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«Le chiese in lockdown mi hanno spinto in Africa»

Il 27 aprile 2020, piena era Covid, con un video di quattro minuti contestò la decisione dell’allora governo Conte di mantenere le chiese chiuse. Poi, nell’ottobre successivo, si dimise da vescovo di Ascoli Piceno e si ritirò in un monastero in Marocco: «In un momento difficile come questo in cui regna confusione e nella società c’è tanta paura, sento profondamente il bisogno di dedicarmi alla preghiera». Giovanni D’Ercole, già vescovo ausiliare a L’Aquila e poi pastore ad Ascoli Piceno, è un volto familiare non solo per i cattolici, ma per tanti altri essendo stato per 24 anni conduttore del programma di Rai 2 Prossimo tuo diventato poi Sulla via di Damasco. A tre anni da quella scelta ha accettato di rispondere alle domande della Verità.

Qual è il motivo del suo trasferimento nel monastero Nôtre Dame de l’Atlas a Midelt?

«Con la pandemia del Covid-19 perdurava la chiusura delle chiese senza la possibilità dei sacramenti. Come pastore non accettavo che si considerassero le chiese luogo del contagio più dei supermercati. Da qui quel video».

Come venne accolto?

«Mi dissero che rompevo la comunione tra noi vescovi non seguendo le indicazioni del governo».

Da chi le fu fatto osservare?

«Alcuni lasciarono capire che anche il Papa lo pensava. Così, per coerenza e per non creare inutili dissidi, decisi di dimettermi e il 29 ottobre 2020 lo feci».

Vedeva una gerarchia troppo acquiescente allo Stato?

«Si erano accettate le direttive del governo e, non volendo fare polemiche, ho scelto di ritirarmi in monastero. Tanta gente si sentiva abbandonata e l’ho portata in preghiera con me. Poi ho cominciato a sostenere spiritualmente diversi sacerdoti, ed è nato il gruppo “Verità e riconciliazione” il cui scopo è dalla sofferenza del Covid far nascere la speranza. Recentemente molti di “Verità e riconciliazione” hanno inviato una lettera ai giornali cattolici perché si faccia verità sui vaccini per cui tante persone si sono allontanate dalla Chiesa. Anche voi della Verità ne avete parlato».

Ha visto che in Italia la Commissione d’inchiesta sulla pandemia stenta a decollare?

«Ricercare la verità fa bene a tutti, anche perché c’è gente che soffre le conseguenze dei vaccini. Il comitato “Ascoltami” raccoglie più di 4.000 persone con gravi postumi dal siero e chiede aiuto. Al loro grido ha risposto un gruppetto di sacerdoti denominatosi “Chiesa in ascolto” per dare a chi soffre un segno di vicinanza della Chiesa. Anch’io ho aderito: parlando con malati a distanza avverto tanta paura e bisogno di ascolto».

Che risposte avete avuto?

«Ho visto tanta rabbia calmarsi quando ci si rende conto che qualcuno ascolta, almeno nella Chiesa».

Tre anni fa divenne in anticipo vescovo emerito di Ascoli Piceno: una scelta che poteva ricordare le dimissioni di Benedetto XVI nel 2013?

«Ho scelto di ritirarmi in preghiera; stando in monastero mi è stato proposto di restare in Marocco a sostegno dei sacerdoti e ringrazio l’arcivescovo di Rabat, il cardinale Cristóbal López Romero, che mi ha accolto. Da quasi tre anni sono al servizio della comunità cristiana composta da 40.000 fedeli in un popolo di 35 milioni di abitanti. Una Chiesa, secondo le parole del cardinale, “insignificante ma significativa”, in gran parte composta da giovani subsahariani».

Come si svolge la vita di preghiera?

