Tag Archivio per: cristianesimo

«Non c’è il diritto a migrare A Parigi rito massonico»

Ce lo chiediamo tutti se Dio esiste? Ora è il titolo del nuovo libro in cui il cardinale Robert Sarah risponde alle domande dell’editore David Cantagalli che lo pubblica. Sono domande dell’uomo comune: sulla fede, sull’attualità del cristianesimo, su perché Dio non cancella il dolore, su perché l’uomo si allontana dalla Chiesa. In occasione del Natale e dell’uscita del saggio, il prefetto emerito della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti che si è sempre espresso contro la teoria gender, ha accettato di rispondere anche alle domande della Verità.

Eminenza, anche questanno ci approssimiamo al Santo Natale. Che cosha di profondamente, direi oggettivamente, rivoluzionario questo giorno? In che cosa si differenzia il cristianesimo da tutte le altre religioni?

«Il Santo Natale del Signore Gesù è la memoria attuale dell’evento più straordinario della storia umana: il fatto che Dio sia divenuto uomo, restando Dio, e dunque che Dio abbia voluto camminare sulle nostre strade e nel nostro tempo, per salvarci dall’interno della nostra stessa esperienza umana. L’idea di un Dio lontano è superata per sempre del fatto dell’incarnazione, che rende il Dio-con-noi davvero credibile, perché vicino. Cristo è l’unico iniziatore di un “cammino religioso” che ha la pretesa di essere Dio: “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Questa inaudita pretesa è la differenza cristiana. Tutte le religioni sono un tentativo umano di raggiungere Dio, ed in quanto tentativo possono avere certamente elementi di vero e di bene, ma il cristianesimo è esattamente il contrario: è Dio che ha raggiunto l’uomo. È il capovolgimento della mentalità comune. Dio prende l’iniziativa di venire verso l’uomo per farsi conoscere, farsi vedere, farsi toccare e rivelare il suo amore infinito per noi. Dio viene verso l’uomo tramite l’incomprensibile mistero dell’incarnazione del suo Figlio Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo».

Lavvenimento di duemila anni fa, la venuta, lincarnazione di Dio nel mondo, a quali domande delluomo risponde?

«L’incarnazione risponde a tutte le domande fondamentali dell’uomo! L’uomo, ogni uomo desidera conoscere Dio: il suo misterioso creatore. L’uomo desidera vedere il volto di Dio, aspira ad entrare in relazione con Dio, perché l’uomo sa che solo in Dio trova consistenza. Solo in Dio l’uomo può realmente entrare nella sua vera identità e nel suo vero destino. L’uomo è la sola creatura capace di autocoscienza e di ricerca di significato e tutti sperimentiamo come la presenza di un senso delle cose, coincida e sia direttamente proporzionale alla nostra libertà: senza senso non c’è libertà! L’uomo è – non solo ha – bisogno di verità, giustizia, felicità, amore… Cristo, Dio che si fa uomo, risponde a tutte queste domande, perché apre la possibilità del compimento dell’io, del pieno significato del nostro esistere e della possibilità che il “grido dell’uomo” trovi un interlocutore capace innanzitutto di abbracciarlo. Poi di rispondere in modo ragionevole, cioè, adeguato alla ragione umana».

Quindi, questo è un mistero anche razionalmente comprensibile. Essendo noi esseri umani dotati di un desiderio assoluto dinfinito, senza una promessa di eternità resa possibile dalla condivisione di Dio della nostra condizione, la vita sarebbe solo uno scherzo crudele?

«Dipende da cosa si intende per “razionalmente comprensibile”. Se si ha un concetto di tipo tecno-scientista, per cui la ragione umana si riduce a essere la misura di tutte le cose, allora direi di no: la decisione sovrana di Dio di manifestarsi all’uomo, facendosi uomo, non è “misurabile”, né prevedibile dalla ragione. Se, al contrario, si ha un concetto ampio di ragione, secondo il richiamo di Papa Benedetto XVI nello storico discorso di Regensburg a “dilatare i confini della razionalità”, per cui la ragione è concepita per quello che essa è, una “finestra spalancata sulla realtà”, allora certamente sì. La ragione, per sua natura, cerca risposte alle proprie domande esistenziali. Potremmo dire che la ragione, per il solo fatto di esistere, ha da sempre invocato “una risposta”. La divina Rivelazione cristiana è questa risposta. Il fatto che Dio si sia incarnato, rende accoglibile questa risposta, perché commisurata a quanto l’uomo può comprendere: la condivisione dell’umano, l’espressione in linguaggio umano, la prossimità alle pieghe dell’esistenza. Dio è credibile proprio perché si è fatto uomo e si è reso accessibile».

Una delle principali obiezioni è il dolore provocato dallingiustizia e dalla malvagità delluomo? Perché Dio tace di fronte a queste? Pensiamo alla guerra in Ucraina o ai massacri continui tra palestinesi e israeliani.

«La domanda sul dolore, soprattutto sul dolore innocente, è la domanda delle domande. Noi sappiamo, per divina Rivelazione, che il male è entrato nel mondo a causa del peccato e che ogni uomo sperimenta, nella propria vita, il dramma del peccato personale, che poi diviene peccato sociale. La maggior parte dei mali del mondo è causata dalla malvagità, dal cattivo uso del libero arbitrio, da parte degli uomini. Dio non tace, semplicemente rispetta la libertà che Egli stesso ha donato alla sua creatura, perché “se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare sé stesso” (2Tim 2,13). Dio soffre, Dio odia perfettamente il male, le perversità e i crimini barbari che commettiamo. Però Egli rispetta le opere buone e cattive, e le scelte e le decisioni dell’uomo e dei responsabili politici che, per esempio, hanno deciso e programmato la guerra in Ucraina e in Palestina, provocando così tanti massacri e sofferenze di popolazioni innocenti. Però nella nostra fede cristiana, crediamo che Cristo Signore, poi, ha assunto su di sé tutto il male del mondo, morendo sulla croce. Per questo, solo nella luce della croce, cioè nella fede in Dio che muore con tutti gli innocenti, è possibile stare di fronte al mistero del dolore, sia invocandone la liberazione, sia permanendo nella comunione con Dio e con i fratelli. La risposta a tutte le brutture del mondo resta sempre la divina misericordia».

Qual è lattualità del cristianesimo? Perché è una risposta credibile al mondo contemporaneo?

«L’attualità del cristianesimo è l’attualità dell’uomo. Al di là di tutti i condizionamenti storici, culturali e sociali, noi sappiamo che l’uomo, il cuore dell’uomo è sempre uguale a sé stesso, con sempre delle esigenze che gridano salvezza. Certamente queste, molto spesso, sono silenziate, perché fanno così male che non incontrare una risposta può essere terribile; ed allora scatta il meccanismo dell’anestesia individuale o sociale, della fuga dalle domande, che però è fuga da se stessi. In una cultura che voglia “farla finita con l’uomo”, il cristianesimo risulta estraneo, ma se vogliamo continuare a esistere e a esistere con un senso, allora non possiamo non guardare alla proposta di Cristo, unica persona divina-umana, che dà senso, dignità, consistenza e vera felicità all’esistenza umana. Infine, nessuna tradizione storico-religiosa ama la libertà umana più del cristianesimo, e anche in questo è attualissimo».

Duemila anni fa Cristo fu accolto dai pastori e respinto dagli intellettuali e i presunti costruttori di civiltà. Perché oggi i cristiani, nonostante anche San Paolo ammonisse di non conformarsi, sono così preoccupati di avere il consenso del mondo?

«Non penso che tutti i cristiani cerchino affannosamente il consenso del mondo. Certamente alcuni paiono rincorrerlo irragionevolmente, credendo di trovare risposte più “a buon mercato”. Qualcuno lo fa, ingenuamente, pensando di essere più accettato o di evangelizzare. Forse è vero che il mondo è penetrato molto nella mentalità di tutti e questo è accaduto anche tra i cristiani e nella Chiesa; ma l’umanità non ha bisogno di una Chiesa più umana, più immersa nelle tenebre del nostro mondo, nascondendo così la luce del vangelo di Cristo, ma di una Chiesa più divina, di una comunità credente più raggiante di valori cristiani, che abbia consapevolezza della propria identità di “presenza divina nel mondo” ed offra a tutti gli uomini l’esperienza della prossimità di Dio, indicando costantemente la sua presenza».

Proclamando i diritti umani e civili come prioritari le agenzie internazionali, gran parte dei media e delle comunità artistiche tendono a creare le premesse di una nuova religione che renda superflua la ricerca della trascendenza?

«La ricerca della trascendenza non sarà mai superflua, perché appartiene all’identità dell’uomo; finché ci sarà un solo uomo, questi cercherà il significato dell’essere e della vita, dunque cercherà il mistero, l’infinito, la trascendenza, Dio. Il grande tema dei diritti umani e civili, di cui il cristianesimo è sempre il primo vero promotore, domanda di essere declinato insieme alla verità sull’uomo ed al bene comune. Senza questa “compagnia virtuosa”, i diritti umani divengono mera obbedienza a una arbitraria soggettività e quelli civili pretesa di riconoscimento pubblico dei propri desideri, anche volgari, indegni di un essere umano, non sempre corrispondenti alla propria profonda identità e natura. Certamente la consapevolezza della irrinunciabilità della dimensione religiosa può portare a immaginare una “super-religione” mondiale aconfessionale e priva di ogni dottrina, di ogni insegnamento morale e di ogni trascendenza, ma non basterà mai al cuore dell’uomo».

Questa nuova religione sta attuando la sua prova generale durante la gestione globalizzata delle varie emergenze, cominciando dalla pandemia del Covid e proseguendo con quella ambientale?

«Le nuove tecnologie, utilizzate in tempi di emergenza, possono certamente creare l’illusione, in chi le gestisce, di un “controllo globale”. Non sono lontani gli esempi di Stati che, in certo modo, anche se ancora su base volontaria, stanno già attuando quello che si chiama “punteggio sociale”, divenuto un vero e proprio status symbol, che sostituisce ogni valutazione dell’agire morale, privato e sociale, divenendo nuovo criterio di giudizio. È sempre necessario, nelle emergenze, da parte di tutti conservare un vivo senso critico, senza mai lasciarsi prendere dal panico e, da parte delle autorità, evitare decisioni non sufficientemente ponderate. La chiusura delle chiese, forse, è stata una di queste».

Che cosa ha suscitato in lei la rappresentazione artistica allestita in occasione della cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi, forse levento più globale del pianeta?

«Al di là del cattivo gusto e dell’oggettiva “bruttezza” della rappresentazione, che nulla aveva di artistico, mi pare sia stata la misura dell’odio al fatto cristiano. Mi ha positivamente stupito che la Conferenza episcopale francese, che certamente non può essere accusata di oscurantismo, abbia espresso una protesta formale, seguita da quella della Santa Sede. Vede, quella rappresentazione blasfema e satanica ha mostrato al mondo come i finti irenismi non abbiano spazio e come la battaglia per la verità e il bene sia, in fondo, sempre anche una battaglia soprannaturale. E le battaglie soprannaturali si combattono con le armi soprannaturali: la preghiera, i sacramenti e i sacramentali, inclusi gli esorcismi. Sono molto legato e grato alla Francia, paese a cui la mia storia personale deve moltissimo, e so che quella rappresentazione non è stata affatto l’espressione di tutto il popolo francese, ma di una minoranza ideologizzata, massonica e opportunamente finanziata».

