoca in cui «il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare una nuova inquisizione, un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra».

«Non è quello che stiamo vedendo? Oggi, pur di frenare Matteo Salvini, il Pd si allea con il partito dell’uno vale uno e rinnega la tradizione di Enrico Berlinguer e delle Frattocchie».

In che cosa consistono i Gru, i Gruppi di resistenza umana?

«Il degrado parte dalla diffusione del cellulare già nella scuola elementare e si estende fino a certe carriere costruite molto in fretta. Girando l’Italia ho riscontrato un desiderio diffuso di ripartire dallo studio, dalla ricerca del bello, dal senso di responsabilità quotidiano. Non è l’ennesimo movimento politico “dei carini”, ma un’idea ingenua e ambiziosa allo stesso tempo, che parta dal basso, dai professionisti coscienziosi alle persone comuni».

Adesioni?

«Ne sto già avendo molte e qualificate. Stiamo preparando lo statuto: sentirete presto parlare di noi».

 

La Verità, 18 luglio 2020