«Dalle 3,45 alle 20,30 la giornata scorre tra silenzio, preghiera, lavoro, studio, con la Messa cuore di tutto. Spesso i tempi delle nostre preghiere coincidono con quelli delle preghiere islamiche, annunciate dal muezzin e quasi ogni giorno, al mattino, gli operai tutti musulmani preparano una colazione che chiamiamo “la seconda eucaristia”, un segno che unisce i monaci alla gente».

Il suo monastero ha accolto i superstiti dei trappisti di Tibhirine uccisi in Algeria nel 1996. In che modo ne proseguite l’eredità?

«Padre Jean Pierre Shoumacher, l’ultimo sopravvissuto, è morto il 21 novembre 2021 a Midelt dove si vive il carisma di Tibhirine che unisce alla vita dei trappisti il dialogo con l’islam».

Dopo quel martirio com’è possibile il dialogo in un Paese quasi totalmente musulmano?

«Non si meravigli se le dico che è possibile e anzi persino fruttuoso: è l’incontro di gente che prega e quindi tra credenti. A contatto con quest’islam ho riscoperto la mia fede cristiana, seguendo le orme di Charles de Foucauld e del suo discepolo padre Albert Peyriguère, sepolto in questo monastero».

Ammette che si tratta di un’esperienza singolare, considerato tutto quello che accade in Israele e la sequela di morti di innocenti in Europa?

«Tutto si complica quando si alimentano preconcetti e pregiudizi: il dialogo è invece possibile e papa Francesco sta facendo di tutto per implementarlo. Il dialogo è rispettare e accettare le differenze in cerca di ciò che ci unisce senza accentuare i contrasti. Il vero atout è conservare la propria identità e viverla in modo serio e visibile. Mi permetta di dirle che ascolto spesso musulmani affermare che noi cristiani europei ci vergogniamo della nostra fede. Ed io non so come fare per aiutare a capire che svendere la nostra fede per andare incontro ai musulmani è un grosso errore. Non bisogna aver paura, la violenza, quando c’è, è al di fuori della religione».

C’è chi dice che invece la violenza sia insita nel Corano. Lei non crede che l’islam abbia ambizioni di conquista del mondo occidentale?

«Che i musulmani possano avere questa intenzione è possibile, è il proselitismo, ma il problema è che noi europei abbiamo abdicato alla nostra fede, diventando non più credenti e quindi assai fragili».

La nostra arrendevolezza facilita l’espansione dell’islam?

«Sicuramente, soprattutto se non viviamo più da cristiani perché il confronto deve essere tra “credenti”».

La invito a riflettere su alcuni fatti che sfuggono a questa lettura. In Francia nel 2016 padre Jacques Hamel è stato sgozzato a Rouen da due estremisti islamici, nell’agosto del 2021 padre Olivier Maire è stato ucciso in Vandea dall’uomo che un anno prima aveva appiccato l’incendio nella cattedrale di Nantes.

«Stiamo parlando dell’estremismo. È vero: esiste e le prime vittime sono gli stessi musulmani moderati. L’estremismo è una mina vagante, che riguarda una minima parte dell’islam. Per combatterlo si vive la fede cristiana “senza se e senza ma” e ci si allea strategicamente con quei musulmani che come noi credono in un Dio misericordioso. Ma una domanda va fatta: come si stanno accogliendo gli immigrati in gran parte islamici? La violenza potrebbe nascere proprio da come li trattiamo».

Molti segnali indicano che le seconde e le terze generazioni non vogliono integrarsi e vivono in zone metropolitane dove vigono leggi alternative a quelle dei Paesi ospitanti.

«È tutto vero: paghiamo il prezzo della politica dell’immigrazione che non ha puntato seriamente all’integrazione. Come cristiani poi non siamo spesso un esempio di Chiesa viva, e allora molti giovani musulmani sono sedotti dalla laicizzazione dilagante e dalla violenza come conseguenza di tanti fattori».

In Europa ammette che l’integrazione è fallita anche chi, come Angela Merkel, ci ha provato e creduto a lungo.