Tra i nuovi diritti proclamati dagli intellettuali e anche da molte personalità del clero c’è quello a emigrare. Perché si fa molto di meno per favorire il diritto, forse più primordiale, a crescere là dove si è nati?

«Non esiste il diritto a emigrare, se l’emigrazione è forzata, organizzata, pianificata per nascondere una forma nuova di schiavitù o di traffico di esseri umani. Esiste il diritto a una vita buona, a esprimere le qualità della propria personalità, a non morire di fame o di malattie perfettamente curabili, e tutto questo potrebbe essere realizzato nei vari Paesi del mondo in difficoltà. Basterebbe ricordare che un terzo del cibo prodotto nel mondo viene gettato via».

Poche settimane fa sono usciti i dati dellAnnuario cattolico. Per la sua conoscenza del mondo africano ed europeo, come si spiega il fatto che i cattolici sono in aumento in tutti i continenti a eccezione che in Europa?

«Credo ci sia una fondamentale ragione di tipo demografico. Noi in Africa amiamo la vita, nonostante tutte le sue difficoltà. A me fa una certa impressione passeggiare in alcune città dell’Europa e non vedere, per ore e ore, un solo bambino. La vera emergenza dell’Europa è quella demografica e alcuni governi lo stanno comprendendo. Il cruciale problema demografico viene dalla distruzione sistematica della famiglia, del matrimonio, dall’egoismo e dall’individualismo come scelta della società occidentale. Ciò chiude una società in sé stessa. Tutto il mondo sarebbe molto più povero senza gli europei e senza gli italiani. Bisogna guardarsi attentamente da ogni tentazione o illusione di sostituzione etnica. Poi c’è una freschezza del cristianesimo africano, vivace e dinamico, perché giovane, che forse quello europeo, un po’ stanco e troppo istituzionalizzato, può aver perduto. Infine, c’è l’ideologia illuminista anticristiana e soprattutto anticattolica, che in Africa non è mai sbarcata, se non per quegli intellettuali che hanno studiato in Europa, esportandone il peggio».

Quali responsabilità ha la Chiesa nellallontanamento di molti dal cristianesimo? O, per dirla con T. S. Eliot, è la Chiesa che ha abbandonato lumanità o lumanità che ha abbandonato la Chiesa?

«L’uomo abbandona la Chiesa, o la fede, ogni volta che si dimentica di sé stesso, che censura le proprie domande fondamentali; la Chiesa non ha mai abbandonato e mai abbandonerà l’uomo. Alcuni cristiani, a ogni grado della gerarchia, possono aver abbandonato gli uomini ogni volta che non sono stati sé stessi, cioè ogni volta che si sono vergognati di Cristo, tacendo la ragione unica del proprio essere cristiani».

Perché, a suo avviso, negli ultimi concistori papa Francesco ha creato solo tre cardinali africani?

«Questo non lo so, bisognerebbe chiederlo al Santo Padre. La Chiesa africana non è in concorrenza con le Chiese sorelle ed è molto onorata di avere nuovi cardinali».

 

La Verità, 14 dicembre 2024

«Perché la Chiesa non può addolcire l’etica sessuale»

Il cardinale Willem Jacobus Eijk, arcivescovo metropolita di Utrecht, già presidente della Conferenza episcopale dei Paesi bassi, ha da poco pubblicato Sull’amore – Matrimonio ed etica sessuale. Grazie all’editore Cantagalli, che lo distribuisce in Italia, ho realizzato questa intervista via mail. Spiace che il coraggio mostrato sostenendo i Dubia riguardo all’Amoris Laetitia non abbia aiutato Sua Eminenza a rispondere alle domande sull’esortazione apostolica di papa Francesco, sulla Fiducia supplicans e sull’Ultima cena queer dell’inaugurazione delle Olimpiadi.
Eminenza reverendissima, la morale sessuale è il terreno in cui oggi si registra la distanza maggiore fra mondo e Chiesa?
«È certamente così. Nell’annunciare Cristo e la sua risurrezione, la Chiesa incontra anche molti fraintendimenti, ma in genere la gente non si emoziona per questo. Tuttavia, l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla sessualità tocca le persone nella loro vita personale. La sua proclamazione può suscitare le emozioni necessarie».
Quali sono le cause della rottura della connessione tra matrimonio, morale sessuale e procreazione, la triade che ha orientato la vita collettiva fino alla metà del Novecento?
«Una causa diretta, ovviamente, è la secolarizzazione associata all’odierno individualismo. L’individuo autonomo decide da solo ciò che crede; per inciso, spesso segue inconsciamente l’opinione pubblica. Di conseguenza, il matrimonio non è più visto come un’istituzione creata da Dio con determinate intenzioni da cui derivano norme per l’esperienza del matrimonio e della sessualità. Nell’epoca attuale, gli individui scelgono quale interpretazione dare al matrimonio o ad altre relazioni sessuali. Anche il facile accesso al materiale pornografico crea un’immagine distorta della sessualità umana».
Le cause di questa rottura sono esterne o esistono anche responsabilità della Chiesa e della sua predicazione?
«Sono principalmente cause esterne. Gli insegnamenti della Chiesa in generale, e certamente quelli sul matrimonio e sulla sessualità, sono stati accolti con incomprensione, poiché la cultura occidentale è cambiata radicalmente a partire dagli anni Sessanta con l’aumento dell’individualizzazione e della secolarizzazione. Ciò non toglie che anche la Chiesa sia stata inadempiente, poiché nell’ultimo secolo la catechesi è stata trascurata».
La morale sessuale è scomparsa dalla predicazione perché fino agli anni Sessanta del secolo scorso è stata troppo presente?
«No, la morale è scomparsa dalla predicazione perché negli anni Sessanta la cultura occidentale ha subito cambiamenti radicali e di conseguenza è stata poco ricettiva alla proclamazione dell’insegnamento della Chiesa».
In quei decenni essere cristiani coincideva con l’irreprensibilità nel comportamento sessuale dettata da un moralismo fatto di divieti?
«Non è vero. Fino ad allora, gli occidentali vivevano in una cultura profondamente cristiana. Vita e fede erano intrecciate. La Chiesa, con le sue numerose celebrazioni, processioni e pellegrinaggi, era al centro della vita della maggior parte delle persone. Fino agli anni Sessanta, le norme relative al matrimonio e alla sessualità venivano predicate ma non spiegate. Quando Paolo VI pubblicò l’enciclica Humanae vitae nel 1968, non esisteva un’analisi teologica o filosofica della natura del matrimonio sulla base della quale si potesse chiarire perché l’uso della contraccezione, a prescindere dall’intenzione o dalle circostanze, è sempre un atto moralmente cattivo. La situazione è cambiata solo quando Giovanni Paolo II ha esposto la sua teologia del corpo nella catechesi tenuta durante l’udienza generale. In essa descrive il matrimonio come un dono totale reciproco dell’uomo e della donna, che riflette il dono totale reciproco tra Cristo e la sua Chiesa o quello tra le tre Persone divine nella Trinità. Così, è comprensibile spiegare perché l’uso della contraccezione è moralmente malvagio: il dono reciproco degli sposi non è allora totale, perché a livello fisico il dono reciproco della genitorialità è bloccato».
Nella predicazione è rimasta troppo implicita la proposta di un modello alto del matrimonio come imitazione dell’amore fra Cristo e la Chiesa?
«Nelle omelie manca comunque una chiara spiegazione dell’insegnamento della Chiesa sul matrimonio. Per inciso, è anche deplorevole che relativamente pochi teologi morali si occupino di teologia del corpo».
I coniugi che si accostano al sacramento sono adeguatamente aiutati a comprendere che si tratta di una via privilegiata alla santità, con tutto quello che può comportare?

«Nell’arcidiocesi di Utrecht organizziamo corsi di matrimonio che illustrano la teologia del corpo e l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia. I partecipanti, giovani coppie che intendono sposarsi in Chiesa e di solito scelgono consapevolmente di farlo, sono entusiasti: <Che bello, non l’abbiamo mai sentito prima>, è la loro reazione. Sono anche aperti a ciò che la Chiesa suggerisce riguardo alla contraccezione e al possibile uso di mezzi naturali per il controllo delle nascite».
Come la comunità cristiana può testimoniare la bellezza del matrimonio, unione feconda e «per sempre», a fronte di mode e unioni chiuse in sé stesse e spesso passeggere?
«Le migliori coppie di sposi esperti che vivono il loro matrimonio secondo le intenzioni di Dio possono testimoniare la bellezza del matrimonio come legame indissolubile aperto al trascorrere della vita umana. Nel fare questo, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non è così facile ottenere un matrimonio felice. Le persone non sono perfette. Per questo motivo, i nostri corsi di matrimonio prevedono serate tenute da coppie di sposi esperti che mostrano ai giovani le difficoltà che possono aspettarsi nella loro vita matrimoniale e come possono affrontarle».
Perché a proposito della teoria gender papa Francesco dice che «la rimozione della differenza è il problema non la soluzione»?
«Ci sono spesso aspettative irrealistiche riguardo alle applicazioni della teoria del genere. Ciò è particolarmente vero per la teoria del genere di più ampia portata, che sostiene che il genere – i ruoli sociali di uomini e donne – può essere completamente dissociato dal sesso biologico. Ciò significa che un uomo che pensa che il suo genere sia quello di una donna può avere il suo sesso biologico adattato al genere femminile che ha scelto come identità attraverso trattamenti ormonali e procedure chirurgiche che alterano il sesso. Si tratta di un’aspettativa irrealistica. Al massimo si possono cambiare gli organi sessuali e le caratteristiche sessuali secondarie, come la voce e i peli del corpo, ma dal punto di vista del suo genere genetico rimane un uomo. Deve continuare ad assumere ormoni femminili per il resto della sua vita. Inoltre, il trattamento di riassegnazione del sesso comporta la sterilizzazione. Ci sono anche persone che si sono sottoposte a un trattamento di riassegnazione del sesso in giovane età e se ne pentono. Non è possibile annullare il cambiamento di sesso».
Quali sono le cause dell’esplosione della teoria del gender?
«La teoria del genere trae origine dal femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta. Le femministe vedevano nella contraccezione ormonale la liberazione della donna dal ruolo di genere che la società le aveva imposto in passato. Questo ruolo di genere significava che la donna doveva concentrarsi principalmente sul suo compito di procreare e crescere i figli. Dopo essersi liberata da questo ruolo grazie alla contraccezione, sarebbe stata finalmente in grado di scegliere la propria identità di genere. Questa idea è stata presto estesa a tutte le persone: ognuno dovrebbe essere in grado di fare ciò che vuole dal punto di vista sessuale».
I cattolici hanno consapevolezza sufficiente che la condanna della contraccezione da parte della Chiesa è motivata dal fatto che ricorrervi significa impedire a Dio di «di usare l’atto coniugale nell’ambito del suo piano di creazione per far nascere un nuovo essere umano»?
«Temo di no. Fino agli anni Sessanta, i cattolici vedevano generalmente il proprio figlio come un dono di Dio. L’uomo e la donna realizzano il concepimento attraverso il rapporto coniugale. Dio crea un’anima e la riversa nel frutto rendendolo un essere umano vivente. Ora, molti cattolici battezzati non vivono più il bambino come un dono di Dio. Come i non cattolici, parlano di “prendere” o “fare” un bambino».
Assistiamo a un’espansione del diritto dei genitori di avere o non avere figli: mentre si considera l’aborto un diritto da stabilire nelle Costituzioni, allo stesso tempo si ritiene un diritto avere figli con qualsiasi metodo, compresa la maternità surrogata. Qual è il suo pensiero in proposito?
«Il diritto all’aborto e il diritto ad avere figli attraverso le tecniche di inseminazione artificiale sembrano in contraddizione. Uno sguardo più attento mostra che non è così. Nelle tecniche di fecondazione artificiale, come la fecondazione in vitro, la maggior parte degli embrioni umani creati in laboratorio va persa. Dopo che la coppia ha ottenuto il numero di figli desiderato una volta attraverso le tecniche di fecondazione artificiale, il resto degli embrioni rimane in laboratorio. Questi embrioni vengono distrutti o consumati nella ricerca medica. L’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede del 1987 sulle tecniche di fecondazione artificiale, Donum vitae, sottolinea che l’accettazione dell’aborto indotto rende accettabile la grande perdita di embrioni nella fecondazione in vitro».
Confrontando la radicalità del catechismo cattolico con la pervasività dei modelli che promuovono l’individualismo e l’edonismo bisogna accettare che i cristiani siano un’esigua minoranza nel mondo contemporaneo?
«Il fatto che i cristiani siano sempre più una minoranza è una conseguenza dei cambiamenti culturali che fanno sì che Cristo e il suo Vangelo non siano più compresi e accettati dalla maggioranza. È stato suggerito che la Chiesa attirerebbe più persone se fosse disposta a modificare il suo insegnamento sulla moralità del matrimonio e sull’etica sessuale. In primo luogo, la Chiesa non può farlo, perché il suo compito è annunciare le intenzioni di Dio sulla creazione e non può cambiarle. Ma in secondo luogo: il mondo del protestantesimo mostra che soprattutto le chiese liberali, che hanno una visione molto ampia della morale, sono state le prime a svuotarsi».