«Può essere, ma mi permetta di aggiungere che nessuno finora ha preso sul serio l’integrazione come valorizzazione delle differenze. Domina sempre la paura e la disistima verso il “diverso”.  Don Tonino Bello sognava la “convivialità” e non lo scontro fra le culture».

Da lì come vede l’ondata migratoria verso l’Europa?

«È un’invasione inarrestabile di popoli sfruttati nell’epoca coloniale e oggi con il miraggio dell’eden europeo».

Miraggio è la parola corretta perché indica una realtà che appare, ma non si realizza.

«Si realizza nel senso che chi arriva in Europa è disposto a tutto perché ha capito, a differenza di molti giovani italiani, che bisogna faticare per costruirsi una situazione dignitosa. E ci riescono perché ne sono certi».

Per ora le conseguenze sono soprattutto delinquenza e criminalità.

«Il fenomeno della delinquenza non potrebbe essere utile politicamente a qualcuno?».

Che ruolo ha la Chiesa cattolica nella convivenza tra le diverse religioni?

«Papa Francesco invita al dialogo senza abdicare alla propria identità. Guai a diluire il vangelo perché chi debole si fa, finirà per perdere nel confronto«.

Perché le esortazioni alla pace di papa Francesco sono poco considerate?

«Molti ammirano papa Francesco per il suo desiderio di includere, ma mi capita di sentire gente che non lo vuole ascoltare. Allora dico loro: leggete quel che Francesco scrive nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: “La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”. La pace, diceva Giovanni Paolo II, nasce solo da cuori pacificati e Cristo è la nostra pace».

Lei è anche un uomo di comunicazione: papa Francesco è ascoltato quanto merita o il moltiplicarsi degli interventi sull’attualità rischia di ridurne l’autorevolezza?

«Una regola basilare della comunicazione è che quanto più si parla, meno si è ascoltati. E questo riguarda tutti».

Ha apprezzato l’esortazione apostolica Laudate Deum?

« A mio avviso tutto è utile e interessante, ma oggi si deve andare all’essenziale perché nello sconquasso generale si ha urgente sete di verità: di Dio, come Francesco aveva annunciato attraverso il Giubileo straordinario della misericordia del 2015-2016».

Ha visto nella Laudate Deum un appiattimento sui temi dell’ambientalismo? 

«Conservo sempre nel cuore quello che Francesco ha più volte ripetuto e cioè che la Chiesa non è una Ong che fa solo promozione umana».

Come ha vissuto il Sinodo sulla sinodalità?

«Il cardinale arcivescovo di Rabat è tornato entusiasta soprattutto per il clima di preghiera che l’ha guidato, mentre un vescovo africano era perplesso per le aperture che si stanno facendo».

Che cosa pensa della decisione di papa Francesco di sollevare dall’incarico il vescovo americano Joseph Strickland a causa delle sue posizioni tradizionaliste?

«Il Papa è il Papa e quello che fa ho imparato a non giudicarlo».

Da decenni c’è il calo di partecipazione ai sacramenti e la crisi delle vocazioni. Perché i giovani di oggi dovrebbero essere attratti dalla Chiesa se propone le stesse cose che propone il mondo?

«Ha ragione, ma c’è una grande novità all’orizzonte: è Gesù e i giovani oggi ne hanno sete. Non tradiamo le loro attese».

Le manca la vita attiva di pastore e pensa di tornare in Italia?

«Vivo intensamente la giornata con ampi spazi di preghiera e di ascolto della gente. Ringrazio Dio per tutto e farò in futuro quello che Lui vuole».

 

La Verità, 25 novembre 2023

 

Cercando l’antivirus tra video, ricette e buonismi

Misantropie. Un titolo da non prendere troppo sul serio. Una provocazione. Poco più che un gioco, come suggerisce il plurale. Un’idea per rappresentare dei moti di reazione, degli impeti. La misantropia è un sentimento di odio del genere umano. O di disprezzo e sfiducia, secondo diverse gradazioni. Così, la definiscono dizionari ed enciclopedie. Questo titolo mi è stato rimproverato da qualcuno che ha letto i post del diario nel sito dell’editore che ora, benevolmente, lo pubblica in edizione cartacea, accompagnato dalle immagini del portale pixabay.com, scelte e abbinate ai testi da Paolo Spinello. È vero, la misantropia è un sentimento ostile e negativo, ma lungi da me nobilitarlo oltre la formula della provocazione. Non a caso, queste note sono popolate di amici.

L’idea non originalissima di tenere un diario della pandemia mi è venuta, come a tanti, per l’eccezionalità della situazione nella quale ci siamo trovati. Una circostanza inedita, almeno per chi ha meno di ottant’anni. I più vecchi, infatti, qualche confronto hanno potuto farlo – e si è abbondantemente fatto – con la guerra e, soprattutto, il dopoguerra. Per trovare un’altra vera pandemia, invece, bisogna andare all’influenza spagnola alla fine della Prima guerra mondiale. Servono i libri di storia. Dunque, l’epidemia da Covid-19 è qualcosa di inedito per noi. L’invito alla riflessione è scaturito dalla novità della circostanza che ci ha sfidato. Ha sfidato il nostro cuore e la nostra ragione. Ha interrogato il nostro essere a un livello radicale. Ne è venuta, dicevo, l’idea del diario che, come si è visto, ha stimolato scrittori, letterati, filosofi, autori di cinema e serie tv, giornalisti…

Perché Misantropie? Il titolo nasconde la seconda motivazione. Se questa situazione è così inedita e pervadente, se coinvolge e interroga il nostro essere imponendoci un cambiamento di abitudini e comportamenti, se ci troviamo inusitatamente reclusi per tante ore al giorno davanti a schermi di varie dimensioni o sul divano a leggere; insomma, se ci troviamo in una condizione che richiama certe distopie cinematografiche o letterarie, possibile – mi son chiesto – che siamo già pieni di risposte, di ricette e decaloghi? Possibile che dopo pochi giorni siamo già pronti a dire quello che abbiamo imparato? I moti di reazione sono sorti leggendo queste lezioni, questi consigli. Sentendo il paternalismo diffuso. La mia reazione ha trovato ulteriore fondamento in un pensiero di Blaise Pascal: Tutti i mali degli uomini derivano da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli in una camera (Blaise Pascal, Pensieri, Einaudi, Tornio, 1962; alcune edizioni dei Pensieri riportano Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di stare da solo in una stanza). Noi siamo così. Insofferenti a questa stasi, ribadita dal filosofo e matematico francese con le parole stare, stanza. Fatichiamo a so-stare. A stare di fronte a qualcosa di imprevisto. E anche a stare con noi stessi. Cerchiamo subito soluzioni e distrazioni. Da qui, mi pare, è venuto quel diluvio di articoli, interventi, commenti, esibizioni e anche diari, di certi guru da quarantena. Uno tsunami collaterale, con la sua dose di nocività. Mi è parso che questa ondata di risposte contenesse poca sorpresa e poco spiazzamento, molta pedagogia e molto buonismo. Come se chi distribuiva queste risposte ci fosse già passato, fosse esperto. Mai come in questo periodo, «esperto» mi è parsa parola abusata.

Personalmente, ho pensato che confrontandomi con questa situazione, provando a stare senza far nulla in una stanza, avrei potuto trarne qualcosa di buono. In questo stare avrei potuto cercare l’antivirus. Un antivirus diverso dal vaccino che speriamo troverà presto la scienza.