 

La Verità, 3 agosto 2024

«La nostra grande bellezza è il cristianesimo»

Un libro di rifondazione cristiana. Un saggio che mette al cospetto della bellezza. Una guida alla scoperta delle fondamenta dell’Europa. È tutto questo Dio abita in Toscana. Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale (Rizzoli), oltre 400 pagine che intrecciano storia, storia dell’arte, letteratura, filosofia, storia del cristianesimo, agiografia. L’ha scritto Antonio Socci, giornalista, saggista, conduttore televisivo, direttore del Centro studi per la formazione e l’aggiornamento in giornalismo radiotelevisivo della Rai e firma di prestigio del quotidiano Libero.
Dio abita in Toscana. Viaggio nel cuore cristiano dell’identità occidentale: la prima affermazione sembra un postulato. Suffragato da cosa?
«È una citazione del prologo del vangelo di Giovanni: “Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Non è che si è fatto carne e poi se n’è andato o è evaporato, ma “ha posto la sua tenda in mezzo a noi”».
Il sottotitolo invece abbina la storia della Toscana all’identità occidentale.
«Certo. Perché l’identità occidentale è nata in Europa che, in origine, si chiamava cristianità, e si è allargata oltre Atlantico creando ciò che chiamiamo Occidente. Ma l’Italia è stata la sua culla. E il cuore culturale dell’Italia è la Toscana».
Questo libro hai sempre voluto scriverlo o l’ha sbloccato qualche fatto più recente?
«Ci sono due ragioni. Innanzitutto, ha una genesi antica perché a 18 anni ho aderito in maniera più cosciente al cattolicesimo, incontrandolo al liceo in una forma così affascinante da farmi pensare che quella compagnia fosse il posto più intelligente del mondo. Subito, la prima cosa che colpì me e i miei amici fu che tutto, in Toscana, parlava di ciò che avevamo incontrato, di Cristo, e lo raccontava con una profondità e una bellezza straordinari».
E la seconda ragione?
«È una preghiera, un voto, che ho fatto alla Santissima Annunziata cui è intitolata una basilica di Firenze, alla quale sono legato per molti motivi. Infatti, il libro è dedicato a Lei, patrona del santuario. Ma l’Annunziata è rappresentata dappertutto in Toscana: il 25 marzo, giorno in cui si ricorda l’annuncio a Maria, la venuta di Gesù nel mondo, era l’inizio dell’anno nelle nostre città».
È un libro di apologetica?
«È una dichiarazione d’amore. Un viaggio in cui racconto una civiltà che esaltava tutte le potenzialità umane ed esprimeva una profonda unità del sapere e della vita. Piero della Francesca fu un grandissimo pittore – autore di opere memorabili come la Resurrezione, “la più bella pittura del mondo” secondo Aldous Huxley, la Madonna del parto e la Pala di Brera – in grado di rappresentare, per così dire, l’anima dell’uomo che contempla l’eterno. Ma Piero della Francesca scrisse anche trattati di matematica che risultarono utili ai mercanti dell’epoca e ispirarono frate Luca Pacioli, l’illustre matematico considerato fondatore della ragioneria. E come Piero della Francesca, moltissimi altri, da Michelangelo a Leonardo, sono contemporaneamente, pittori, scultori, ingegneri, poeti, inventori».

Ti sei divertito a mostrare la luce di quel Medioevo che la storiografia ideologizzata considera oscuro e a mostrare che è un tutt’uno con Umanesimo e Rinascimento?

«Mi piace paragonare il mio libro all’armadio delle Cronache di Narnia di Clive Staples Lewis. Vorrei accompagnare la gente in questo viaggio in un mondo sconosciuto, in una terra meravigliosa, che è anche un viaggio nella nostra anima, nella nostra origine e nell’identità vera della nostra civiltà. Insomma, un viaggio del corpo e dell’anima, nel quale anche il vino – la Toscana è terra di ottimi vini – ha a che fare con la bellezza e con la salvezza».
Dalla scoperta della corporalità nelle opere d’arte a Giorgio La Pira, storico sindaco di Firenze, che ripeteva che «i veri materialisti siamo noi cristiani» il passo è breve.
«Ma non è un’operazione intellettuale. Maksim Gor’kij, scrittore sovietico amico di Lenin, si confessava strabiliato dalle meraviglie dell’Italia della Toscana in particolare per tutti questi artisti che hanno cercato di rappresentare il volto di Dio. Le opere di Michelangelo, di Botticelli, di Masaccio e Donatello mostravano, come dice il Vangelo, un’umanità che seguiva Gesù perché aveva bisogno di vederlo, di toccarlo, di farsi guarire nel corpo e nell’anima, sapendo che anche il contatto con il lembo del suo mantello poteva essere salvifico. Questa possibilità di contatto fisico è continuata nei secoli, nei sacramenti, con la presenza dei santi, nella devozione alle reliquie, nei pellegrinaggi e anche con l’arte figurativa. Non a caso il cristianesimo annuncia che nell’eternità vivremo la resurrezione dei corpi».
Dimostra che Dio abita in Toscana anche il talento di tanti geni giovanissimi, da Filippo Brunelleschi a Michelangelo, da Donatello a Pico della Mirandola?
«La Toscana era il centro finanziario del mondo, la terra più ricca d’Europa. Nella Firenze del Trecento, una città che promuoveva la cultura, c’era una quantità elevatissima di bambini che frequentavano le scuole. Ma questo non spiega la schiera di geni che si è concentrata in città di pochi abitanti com’erano quelle dell’epoca, a me pare un dono di grazia».
La stessa che tra Firenze e la Val D’Orcia ha generato un’incredibile densità di santi?
«Una quantità di santi e di mistiche dal Duecento al Cinque e Seicento. Era una società con una passione diffusa per il vero, il bello e il bene. Cosa che, a ben guardare, è anche all’origine dell’immensa produzione di opere d’arte».

Santa Caterina da Siena, popolana e analfabeta, fu proclamata dottore della Chiesa da Paolo VI.

«Una giovane donna, coraggiosa e appassionata, che ha cambiato la storia e che la grazia riempì di sapienza».
Altro segno dell’azione soprannaturale è la Divina commedia, un’opera ciclopica che condensa teologia, filosofia, poesia, Aristotele, Platone, Agostino, Tommaso e incredibilmente è prodotto dell’ingegno di un sol uomo.

«Un uomo esule che andava ramingo, non se ne stava comodo in una villa con una ricca biblioteca. Ha scritto il Poema sacro in condizioni materiali disastrose. Un’opera di cui ancora continuiamo a stupirci 700 anni dopo, un poema “al quale ha posto mano cielo e terra”, come scrive lui stesso».

Tuttavia, oggi Dante lo si tira spesso per la tunica, chi lo vede padre della destra e chi come un migrante ante litteram.

«Da sempre si leggono le interpretazioni più diverse. Dante è così grande che non si può ignorare e affascina, ma sembra che non si voglia accettare il suo invito a seguirlo. Il Poema sacro canta il cammino della salvezza dell’uomo che è Cristo e quello con cui non si vuole fare i conti veramente è proprio questo: il cristianesimo».
Che cosa ti fa dire che a Firenze convergono la filosofia di Atene, la religiosità di Gerusalemme, la fede di Roma?
«Lo spiego nel libro in molte pagine e non posso riassumerlo in tre parole. È una sintesi di civiltà grandiosa e mai più superata».

È l’origine dell’Occidente, che nella narrazione prevalente è attribuita ai diritti umani, alle libertà e al benessere portati dal capitalismo e dalle democrazie.

«Sono tutte cose nate in quei secoli, fra Duecento e Cinquecento. Lo scrive addirittura Friedrich Engels nella prefazione all’edizione italiana del Manifesto del partito comunista. Perfino il Welfare è nato in quel tempo, si vada a vedere cos’era per una città come Siena il Santa Maria della Scala».

Poi c’è Siena con il duomo che ha ispirato Richard Wagner per il Parsifal che turbò persino Friedrich Nietzsche.
«Il Parsifal fu uno snodo fondamentale per Wagner: a Siena lui portò a compimento quell’opera e rimase folgorato dal Duomo che ritenne la perfetta Sala del Graal. Da lì iniziò la rottura con Nietzsche che considerava troppo cristiano quel capolavoro, di cui peraltro sentiva il fascino».
Che accoglienza ha avuto finora questo libro?
«Sto viaggiando per presentarlo, non solo in Toscana, e vedo che la gente ne rimane affascinata. Nel mondo intellettuale invece non ha avuto quasi riscontro, forse perché i libri non li legge più nessuno. Mi spiace, perché voleva essere un contributo anche rivolto al mondo cattolico, un invito a ritrovare il respiro della bellezza della civiltà cristiana. Ma mi pare che il mondo cattolico oscilli tra la sociologia di quart’ordine ispirata dai media mainstream e un certo intimismo sentimentale. Quando hai dei vescovi che dopo una schieratissima campagna elettorale organizzano Settimane sociali in cui si mettono ancora a parlare di premierato e di autonomia differenziata non si va molto lontano».
Andrai a presentarlo alla Fiera del libro di Francoforte?
«No. Nessuno me lo ha proposto. Evidentemente il mio libro – pubblicato da Rizzoli – non rientra fra le letture di chi si occupa di quell’evento. Ma non è un problema».
Mi risulta che ci sarà uno spazio in cui si parlerà delle radici dell’Europa.
«Bene. Non lo sapevo. Sarei curioso di conoscere com’è composto il panel che affronterà il tema».
Cosa pensi del fatto che i vertici della Chiesa si occupino di riforme dello Stato invece di proclamare l’originalità della pretesa cristiana?
«Ho la sensazione che gli ecclesiastici non siano stupiti e commossi dalla bellezza che risplende nelle cattedrali e nelle nostre chiese. Io vedo un mare di turisti che sono incantati davanti a ciò che scoprono qui da noi, ma nessuno spiega loro che quella bellezza è lo splendore della verità di Cristo. La Chiesa si occupa, appunto, di premierato invece di annunciare la salvezza. Eppure, il turismo di oggi è un pellegrinaggio inconsapevole. Esprime un desiderio di bellezza e di felicità che significa desiderio del volto di Dio. Tomaso Montanari ha scritto che “la ragione profonda per cui ci interessiamo al patrimonio culturale e alla storia dell’arte” risiede “nella sua capacità di separarci dal flusso ininterrotto delle cose che passano, per metterci in contatto con ciò che sta in fondo al nostro cuore”».

Il turismo può essere anche un’occasione di crescita spirituale e umana? 

«Certo. E mi stupisce vedere, in questi giorni, le polemiche contro il cosiddetto overtourism, specialmente quando sono scatenate da chi vuole spalancare le porte all’immigrazione di massa. I turisti vengono da noi, ci portano ricchezza e poi tornano a casa loro. L’immigrazione incontrollata invece…».

 

La Verità, 13 luglio 2024

«Chiudere le scuole per il Ramadan è un atto grave»

L’islamizzazione dell’Europa. Non siamo più di fronte ai sintomi di una tendenza, ma a un processo in pieno svolgimento. Lo pensa Magdi Cristiano Allam, autore di Un miracolo per l’Italia (Casa della civiltà) e uno degli osservatori più puntuali del fenomeno.
Magdi Cristiano Allam, perché quest’anno si parla del Ramadan più che in passato?
«Perché è cresciuta l’islamizzazione dell’Europa. Già negli anni scorsi la fine del Ramadan è diventata un evento. Spesso a quel pranzo hanno partecipato rappresentanti della Chiesa cattolica e dello Stato, vescovi, sindaci e prefetti. Ciò ha costituito una legittimazione dell’islam in un contesto in cui, giuridicamente, l’islam non è una religione riconosciuta dallo Stato italiano».
Perché?
«Perché quando, con Silvio Berlusconi premier, questo riconoscimento poteva avvenire, i rappresentanti delle comunità islamiche non riuscirono a concordare né una delegazione unitaria né un testo condiviso. L’articolo 8 della Costituzione sancisce che le religioni abbiano pari libertà a condizione che il loro ordinamento non contrasti con le leggi dello Stato. Come invece avviene con la sharia che nega la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna e la libertà di scelta individuale a partire da quella religiosa».
Come valuta il fatto che per l’inizio del Ramadan, il 10 marzo, si sono visti servizi nei programmi di grande ascolto della Rai?
«Anche questo è frutto di un processo che ha subito una forte accelerazione a causa del diffuso odio antiebraico che prende pretesto da quanto sta accadendo a Gaza dopo la strage perpetrata dai terroristi islamici il 7 ottobre. Nel mondo occidentale la maggioranza dell’opinione pubblica è schierata contro quello che, impropriamente, viene definito “genocidio” del popolo palestinese».
Lei dice «impropriamente», ma molti pensano che sia ciò che avviene.
«È una mistificazione gravissima della realtà: il genocidio sottintende una strategia che pianifica l’annientamento di un popolo. L’obiettivo di Israele non è l’eliminazione dei palestinesi, ma la sconfitta di Hamas. Che, purtroppo, usa i civili come scudi umani e le strutture civili come basi militari».
Perché nelle nostre università si è radicata l’intolleranza?
«Il problema delle università in Italia non sono gli studenti, ma i docenti. A fine ottobre un appello contro il genocidio del popolo palestinese ha raccolto 4.000 firme di professori universitari. È un documento che mistifica la realtà storica. A partire dal concepire la Palestina non come un’entità geografica – com’è stata dall’anno 135 quando l’imperatore Adriano, dopo la strage di 580.000 ebrei, decise di sostituire il nome Giudea con Palestina – ma come un vero Stato, ciò che storicamente non è mai stata. I docenti indottrinano gli studenti con queste distorsioni. Nelle università c’è una situazione peggiore di quella degli anni Ottanta quando i fermenti del terrorismo erano limitati a gruppi circoscritti e ai loro “cattivi maestri”. Oggi l’intolleranza antiebraica è prevalente».
È curioso che a David Parenzo e al direttore di Repubblica Maurizio Molinari sia stato impedito di parlare da studenti di quella sinistra sedicente democratica che è la loro area di ferimento?
«Il giorno in cui l’Europa dovesse essere assoggettata a un potere islamico assecondato dalla sinistra globalista e relativista, tutti gli ebrei, a prescindere che propugnino la formula “due popoli, due Stati”, verranno discriminati e perseguitati. Parenzo e Molinari sono favorevoli allo Stato palestinese, ma additandoli come sionisti è stato impedito loro di parlare. È un clima che ricorda quello che precedette le leggi razziali».
Un clima ammantato d’ideologia.
«Che criminalizza Israele, come abbiamo visto con il Tribunale internazionale all’Aia. E vediamo con le esternazioni del segretario generale dell’Onu, António Guterres, e del Commissario per la politica estera europea, Josep Borrell».
In alcune città sono comparse insegne con «Happy Ramadan», ma si sostituisce Buon Natale con Buone feste.
«Queste luminarie a Francoforte, Parigi e Londra dimostrano che l’Europa è sempre più scristianizzata e sempre più islamizzata. Aggiungo che nelle scuole italiane, nel nome della laicità, si impedisce la benedizione pasquale, è successo a Genova, e i dirigenti concedono aule per la preghiera islamica».
Mentre nei suoi social il Pd milanese augura «Ramadan kareem» (che il Ramadam sia generoso), nelle scuole si tolgono i crocifissi.
«Nel 2004, invitato dal presidente Marcello Pera, l’allora cardinale Joseph Ratzinger tenne una lectio magistralis al Senato. In un passaggio disse che l’Occidente odia sé stesso perché è più incline ad assecondare il prossimo che a salvaguardare la propria storia. E fece il caso di come, quando si oltraggia l’islam tutti condannano e si indignano, mentre quando si oltraggia il cristianesimo tutti dicono che va tutelata la libertà di espressione».
Cosa pensa del fatto che un istituto scolastico dell’hinterland milanese chiuderà l’ultimo giorno del Ramadan perché ha studenti al 40% di origine musulmana?

«È un atto gravissimo, fossero state anche percentuali opposte. Il dirigente scolastico che ha preso questa decisione dimentica che siamo in Italia e che le festività nazionali le decide lo Stato sulla base della storia dell’Italia e della storia della cristianità».
Perché propone che lo Stato vieti il digiuno del Ramadan ai bambini musulmani?
«Perché ha il dovere di tutelare la salute soprattutto dei minorenni. La criticità nel digiuno islamico è nel divieto di bere. Non farlo per 12 ore consecutive crea problemi alla salute dei bambini. Si secca la gola, ci si disidrata, si hanno degli stordimenti. Lo certificano le denunce delle maestre e dei dirigenti scolastici».
L’islam impone il digiuno a bambini così piccoli?
«In realtà, li esenta fino alla pubertà, 13 o 14 anni».
Allora perché c’è questo allarme fin dalla scuola elementare?
«Per un eccesso di zelo le famiglie musulmane esigono che anche i bambini di 6 o 7 anni digiunino».
Sono fondamentalisti?
«Certo. Se fossero scaltri, i sedicenti imam sparsi per l’Italia impedirebbero questo digiuno infantile. Però mi auguro che lo Stato intervenga prima».
Come?
«Il ministro dell’Istruzione potrebbe diramare una direttiva dichiarando che i bambini fino alla pubertà o alla maggiore età non possono essere costretti a praticare il digiuno. Lo Stato dovrebbe farlo sulla base delle sue leggi, non sulla base della sharia islamica».
Non sarebbe un’ingerenza su una devozione religiosa?
«
No, perché il ministro non farebbe riferimento all’islam, ma alle leggi italiane suffragate da un parere sanitario che documenta che al di sotto di una certa età non si può stare 12 ore consecutive senza bere».

 

 

La Verità, 19 marzo 2024

«Con il ddl Zan cattolici a rischio discriminazione»

Massimo Introvigne è uno studioso di profilo internazionale non fosse altro per la specializzazione in sociologia delle religioni. È autore di una settantina di volumi sul pluralismo religioso e direttore del Centro studi sulle nuove religioni (Cesnur). Nel 2011 è stato rappresentante dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo, alla xenofobia e alla discriminazione religiosa. Dal 2016 vive e lavora in Toscana. È la persona giusta a cui chiedere un giudizio sul dibattito a proposito dei cattolici che, amando un dio bambino, rifiuterebbero la complessità.

Professor Introvigne, cosa pensa dell’articolo di Michela Murgia sull’infantilismo dei cattolici?

«Scrivo anch’io sui quotidiani e so che la titolazione di solito non è opera degli autori. In questo caso mi sembra si sia scelto un tono impropriamente aggressivo per provocare, devo dire con successo, un dibattito sugli altri giornali, il Web e i social. Ma Il titolo non corrisponde all’articolo, che contiene alcune argomentazioni condivisibili, altre in parte condivisibili e altre ancora decisamente problematiche».

Tra queste ultime c’è che l’accusa d’infantilismo dovrebbe riguardare tutti i cristiani e non solo i cattolici?

«Diversi elementi fanno ritenere che l’autrice non sia esattamente una specialista di religioni comparate. Gliene dico tre, per me clamorosi. Il primo è quando la Murgia scrive che nel cristianesimo non cattolico non ci sono bambini Gesù se non in una chiesa di Praga».

È un passaggio un po’ ambiguo.

«Come leggo io il testo sembra che quel Bambino sia un’immagine protestante mentre, non solo è cattolica, ma fu introdotta in Boemia proprio in funzione anti-protestante».

Il secondo elemento errato?

«È là dove dice che nel mondo protestante non c’è un’iconografia sulla nascita di Gesù. In realtà, nel protestantesimo c’è pochissima iconografia in generale perché è una confessione tendenzialmente iconoclasta. Tra i protestanti conta di più la parola, si segue più l’arte letteraria di quella figurativa. Nella loro letteratura si trovano molti riferimenti al Bambino, come per esempio in Notte santa, una famosa poesia di Elizabeth Barrett Browning colma di tenerezza verso il piccolo Gesù».

Qual è il terzo errore della Murgia?