Da subito, però, ho avvertito un pericolo. Suggerito da una frase che qualcuno ha scritto sui muri di alcune città sudamericane: La romantización de la cuarantena es un privilegio de clase. Anche il mio diario poteva e può aver corso questo rischio. La quarantena trasformata in un esercizio romantico, in un incubatore di narcisismo, favorito dal privilegio di essere in sal, acquistabile qui

ute e di vivere in una casa dignitosa. Un rischio concreto. Che però ho accettato di correre, consapevole che l’occasione determinata dal coronavirus poteva essere irripetibile.

Infine, l’ultimo stimolo a rompere gli indugi è stato il riconoscere che la pandemia ha in sé una critica della società contemporanea. È una contestazione implicita ma forte dell’Occidente. Una civiltà con tanti lati positivi ed elementi di benessere, soprattutto dalla metà del secolo scorso in poi. Una civiltà che dobbiamo e vogliamo ricostruire migliore di prima. Ma nella quale, citando Rainer Maria RilkeTutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile (Seconda elegia duinese, Einaudi, Torino, 1978).

La pandemia da Covid-19 poteva, e può essere, un’occasione per rompere questa cappa.

 

Questa è la premessa di Misantropie. Cercando l’antivirus Edizione illustrata Apogeo Editore

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«Vi spiego perché Casalino va sostituito subito»

Uomo di pensiero, uomo di sinistra, uomo di giornali e riviste colte. Del resto, nella sua Bari, Giuseppe «Peppino» Caldarola è cresciuto nelle sale felpate della Editori Laterza. 73 anni, a lungo vicedirettore di Rinascita, mensile comunista fondato da Palmiro Togliatti, una breve direzione dell’Unità, una più lunga di ItalianiEuropei, la fondazione di Massimo D’Alema, ora a capo di Civiltà delle macchine, il trimestrale della fondazione Leonardo, Caldarola ha l’onestà dell’osservazione ponderata e di posizioni mai settarie. Qualche giorno fa ha scritto che per costruire il dopo pandemia bisogna ripartire da «scienza e umanesimo», stelle polari della rivista. Personalmente, penso che non basti.

Qual è la sua valutazione dell’operato del governo Conte nella crisi determinata dal coronavirus?

«Ci siamo trovati davanti a un problema inedito con un governo altrettanto inedito. Inevitabilmente, si è avuta un’azione a più facce. All’inizio una risposta titubante, poi una comunicazione incerta. Quando si è capito che le piccole misure erano insufficienti e, anche su stimolo dell’opposizione, si sono introdotte norme più rigide, il governo ha acquisito maggiore autorevolezza. Rimane il problema della comunicazione, ma sembra irrisolvibile».

Secondo lei Rocco Casalino va sostituito?

«Certamente sì. Non ho nulla da dire sulla persona. Ma a mio avviso siamo in presenza di una metodologia sbagliata, una scelta di spettacolarizzazione del premier che non gli giova. Credo servirebbe una figura più professionale, che sappia stare nell’ombra».

È solo un vizio di comunicazione quello che il 27 gennaio a Otto e mezzo ha fatto dire a Conte «siamo prontissimi» ad affrontare l’epidemia?

«Nell’epoca moderna si comunica in ore prestabilite e a quell’ora, caschi il mondo, l’uomo di governo parla. Il prolungarsi dell’attesa fa crescere i seguaci sui social ma anche l’inquietudine dei cittadini. La comunicazione rassicurante di Conte ha pagato il prezzo di centellinare la strategia della chiusura che, invece, andava decisa e comunicata subito».

Insisto: Conte diceva che il governo era «prontissimo».

«Si pensava di avere di fronte un virus curabile con la tachipirina e qualche posto letto. Sarebbe stato un linguaggio più veritiero dire: “Non siamo pronti, ma saremo pronti”».

Inseguivamo primati in Europa.

«La sottovalutazione ha coinvolto dal premier a Nicola Zingaretti a Matteo Salvini. Tutti pensavamo si trattasse di un’influenza un po’ più aggressiva. Solo i virologi più competenti hanno avuto l’esatta percezione del pericolo. Il mondo politico ha cominciato a capire quando si è visto che il contagio attaccava le zone forti del Paese».