«Sembra non parlare soltanto di confessioni non cristiane quando afferma che solo tra i cattolici c’è la devozione a un dio bambino. Un sociologo e specialista di religioni comparate come me salta sulla sedia perché fuori dal cristianesimo le divinità bambine abbondano, a cominciare dal Krishna induista, spesso raffigurato come un bambino».

Sul fatto che i cattolici costruiscano attorno alla nascita di Dio «una retorica di tenerezza zuccherosa» invece ha ragione?

«È una delle affermazioni parzialmente condivisibili. Esiste il rischio di censurare il fatto che la nascita di Dio sia un susseguirsi di avvenimenti tragici. A tutti sono simpatici i Re Magi, ma la loro storia è inseparabile dalle trame di Erode e dalla strage di innocenti, cioè bambini ammazzati con le sciabole e strade che si riempiono di sangue. A tutti è simpatico l’asinello della fuga in Egitto, ma c’è perché altrimenti Gesù sarebbe anche lui sgozzato. Naturalmente tutto questo si perde quando i Re Magi vengono venduti in sagome di cioccolato o di marzapane».

Quindi la Murgia ha ragione?

«Sì, ma la sua osservazione ha due limiti. Il primo è che tutti i simboli patiscono un’inevitabile banalizzazione. Per esempio, Ernesto Che Guevara è un personaggio che ha fatto una brutta fine, l’agonia notturna, la perdita di sangue, il colpo di grazia… Ma per un’ampia massa di persone è solo un’effigie su una maglietta o un asciugamano. Molti di coloro che indossano quella maglietta sanno solo vagamente chi era e quanto tragica sia stata la sua morte».

Anche l’uso di vezzeggiativi come «bambinello» e «pastorelli» sono una banalizzazione.

«Questo è il secondo limite del discorso della Murgia. Le religioni si presentano ai popoli attraverso narrative che si rivolgono anche al cuore, e al bambino che è in noi, non solo alla mente. Per esempio, poche religioni sono caratterizzate dalla complessità come il buddismo…».

Eppure…

«Basterebbe entrare in un ristorante cinese per vedere immagini del Budda che sembrano giocattoli prodotti nelle fabbriche della Repubblica popolare cinese, ufficialmente atea. Altre complessità banalizzate le troviamo in India nei fumetti, spesso ma non sempre di buona qualità, che illustrano l’induismo».

Una nascita in una capanna riscaldata dal fiato di animali, a quanto sappiamo senza donne che accudiscano la puerpera e con il neonato steso nella mangiatoia non è abbastanza complessa?

«Ha ragione. Ma tutte le narrative scritte e ancor più quelle figurative sono polisemantiche, cioè aperte a una pluralità d’interpretazioni. Di fronte ai Re Magi il biblista vede la storia tragica di Erode, un sociologo coglie un adombramento del rapporto fra religioni orientali e occidentali, un bambino di certe regioni della Germania, dove i regali li portano i tre Re, vede una specie di Babbo Natale».

Con tutto il rispetto per la polisemanticità, la complessità della situazione non è oggettiva?

«Forse la Murgia obietterebbe che, per esempio, non lo è per chi guarda un presepio napoletano del Settecento dove tutti sorridono e i pastori giocano con le caprette».

Ma questo è il contorno…

«Però ha una sua importanza. Tutte le religioni, tranne alcune forme di protestantesimo liberale, usano narrazioni diverse di cui hanno bisogno anche gli adulti, non solo i bambini. Benedetto XVI, al quale in questo momento va un pensiero affettuoso, ha rivelato che la storia del Natale non è idilliaca, ma molto complessa. Però ci sono momenti in cui anche l’adulto si commuove di fronte al presepe o al canto di Tu scendi dalle stelle che, al di là delle banalizzazioni, rimane un canto commovente. Se teniamo solo la complessità e togliamo le rappresentazioni rivolte al cuore ci avviciniamo a quel protestantesimo razionalista e freddo che rischia di sparire proprio perché l’uomo non è pura razionalità. Parlando di queste narrazioni, il filosofo marxista Ernst Bloch diceva che evocano “la patria che a tutti brilla nell’infanzia e in cui nessuno ancora fu”. Bloch non era credente, ma con questa espressione cercava di spiegare perché i credenti ci sono».

Pur con questi svarioni dell’autrice, il più grave forse è nel titolo: «I cattolici amano un Dio bambino perché rifiutano la complessità».

«Di solito le intestazioni sono opera dei titolisti. Non so se qui la Murgia ci abbia messo mano. È un titolo ingiustamente provocatorio nei confronti dei cattolici e contiene una solenne sciocchezza: da San Tommaso a Benedetto XVI abbondano i teologi che hanno spaccato il capello in undici teorizzando la complessità del Natale».

È un titolo che asfalta il mistero dell’incarnazione, una delle caratteristiche pregnanti del cristianesimo?

«La cui unicità tuttavia non va esagerata. Tra le tante religioni, quella del cristianesimo non è l’unica con un’incarnazione divina. Quando il Dalai Lama sta per morire, i monaci tibetani iniziano a cercare la nuova incarnazione in un bambino. Abbiamo citato l’esempio del Krishna induista raffigurato come un bambino, per altro piuttosto vivace. Anche dei fondatori di nuove religioni cinesi o coreane, a loro volta incarnazioni di divinità supreme, si racconta che facevano miracoli già da bambini».

Qual è lo scopo di un articolo di questo tenore?

«Il bersaglio è la Chiesa cattolica perché, nella visione dell’autrice, è abbarbicata a una visione conservatrice e patriarcale che si contrappone al femminismo e ribadisce che i sessi sono due e non tre o di più. Sono convinzioni che vagheggiano una modernità illuminata secondo la quale, per venire al mondo, i bambini non hanno bisogno solo di una mamma e un papà, ma magari anche di due mamme o due papà, oppure di una comune dove si pratica il poliamore, l’incontro amoroso tra più uomini e/o più donne. Tutto questo sarebbe in sé stesso più bello perché più complesso».

È corretto dire che la Sacra Famiglia è una famiglia di migranti?

«Quando va in Egitto è una famiglia di rifugiati, quando sta in Palestina è una famiglia reale. Guardando alla genealogia si vede che Giuseppe e Maria appartengono a una sorta di nobiltà decaduta, ma di stirpe reale. Anche in questo caso mi pare che la Murgia sbagli obiettivo perché non c’è una realtà, un’agenzia internazionale, che difenda gli immigrati più della Chiesa di papa Francesco. Forse può prendersela con Matteo Salvini che, però, non è la Chiesa cattolica».

Sbaglia bersaglio, tuttavia l’accusa peggiore è il rifiuto della complessità.

«Per chi le conosce, tutte le visioni del mondo sono complesse, mentre chi le ignora o le conosce da ritagli di giornale può ridurle a caricatura. Sono disponibile a riconoscere che la visione queer cara alla Murgia, dove la sessualità è diversificata in decine di sessi, può essere banalizzata da chi non la conosce. Non basta limitarsi a qualche slogan o a dire che chi la propugna vuole distruggere la famiglia tradizionale. Ma questo vale anche per il cattolicesimo, per l’induismo o, che so, la chiesa di Scientology. È insufficiente ridurle allo stereotipo di difensori di valori retrogradi e della società patriarcale».

In molti Paesi del mondo i cristiani continuano a subire persecuzioni. In Italia e in Europa si vanno espandendo forme d’intolleranza e di razzismo culturale nei confronti del cristianesimo?

«Quando ero rappresentante dell’Osce ho proposto di distinguere tra intolleranza, discriminazione e persecuzione riguardo al cristianesimo. Quest’ultima esiste in alcuni regimi totalitari come il Nicaragua, denunciato di recente anche dalla Santa sede. In Europa e in Italia ci troviamo nella fattispecie dell’intolleranza. Essa deriva dal fatto che nei media e negli enti produttori di cultura c’è una maggioranza di persone ostili o critiche verso il cristianesimo che può favorire un clima di antipatia. Rodney Stark, importante sociologo protestante americano, ha dedicato anni di studi a questo fenomeno. La discriminazione è un concetto giuridico che si attua con leggi e regolamenti che penalizzano i membri di una certa religione. È presente in Cina e in Russia, in Europa è rara. In Italia è stata sfiorata a causa del ddl Zan, disegno di legge su cui conviene vigilare perché può ridurre la libertà di espressione dei cristiani in materia di famiglia e sessualità».

 

La Verità, 31 dicembre 2022

«Indebolire il padre è un danno grave per i ragazzi»

Kim Rossi Stuart è attore e regista, marito della bellissima Ilaria Spada, anche lei attrice, padre di tre figli e, da qualche tempo, si è incuriosito al cristianesimo. Il 20 ottobre uscirà nei cinema Brado, il terzo film da lui diretto (dopo Anche libero va bene e Tommaso), prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti, che vi recita una piccola parte. È «un western esistenziale» imperniato sul rapporto conflittuale tra Renato, un padre misantropo, e Tommaso, un figlio alla ricerca della propria identità, che si ritrovano per domare un cavallo e iscriverlo a una gara di cross country. Una storia insolita per il cinema italiano.

Cominciamo dal titolo: Brado vuol dire tante cose.

«Prima di tutto è il nome del ranch di Renato che è anche una scuola di equitazione, per quanto malandata. Poi è lo stato nel quale vive il padre e, di conseguenza, il modello educativo che infligge al figlio. Infine, brado è anche il cavallo prima di essere domato».

Quella del padre è la vita di un asociale, ma in lui prevale il rifiuto o una scelta positiva, per fare spazio a qualcos’altro?

«Entrambe le cose. Osservandolo da spettatore, Renato mi appare una persona ambivalente. Nel suo stile di vita c’è una reazione rabbiosa rispetto alla società nella quale non si riconosce. Allo stesso tempo lo ammiro perché, in fondo, compie una scelta ecologista che, per certi versi, condivido».

Tuttavia, è una persona scontenta, frustrata.

«Mi sforzo sempre di trovare nei personaggi qualcosa di archetipico, in questo caso l’uomo che vuole domare, o dominare, la vita. Il cavallo da domare, in un certo senso è il simbolo della vita. Non c’è bisogno di scovare un Don Chisciotte o un grande misantropo: la pulsione a dominare è propria dell’uomo metropolitano, dell’umanità contemporanea. Per contro, il figlio è portatore di un’istanza opposta, farsi guidare dalla vita. La sua strada per domare il cavallo è lasciarsi guidare da lui».

Nell’ambizione di dominare il padre incarna l’uomo contemporaneo, ma senza connessioni, social e ricerca di visibilità forse è anche un antimoderno.

«In un certo senso, sì. Anche perché è un uomo che vagheggia il far west, uno stile di vita che moderno non è. È un padre antipatico e brutale, ma nella sua radicalità c’è qualcosa di buono. Credo che nel suo desiderio di rendere autonomo il figlio, di metterlo a contatto anche con le cose spiacevoli, ci sia qualcosa di utile anche ai genitori moderni. Lo dico pensando al mio desiderio di proteggere i miei tre figli da ciò che può risultare scomodo o provocare qualche sofferenza. Questo eccesso di protezione può essere pericoloso perché rischia di allontanarli da una vera autonomia, da una vera maturità».

La definizione più fulminante del suo personaggio la dà l’amico imprenditore interpretato da Carlo Degli Esposti: «il Clint Eastwood dei poveri». Le piace il cinema di Eastwood?

«È difficile resistere a Clint Eastwood».

In che senso?

«Nel senso di non lasciarsi sedurre. Poi, certo, non tutti i suoi film mi piacciono, ma la stragrande maggioranza non è che mi son piaciuti, di più. Detto questo, siamo due mondi lontani, noi in Italia e loro lì, con strumenti e possibilità molto diverse. Lo dico senza criticare nulla del nostro cinema».

C’è una scena alla fine di Brado in cui viene in mente Million Dollar Baby, anche perché le due storie che gravitano attorno a un’impresa sportiva corrono parallele.

«Non vorrei fare accostamenti azzardati. Il telaio è quello di due film di genere che, nel sottofinale, tradiscono il genere per entrare nei meandri più profondi di alcune tematiche. La scena di cui lei parla avviene in un ospedale e riguarda il fine vita, argomento sul quale non ho una posizione ideologica. E qui mi fermo per non spoilerare».

A un certo punto sembra che tra padre e figlio il più responsabile e affidabile sia il secondo.

«C’è una lunga teoria di esempi cinematografici che trattano il ribaltamento dei ruoli, primo fra tutti Ladri di bicilette. A bocce ferme, la scelta di Tommaso di lasciarsi guidare dalla vita mi appare più matura. La vita è più brava di noi».

È la sapienza di cui è cosparso tutto il film.

«Questo film ha a che fare con la ricerca di una pacificazione e il bisogno freudiano di distruggere il padre per recuperare la propria identità. Per tre o quattro minuti il pubblico è anche messo di fronte a ciò che fa più paura: l’esperienza della morte. L’amore tra il padre e il figlio può essere la chiave di accesso a questa esperienza, un padre deve insegnare sia a vivere che a morire. Si soffre un po’ in quei minuti, ma penso possano aiutare a guardare in modo diverso la paura del morire».

I due si ritrovano nella preparazione della prova sportiva: la vita è competizione e la competizione può far esprimere il meglio delle persone?

«Approvo la competizione, ma penso che dovremmo circoscriverla all’ambito sportivo. Amo le corsie di nuoto o di atletica: lì la voglia di essere vincenti mi piace. Invece la trovo démodé in tutti gli altri ambiti perché manifesta una ricerca di approvazione che rimanda all’infantilismo dominante nel nostro tempo, soprattutto nelle sfere del potere».

La moglie e madre, invece, ha abbandonato la famiglia ed è il secondo rovesciamento di luoghi comuni.

«Nella confusione dei ruoli che regna nella società odierna anche questo è un ribaltamento dei ruoli abituali. È il fil rouge che collega i miei tre film da regista».

Cosa pensa dell’espressione Genitore 1 e Genitore 2 che negli atti amministrativi anche scolastici ha sostituito Padre e Madre?

«Non seguo molto queste polemiche. Penso che ogni situazione sia a sé, il buon senso non ha colori e sessi. Poi capisco che bisogna legiferare e porre delle regole, ma non voglio esondare dai temi del film. Piuttosto, parlando di scuola, con un figlio che accede alla media inferiore, mi sento di dire che non è giusto schiacciare i ragazzi con la responsabilità, facendo perdere loro il gusto dell’adolescenza. È importante che si relazionino e non passino i pomeriggi al computer. Allo stesso tempo non è giusto che li passino sui libri per i compiti».

Pare anche a lei che nell’universo giovanile i padri siano diventati secondari? Questo avviene perché fanno gli amici e abdicano al loro ruolo?

«Nella tendenza a non voler far soffrire i ragazzi si nasconde il desiderio di ricevere l’approvazione dei figli. Per me è una deriva pericolosa. Non sono nostalgico del padre padrone, per carità. Ma nello stesso tempo vedo che la figura del padre è indebolita, esautorata di alcune prerogative. I ragazzi hanno bisogno di trovare braccia solide che sappiano porre degli argini, altrimenti non ce la fanno a costruirsi un’identità. Anche la donna ha un ruolo in questo processo, mi sembra che ci sia un po’ di confusione».

Si rischia una femminilizzazione della società moderna?

«Non vorrei addentrarmi in considerazioni sociologiche. Nei gruppi di amici mi capita di vedere uomini un po’ marginalizzati e donne che vogliono contare di più. Uomo e donna sono diversi, ma il bisogno di affermazione e la ricerca dell’approvazione a ogni costo riguarda entrambi i sessi».

Cosa intendeva quando in una recente intervista ha detto che «l’essere umano inginocchiato è un’esperienza straordinaria»?

«Spesso l’uomo si mette in ginocchio davanti al proprio capo, al piacere, al profitto. Proviamo a pensarci: ci troviamo in ginocchio senza neanche accorgerci, davanti a tanti idoli, ai vari vitelli d’oro. Invece, inginocchiarsi di fronte alla creazione, perché siamo creature, davanti al Dio che vuoi tu, non voglio fare differenze, è un’esperienza straordinaria. All’uomo sono concesse solo schegge di verità, nessuno la possiede per intero. L’uomo inginocchiato davanti a qualcosa di più grande di lui è qualcosa di necessario. Non tanto di fronte agli altri, ma guardando a sé stesso. Possiamo riconoscere che siamo fragili, liberandoci dallo sforzo titanico di dimostrare quotidianamente che siamo forti, grandi, vincenti».

Pensa che la consapevolezza che l’uomo non si fa da sé si colleghi all’atteggiamento di fronte alla vita e al fine vita?

«Sul fine vita ho un approccio totalmente laico. Ma è un tale sollievo riconoscersi creatura, è un tale sollievo sconfiggere il terrore della morte e l’obbligo di nascondere la nostra fragilità… Ci aiuta a superare un’idea deteriore di autonomia e indipendenza».

Oggi Brado sarà presentato in anteprima al «Kum! Festival» nell’ambito di una riflessione sull’eutanasia. Come risponderà alla domanda del dibattito: bisogna domare o lasciarsi domare dalla vita?

«Inviterò me stesso e il pubblico a un equilibrio perché la verità non sta mai solo da una parte. Se siamo dotati di capacità critica possiamo usare la nostra intelligenza per domare gli istinti peggiori. Così come possiamo lasciarci domare dalla vita perché possa insegnarci il meglio. Un fiume plasma il suo percorso a seconda degli ostacoli che incontra per arrivare al traguardo».

Il prossimo film graviterà intorno a Medjugorje che è citata anche in Brado?

«Nel 2019 ho scritto un libro composto da cinque racconti (Le guarigioni, La nave di Teseo ndr) di cui due sono già arrivati al cinema. Ne restano tre: uno è dedicato a Medjugorje, un altro è un racconto distopico, l’ultimo è la storia dell’incontro tra un uomo e una donna. Tutti possono diventare film, ma anche no: non vorrei che il mio fosse etichettato come cinema autobiografico. Mi piacerebbe anche raccontare storie che partano dall’esterno, dalla cronaca, e proporre qualcosa di meno introspettivo».

Che rapporto ha con il successo?

«È una brutta bestia. Qualcosa che accarezza l’ego, qualcosa di effimero che porta lontano dalla vita vera. Quando guardo certe personalità della cultura e dello spettacolo le vedo spesso accartocciate in una frustrazione a causa di qualcosa che non è stato loro riconosciuto. Il successo cerco di tenerlo in un angolo se no ti frega. Su questo mi aiuta il cristianesimo perché insegna che il successo vero sta nel decentramento da noi stessi, nel vedere l’altro».

Un film, un libro, una serie che le sono piaciuti ultimamente?

«Con tre figli piccoli, riesco a vedere e leggere meno di quanto vorrei. L’ultimo film che mi ha commosso è Nomadland».

 

La Verità, 15 ottobre 2022

«La 194 va abolita, l’aborto non è un diritto naturale»

Pochi se e pochi ma, Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e San Remo, è abituato a lanciare il sasso in piccionaia per non lasciar scorrere gli eventi senza far sentire una voce della Chiesa. Lo ha lanciato anche in occasione delle ultime edizioni del Festival della canzone italiana che ha sede nella sua diocesi. Nei giorni scorsi, invece – sempre fedele al consiglio evangelico «il vostro parlare sia “sì, sì, no, no”» – si è pronunciato in favore della sentenza della Corte suprema americana che rimette ai parlamenti dei singoli Stati la decisione circa l’applicazione della legge sull’interruzione della gravidanza.

Eccellenza, perché ha così apprezzato la sentenza dei supremi giudici americani?

«Per tre fondamentali motivi. Il primo risale a quand’ero un giovanissimo seminarista liceale e in Italia si scatenò il dibattito che precedette il referendum che portò all’approvazione della legge sull’aborto. Ricordo i vescovi di allora, il giornale Avvenire, i parroci e la chiarezza di papa San Giovanni Paolo II su questo tema. Perciò è un argomento che giudico di tragica attualità e di una certa decisività, in ordine alla morale cattolica e al contributo che la Chiesa deve dare alla civiltà».

E gli altri motivi?

«Ho una grande stima del movimento Pro-life americano che con questa sentenza ha ottenuto una importante vittoria. Infine, credo che l’indifferenza in cui è caduto il dramma dell’aborto richieda invece che lo si riproponga e lo si affronti da tutti i punti di vista, compreso quello giuridico».

Con questa sentenza saranno i cittadini dei singoli Stati americani a decidere: non teme che questo creerà nuove disuguaglianze?

«Sì, ma non è l’aspetto principale della sentenza. Il suo valore sta nell’aver cancellato un’acquisizione giuridica indebita e cioè che l’aborto sia un diritto costituzionale».

Si potrà creare un turismo dell’interruzione della gravidanza sostenibile solo dalle famiglie più agiate?

«È un effetto collaterale che a mio parere non influisce sulla portata della sentenza».

Come le pare che la Chiesa italiana l’abbia accolta?

«Penso e spero con grande soddisfazione. Dal mio punto di vista ho ritenuto di manifestare questa soddisfazione per incoraggiare tutte le persone di buona volontà o che militano nei movimenti che promuovono e sostengono la vita, persone che, sia come credenti che anche da non credenti, hanno un giudizio autentico sulla vicenda».

È stato uno dei pochi esponenti della gerarchia a esprimersi pubblicamente o sbaglio?

«A quanto mi risulta non si sbaglia».

Come se lo spiega?

«Molti temono che l’argomento possa essere divisivo. Personalmente penso che di fronte a un valore non negoziabile, come si diceva un tempo, si possa e si debba preferire la chiarezza delle posizioni al pericolo della sua divisività».

Ha auspicato che quella sentenza «faccia scuola anche in Italia»: in che modo?

«Innanzitutto promuovendo una riflessione sempre più approfondita sull’argomento. Una riflessione impegnata e concentrata non tanto sui diritti individuali quanto sulla sacralità e sulla dignità della vita umana. Perché qui sta l’equivoco: l’aborto non è un diritto, ma si configura come un omicidio perché è la soppressione illecita della vita umana. È su questo che bisogna ragionare».

Auspica un approfondimento della riflessione o la realizzazione di atti concreti?

«A partire dalla riflessione stimo e auspico conveniente arrivare a una cancellazione della legge 194.

Addirittura.