Parlando di Europa, questa tragedia sancisce anche la fine della cosiddetta Unione?

«Sono stato europeista tutta una vita, l’ho difesa anche quando non lo meritava. Oggi quell’idea si è in poche settimane bruciata. È una sconfitta per la mia generazione, dobbiamo ripensare e trovare nuovi amici, nuove solidarietà nel mondo».

Che responsabilità ha chi ripeteva di essere in possesso delle contromisure?

«I componenti di tutta la classe politica attuale non hanno vissuto la guerra e il dopoguerra, non hanno visto il colera a Napoli e Bari, erano bambini durante il sequestro Moro, ragazzi durante il terremoto dell’Aquila. È una classe dirigente che, non per colpa sua, non si è confrontata con nessuno dei drammi italiani contemporanei».

È culturalmente impreparata a fronteggiare le emergenze?

«Lo è anche psicologicamente».

Questo deficit che forma prende nell’azione di governo?

«Prende la forma del giudizio ondivago. Si passa rapidamente da <non è niente> a <è gravissimo>».

E questo trasmette insicurezza?

«Una classe dirigente forte trasmette certezza di giudizio. Se lo sbaglia, lo corregge e trova quello giusto. Invece siamo appesi alle valutazioni di giornata di Roberto Burioni, di Ilaria Capua, di Massimo Galli».

Approva la cabina di regia aperta all’opposizione?

«Certo, a condizione che ci si entri disarmati».

Senza secondi fini politici?

«Questa battaglia si vince insieme o non la si vince. La guerra per decidere chi è stato più bravo comincia un minuto dopo la sconfitta del Covid-19. Fino a quel momento siamo tutti corresponsabili».

Le norme adottate contemplano limitazioni eccezionali della vita dei cittadini: può stabilirle un governo con un premier non eletto?

«Il governo ha una maggioranza parlamentare. Negli anni del terrorismo uno schieramento che faceva capo agli Stati uniti e l’altro all’Unione sovietica hanno introdotto e osservato norme molto borderline che violavano alcune regole costituzionali. Oggi si potrebbe firmare un patto che metta insieme maggioranza e opposizione. E venti giorni dopo l’ultimo contagio si potrebbe andare a votare».

L’attuale premier è in grado di guidare un governo del genere?

«Credo di sì. Un patto è un patto, ci dev’essere disarmo non solo dell’opposizione, ma anche della maggioranza. La solidità del patto deriva proprio dal fatto che è stipulato tra forze opposte e reciprocamente antipatizzanti. Non che arriva un terzo personaggio…».

Mario Draghi.

«Draghi può servire ad altro, se lo faccia dire da un comunista. Potrebbe essere il De Gasperi della situazione che arriva nel dopoguerra, si fa dare gli aiuti e tira in piedi l’Italia».

In questa situazione sarebbe servito un sistema operativo più snello e decisionista?

«Avrei preferito da subito la nomina di un commissario. Una figura che, su delega del governo, si assumesse tutta la responsabilità operativa necessaria. In Italia, oltre a quello di Guido Bertolaso, al quale vanno i miei auguri, abbiamo avuto l’esempio di Giuseppe Zamberletti che, con determinazione e violando all’occorrenza le regole, ricostruì il Friuli in tempi record. E, in anni più recenti, l’esempio di Gianni De Gennaro che, dopo il fallimento di altri commissari, risolse l’emergenza rifiuti a Napoli».

Conte ha temuto che un supercommissario gli facesse ombra?

«Tenere la prima linea è stato il secondo errore di Conte. In queste situazioni serve una figura che in nome del governo possa ordinare a una fabbrica di riconvertire la produzione, vigilando che lo faccia. O ritirare l’ambasciatore se un Paese rifiuta di venderci le mascherine. Ho massima fiducia in Domenico Arcuri, ma temo sia arrivato tardi».