«Certamente. È una legge che annuncia finalità tanto buone quanto velleitarie».

Perché velleitarie?

«Perché al dettato legislativo non corrispondono autentiche politiche di tutela della maternità e di promozione della vita».

È un giudizio molto pesante, davvero ci sono solo buone intenzioni?

«È una legge intrinsecamente negativa perché legittima l’uccisione di un essere umano nel grembo della madre».

Lei vuole scatenare un putiferio con i movimenti femministi.

«Con buona pace delle femministe l’aborto è ciò che abbiamo detto. La prima forma di carità, solidarietà e rispetto verso tutti è dire la verità. È di tutta evidenza che l’aborto è la soppressione di un essere umano».

Torniamo al dibattito di quarant’anni fa?

«Lei si riferisce all’aborto che, se non regolato dalla legge, è confinato alla clandestinità?».

Mi riferisco al fatto che lo si ritiene un progresso acquisito, un traguardo raggiunto per sempre.

«I termini che lei usa non li ritengo adeguati. Per me non è né un traguardo né un esempio di progresso. Anzi, lo considero una vergogna rispetto all’umanità».

Fior di biologi, antropologi e giuristi considerano l’aborto un diritto naturale inalienabile.

«È una posizione che non condivido. Per me diritto naturale inalienabile è quello alla vita del concepito e mi domando come si possa ritenere diritto inalienabile la scelta di un individuo che comporti la soppressione di un altro essere umano».

Tornano a contrapporsi un’ideologia in difesa del diritto all’aborto e un’altra in difesa del diritto alla vita del nascituro?

«Diciamo che non si possono considerare due ideologie simmetriche. La difesa del diritto del nascituro a vivere è un’affermazione del diritto naturale antropologicamente corretta. Se si afferma che in una tale situazione l’uomo può essere soppresso, oltre a legittimare un omicidio, si apre una voragine sterminata di abusi contro la dignità dell’uomo. Viceversa considero vera e propria ideologia, talvolta anche espressa in forme violente, quella degli abortisti che non avendo ragioni scientifiche valide ricorrono a pressioni di tipo ideologico».

C’è chi osserva anche da posizioni cattoliche che la depenalizzazione dell’aborto è stato un diritto fondativo del movimento femminista.

«Purtroppo, storicamente è vero. Ma rimane un dato sbagliato e incompatibile con la fede cattolica».

Lucetta Scaraffia sottolinea che non può essere considerato un diritto naturale perché coinvolge anche un’altra persona, cioè il padre.

«È un’osservazione vera, ma debole e insufficiente in quanto, più che ledere il diritto del padre, lede il diritto fondamentale alla vita del nascituro».

Se lo chiamiamo nascituro vuol dire che non è ancora protagonista di una vita piena?

«No, la vita piena è dal concepimento. Non sono le fasi della vita a determinarne la dignità, ma è la sua dimensione ontologica a farlo. Altrimenti si aprirebbe una gamma infinita di eccezioni».

È proprio la prospettiva verso la quale stiamo andando?

«Purtroppo».

Come per esempio nei casi di suicidio assistito?

«Esattamente».

Come giudica il fatto che quando si torna a parlare di questi argomenti si alza un coro che proclama l’intoccabilità della legge 194?

«Di fatto siamo esposti a una forma di dittatura ideologica».

Le posizioni ideologiche complicano la gestione di un tema delicato. Se lo Stato e i vari corpi intermedi fossero più impegnati nei servizi di accoglienza alla vita molte problematiche si potrebbero risolvere?

«Affermare i principi è necessario e doveroso. Altrettanto importante è che le affermazioni siano accompagnate e sostenute da atti di accoglienza e solidarietà a tutti i livelli dello Stato e dei corpi intermedi. Le iniziative del Movimento per la vita impegnato non solo nelle enunciazioni, ma anche nell’aiuto concreto nelle situazioni di difficoltà di madri e famiglie, sono già un esempio di questa condivisione».

Molti lamentano che in tanti ospedali pubblici troppi medici obiettori di coscienza rendono inapplicabile la 194.

«È uno dei tanti segni che l’aborto non può essere affermato come lecito».

La liceità è affermata da una legge seguita a un referendum.

«Io parlo della liceità morale, che è superiore a quella della legge».

Auspica un maggior protagonismo della gerarchia e dei cattolici su questi temi?

«So che nella Chiesa sono in buona compagnia. Anche di recente papa Francesco ha ribadito il giudizio della Chiesa sull’aborto. Queste riflessioni sono scritte nel catechismo, nella sana teologia e nei pronunciamenti di molti pastori. Poi le modalità dipendono dalla sensibilità e dal discernimento di ciascuno».

Non è una battaglia di retroguardia ridiscutere l’interruzione di gravidanza?

«È una battaglia di fede e di civiltà che dobbiamo combattere pacificamente. Con la buona ragione, con la preghiera, con la testimonianza del vangelo e favorendo una cultura della vita a 360 gradi».

Lei si espone spesso su temi etici e civili come per esempio sul disegno di legge contro l’omotransfobia. Pensa che i cattolici debbano avere una funzione critica della cultura dominante?

«È una questione di responsabilità che personalmente avverto. In proposito cito spesso il profeta Isaia che rimprovera in nome di Dio i pastori del popolo d’Israele chiamandoli “cani muti” quando, di fronte al pericolo e alla menzogna, non lanciano l’allarme».

Dove vede questo pericolo e questa menzogna oggi?

«Nella mentalità dominante che tende a livellare e appiattire tutto in un orizzonte di esasperata libertà individuale».

Perché in occasione del Festival di Sanremo ha a criticato le esibizioni più trasgressive?

«Perché erano irrispettose dei simboli del cristianesimo. L’ho fatto per dare voce a tutte le persone che si sentivano offese da quelle esibizioni, fintamente trasgressive. E per esprimere una parola chiara rivolta soprattutto a persone giovani che possono essere indotte al male da messaggi sbagliati».

I media e il mondo dello spettacolo parlano un’altra lingua: è ottimista riguardo all’efficacia dei suoi pronunciamenti?

«Sono assolutamente ottimista perché i pensieri che cerco di dire a voce alta sono radicati nel cuore di tante persone, molte più di quelle che le statistiche della cultura dominante registrano. Ma soprattutto sono ottimista perché credo nella bellezza e nella forza della verità e nella potenza salvifica di Dio».

 

La Verità, 2 luglio 2022

«Il mio libro porno riscatta la maternità perduta»

Altro che intervista, per raccontare Franco Branciaroli servirebbe un romanzo. Infatti, l’ha scritto lui: il primo, a 74 anni. Oltraggioso. Estremo. Disturbante. Volgare. Poco autobiografico, però. Branciaroli ha 50 anni di teatro nelle corde vocali, ha lavorato con Aldo Trionfo e Carmelo Bene, con Luca Ronconi e Giovanni Testori; senza dimenticare il cinema con Tinto Brass. Nel romanzo, scritto in una lingua che a qualche critico ha ricordato quella di Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino, c’è altro. Il titolo, La carne tonda (Nino Aragno editore), descrive il corpo di una donna incinta, ossessione erotica di un impiegato import-export milanese in pensione. Poi ci sono un ex compagno di scuola dalle numerose e indecifrabili identità, un amico con moglie malata di sclerosi multipla e altri personaggi minori. Più che un pugno, è un calcio nello stomaco. Il campionario di perversioni e acrobazie alternato alle chiacchiere da bar su comunismo, Papa, maschilismo islamico, metamorfosi di Milano e prestanza dei neri compongono l’anatomia di una rivolta, pornografica e scorretta. Nella quale, alla fine, vince la maternità.

Perché, Branciaroli, un romanzo adesso e di questo tenore?

«Il perché è una voglia di libertà creativa. In teatro non sei completamente libero perché dipendi dai direttori, dal regista e dall’autore dell’opera che si mette in scena. Tu sei solo un attore. Per realizzare un tuo progetto dovresti essere anche autore e regista. Con il passare degli anni questo stato può alimentare una sorta di frustrazione. Il vantaggio della letteratura è la libertà assoluta. Con una risma di fogli e due biro puoi fare quello che vuoi».

Si è scoperto scrittore a 74 anni?

«Rispondo con un esempio. Paragoni a parte, questo è bene sottolinearlo, Theodor Fontane ha scritto Effi Briest a 70 anni. Prima aveva scritto nulla d’importante. Solitamente ho un altro modo di sfogarmi. Quando non basta più, tutto quello che hai letto e pensato, può trasformarsi in un’altra forma espressiva. Che per me è la scrittura».

Qual è la molla di questo sfogo?

«L’idea è che cos’è una donna gravida. La maternità è la vera protagonista della storia. Infatti, l’ho dedicato a mia madre».

È viva?

«No, si chiamava Angela».

Se lo fosse cosa direbbe di questo romanzo?

«Glielo nasconderei. Se lo scoprisse si sconvolgerebbe per le parti pornografiche. Però farei presto a spiegarle come va il mondo. Questo libro è in linea, il Pil di internet è la pornografia».

I critici hanno molto apprezzato lo stile.

«Questo modo di scrivere non so da dove arriva. La lingua è dentro, un dono, un mistero. Io ho imparato prima il dialetto dell’italiano. Sono lombardo, come Gadda e Arbasino. Testori scrive pensando ai suoni. Il romanzo è tutto al presente, il protagonista non è uno che racconta, è uno che fa. Non so perché molti ridano quando gli attori scrivono. Ho letto e mandato a memoria migliaia di pagine di capolavori, non capisco lo stupore. Nella scrittura trovo una forma di voluttà artistica, spero di produrla anche nei lettori».

Gliel’hanno accettato subito o ha subito qualche rimbalzo?

«So che c’è stato qualche rifiuto, ma non me ne sono occupato direttamente. Ho trovato un editor che l’ha proposto ad Aragno, editore di lusso, che pubblica senza l’affanno delle vendite. Mi ha telefonato Aragno in persona, dicendomi che lo pubblicava perché gli piaceva lo stile. Lo benedico».

È un romanzo contro?

«Indubbiamente. Ma è soprattutto un romanzo a favore della carne, che di questi tempi è molto bistrattata».

Non c’è contraddizione in un cattolico che scrive un romanzo pornografico?

«Nessuna contraddizione. Se superiamo il moralismo, vale la massima che dice: “Ho conosciuto dei farabutti che erano anche dei moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse farabutto”. Dopodiché questo paradosso è cristiano perché è l’esaltazione della carne. Il cristianesimo è l’unica religione che esalta la carne, l’incarnazione. Come scrive Michel Henry: “La carne è il dolore”».

Non mancano gli eccessi.

«Paragoni a parte, sottolineo, di quelli di Philip Roth, nessuno dice nulla».

Da chi è bistratta la carne?

«In particolare dal femminismo notarile, a causa del quale il sesso si trasforma in un contratto, un protocollo. Non ci rendiamo conto che il politicamente corretto è il trionfo dello spirito bianco».

Deprime la carne e la rende standard?

«Esatto. L’amore, la carne, il sesso: tutto diventa meccanico, solipsistico. Alla sinistra americana la vita carnale fa orrore. È costruzionista. Ma questa è la dimostrazione patetica dell’origine bianca del movimento».