C’è chi guarda alla Cina e alla Corea invidiando la tracciabilità dei cittadini tipica dei sistemi dittatoriali. Non le pare che anche le nostre norme abbiano caratteristiche da regime?

«Noi stiamo applicando norme borderline, manca poco che siamo fuori dalla Costituzione. Inoltre stiamo gestendo l’emergenza con la logica dell’apparato di forza. Io rovescio la prospettiva: ai cittadini va dato un servizio».

Esemplifichiamo?

«Invece di essere usato solo per controlli e sanzioni, l’esercito potrebbe diventare tramite fra i cittadini anziani o malati e la distribuzione alimentare. Si firma un’intesa tra il ministero della Difesa e i grandi distributori. Si studia il sistema di pagamento, i cittadini ordinano la spesa, i militari caricano i camion e le consegnano. Si fa la selezione dei nuclei familiari idonei al servizio: anziani soli, famiglie con ammalati, con disabili eccetera. Secondo esempio. Dove ci sono zone di resistenza alle regole si controlla il territorio con l’aiuto dell’esercito».

Non crede che si parli molto del «dopo» e che si tenda a sfuggire al «durante»?

«Parlare del dopo è un esercizio intellettuale di consolazione. Non credo alle teorie catastrofiche. Mi auguro che si cominci ad apprezzare l’obbligo dell’interscambio».

Cioè?

«La possibilità che rinasca un’idea popolare di coesistenza pacifica anche tra schieramenti opposti e tuttavia consapevoli di aver bisogno, da avversari, l’uno dell’altro. Questo non è buonismo, ma coscienza della necessità di una reciproca collaborazione».

Paradossalmente con questa situazione abbiamo risolto il problema dell’inquinamento, del traffico, dello spreco di cibo, stiamo recuperando la solidarietà, imparando le risorse della digitalizzazione… Ci servono decine di migliaia di morti per apprendere il senso del limite? L’esito finale sarà la decrescita felice?

«La decrescita non è mai felice. A quelli della mia parte politica dico di non illudersi che sia finita l’epoca del turbocapitalismo. Dobbiamo confrontarci con tutto quello che sta accadendo sapendo che non c’è nessuna teoria di destra o di sinistra che ci dà la ricetta del futuro. In quello che lei chiama durante vedo un conflitto aperto di soluzioni».

Si spieghi.

«Credo che il segreto del dopo sarà la collaborazione interculturale. Questa forma di guerra che è la pandemia ha messo in mora due figure. La prima è il cretino, ovvero colui che parla senza sapere, derivata dalla convinzione populistica del M5s che un click vale decenni di studi. La seconda bocciatura è della figura dell’egomostro. Questa battaglia non la vincono i superuomini, ma le reti di collaborazione».

Che garanzie abbiamo che scienza e umanesimo basteranno in futuro?

«Non bastano perché a entrambe manca ciò che i cattolici chiamano fede e per i credenti di altre religioni è una dimensione meno elitaria dell’umanità. Capace di più interrogativi e di più voglia di affidarsi».

Anche perché scienza e umanesimo, pilastri del Nuovo ordine mondiale, hanno prodotto prima la crisi di Wall Street e ora questa di Wuhan. Basterà registrare meglio la macchina per ripartire?

«Non basterà. La globalizzazione è diventata una forma di ubriachezza molesta. C’è la necessità di una interdipendenza, di una nuova concordia nelle decisioni da parte dei veri poteri mondiali che non sono necessariamente quelli politici».

Sta dicendo che Trump non va bene?

«Esatto. Quello che posso sperare è che ci sia una presa di coscienza basata sul primato del vero, e quindi della scienza, dell’umanità, e quindi della relazione, della persona, e quindi dell’umiltà».

 

La Verità, 29 marzo 2020