Il bianco eterosessuale però ne è spesso il bersaglio.

«Solo il bianco ha questi problemi. È dei bianchi essere politicamente corretti».

Scrive negri e negre al posto di neri e nere.

«Così si esprime il protagonista, non io… Ne fa una questione di pronuncia. “Negra con quella gr così potente” è più bello da pronunciare. È una geografia, “nera si può dire di una scarpa”. Rasenta la pesantezza e la volgarità, però è vitale. Racconto il ceto medio degli anni d’oro, prima che diventassimo tutti transgender, vegetariani, vegani, green. La classe media soprattutto americana è questa roba qui».

I neri sono più prestanti: invidia non razzismo?

«Il libro è un’esaltazione della potenza sessuale dei neri. Rappresentano il futuro e generano invidia. Il protagonista immagina che l’Europa diventerà tutta nera».

Per opporsi al dominio della Cina?

«Ma soprattutto per procreare. Raddoppieremmo la popolazione nel giro di 15 anni».

Scenario apocalittico.

«La carenza di nascite è il problema di tutti, anche della Cina. È vero che l’assenza di procreazione diminuisce la popolazione, ma aumenta la quota di vecchi. Chi li mantiene?».

I mussulmani prolificano, noi abbiamo l’aborto, la pillola, i preservativi, i gay. Ci domineranno anche numericamente?

«È il pensiero del protagonista. Ma è un fatto evidente che non nasce più nessuno. Nella visione del romanzo, il parto si trasforma in amplesso, esperienza di piacere. La maternità senza dolore si rivitalizza».

Scrive culattoni invece di gay.

«È il linguaggio di quella classe media milanese».

Romanzo reazionario?

«Definirlo reazionario è un equivoco femminista, mentre esalta le donne. Non che me ne freghi niente, ma è uscito così. Caso mai è un cicinin apocalittico. Tra reazionario e conservatore c’è differenza. Il reazionario vuole distruggere ciò che c’è, il conservatore vuole mantenerlo. Il romanzo è né questo né quello, più complesso di quel che sembra».

Quanto c’è di autobiografico?

«Non molto, le parti dell’infanzia, il bar di famiglia. Il resto è inventato o aggiustato».

Ci sono anche i fotoromanzi, stagione rimossa.

«Da bambino ero addetto alla vendita dei fotoromanzi e delle sigarette. Quelle osterie erano come dei drugstore. Stavo su un seggiolone con i Grand Hotel e i pacchetti di sigarette che si scartocciavano per venderne 5 o 10. I fotoromanzi erano la possibilità di sognare. Pubblicavano foto a tutta pagina dei divi di Hollywood che ritagliavo e conservavo».

Lei ha una moglie affetta da sclerosi multipla.

«Sì, ho una moglie così. Lì la vicenda è estremizzata. Ho immaginato cosa può passare una persona che ha difficoltà economiche, che io non ho, davanti a un problema del genere. È una condizione nella quale i soldi sono ancora più discriminanti: da uno standard normale alla disperazione. Non abbiamo un’organizzazione pubblica all’altezza, devi fare da solo. Lo Stato non si occupa di questi cittadini. Il contributo pubblico è di 350 euro al mese, più 700 per l’accompagnatore. Uno che ha una persona così e lavora, come fa?».

Che cos’è per lei la ricchezza?

«È fondamentale. Se lavori, avere una persona così vuol dire badanti. Ma nel nostro Paese sono considerate un lusso come le cameriere perché il loro costo non è detraibile dalle tasse. Detraibili sono le infermiere, che però costano 200 euro al giorno. Le badanti poi hanno dei retrovita complessi, figli e mariti distanti, nei quali ti coinvolgono. In Italia i disabili sono 4 milioni, aggiungici i parenti: non capisco perché non facciano un partito».

In questi mesi è in tournée con Umberto Orsini, 88 anni, con una storia di due amici: è una sintesi della sua carriera, lei ha spesso stretto grandi sodalizi artistici?

«L’opera di Nathalie Serraute, madrina del nouveau romance francese, s’intitola Pour un oui ou pour un non e si basa sugli equivoci del linguaggio che, con la sintassi rozza dei messaggini, riportano a galla vecchi malintesi fino a generare a catena la crisi del rapporto. È un gioco molto sofisticato e divertente».

Dicevamo dei suoi sodalizi con i mostri sacri del teatro: erano fratelli maggiori, maestri, padri?

«Sono esperienze fatte in età diverse. Trionfo l’ho incontrato quando ero molto giovane. Dirigeva Carmelo Bene e me e nel Faust di Christopher Marlowe. Carmelo era più vecchio ma di poco, il fratello maggiore e complice».

Luca Ronconi?

«Il maestro, ascoltandolo imparavo cose che non sapevo. Un maestro senza volerlo essere, tra i maggiori a livello mondiale. Molti fanno teatro, ma non lo conoscono in profondità».

Giovanni Testori?

«Lui era un autore, ho provato la sensazione di un drammaturgo che lavorava apposta per me. Un’esperienza eccitantissima: c’è uno che scrive delle opere pensando a te».

Cosa comportava la complicità con Carmelo Bene?

«A parte il principio di obesità dovuta all’alcol, abbiamo trascorso due anni in tournée. Un giorno si presentò al ristorante con un occhio nero, regalo del fidanzato di un’attrice che aveva tentato di sedurre. Invano. Oltre all’insuccesso, le botte. Anche il fidanzato era un attore. “Ma Carmelo”, gli dissi, “non sapevi che ha l’asma, ti bastava metterti a correre e non ti avrebbe mai preso”».

Questo romanzo è un copione per Tinto Brass?

«Qualche scena potrebbe esserlo. Ma il cinema è crudele perché quando si inizia un film bisogna firmare le polizze assicurative. Se non si è in ottima salute non ti fanno più fare niente».

Come ha vissuto il periodo acuto della pandemia?

«Malissimo. Prima dei vaccini dovevo proteggere e controllare tutto e tutti, un disastro. Chi è già malato e vecchio non doveva prendere il virus. Sono rimasto chiuso un anno, non dormivo, ho sfiorato la depressione. Fortuna che ho un piccolo pezzo di terra. Parlavo con le piante…».

 

La Verità, 5 marzo 2022

La conversione di Silvia e il lockdown dei cristiani

Una chiesa, sullo sfondo. La facciata di un edificio religioso. Lì, in lontananza. Al margine degli eventi.

C’è qualcosa di emblematico nella vicenda della conversione di Silvia Romano, ora rinominata Aisha. C’è qualcosa di simbolico nel cambiamento di questa ragazza di 24 anni. Ora che da qualche giorno è tornata a casa; che ha ripreso a godersi gli affetti dei familiari; che ha ritrovato i luoghi e i punti di riferimento geografici con i quali è cresciuta; e mentre procedono i tentativi di far luce tra le molte ombre del suo periodo africano, si può provare a riflettere a mente più fredda su quanto accaduto e su ciò che può significare. Per lei e per noi. Si può cercare la giusta distanza per tentare di capire come alcuni fatti apparentemente distanti si intersechino tra loro. Ponendoci delle domande. Con rispetto, senza mettere in dubbio l’autenticità della conversione di Silvia Aisha e la stranezza del contesto – si può dire? – in cui è avvenuta. Una stranezza che Magdi Cristiano Allam, un giornalista e scrittore che ha fatto il percorso opposto, dall’islam al cristianesimo, ha saputo segnalare rilevando la curiosità di come «una giovane tra i 23 e i 25 anni possa liberamente rinnegare una civiltà laica, che garantisce la pari dignità tra uomo e donna, per abbracciare una religione maschilista e misogina che concepisce la donna come un essere antropologicamente inferiore che vale la metà dell’uomo». Domande, appunto. Ma di fronte a questa si deve registrate l’assordante silenzio della gran cassa politicamente corretta, solitamente ipersensibile alla disparità di trattamento delle donne a tutte le latitudini. Ma tant’è. Quello che conta, per tutte le Rula Jebreal del bigoncio, è scagliarsi contro la destra becera – che esiste, eccome – senza tuttavia pronunciare un monosillabo sulla responsabilità della scia d’odio innescata dall’indisponente ed esibizionistica passerella governativa post-liberazione dietro cospicuo riscatto.

L’altro giorno, in occasione del centenario della nascita di Giovanni Paolo II, Marcello Veneziani ha scritto che per lui «il nemico principale della cristianità non è il fondamentalismo delle fedi altrui, ma la nostra scristianizzazione». Nei filmati che riguardano la nuova vita di Silvia Aisha si vede sempre quella chiesa sullo sfondo. È la chiesa di Santa Maria Bianca della misericordia, la parrocchia del quartiere Casoretto, periferia multietnica a est di Milano, tra Via Padova e Lambrate. C’è qualcosa di metaforico in questa storia di conversione all’islam e di chiesa sullo sfondo. Una chiesa neutralizzata, surclassata dagli eventi. Irrilevante. Tanto più in un tempo di celebrazioni vietate e solo ora riprese tra mille precauzioni. Chissà se il parroco di quella chiesa si sarà fatto qualche domanda. E se se la sarà fatta la comunità cristiana di quel quartiere. Personalmente, me ne sto facendo qualcuna anch’io. La notizia della conversione alla religione musulmana di Silvia Aisha è arrivata mentre in quella chiesa non si celebravano messe causa coronavirus. Scherzi del tempo, coincidenze casuali che possono suggerire altre domande. Che contraccolpo rappresenta una vicenda così per la comunità cristiana milanese e italiana? Che mortificazione, che smacco – si può dire? – è per la civiltà occidentale? È solo una suggestione, una vaga connessione temporale quella che interseca il lungo lockdown imposto dal rapimento a Silvia Romano con quello più breve che ha impedito ai fedeli l’accesso ai sacramenti? Oltre la circostanza temporale non sarà anche il caso d’interrogarci sull’arrendevolezza con cui abbiamo digerito, noi e anche le gerarchie ondivaghe, questa sterilizzazione pastorale imposta dagli ottusi decreti governativi? E, infine, sulla credibilità della nostra testimonianza, sulla genuinità e la freschezza della nostra fede? Intervistato dalla Verità, lo storico Franco Cardini ha osservato che dei cristiani non tiepidi si sarebbero vigorosamente opposti a quei decreti, anche scendendo in piazza. Non sarà forse anche per questa insipienza che una ragazza di 24 anni ha cambiato fede durante un lungo periodo di prigionia? Prendendo per autentico il fatto, forse è il caso di chiederci se abbiamo qualche responsabilità di un certo cristianesimo incolore e insapore, privo di fascino e fierezza, di capacità di cogliere lo spirito del tempo.

In questi giorni sto leggendo Libero tra le sbarre (Città nuova), la storia di Nguyen Van Thuan, raccontata da Teresa Gutiérrez de Cabiedes. Poco dopo la nomina ad arcivescovo coadiutore di Saigon, nel 1975 Van Thuan fu accusato di tradimento, arrestato e internato dal regime comunista vietnamita. Rimase in prigione tredici anni, di cui nove in isolamento. Un lockdown molto più spietato di quelli citati finora, durante il quale, all’inizio, il mite prelato insisteva a rivendicare la propria innocenza, pregando di essere liberato per tornare alla sua comunità. Solo dopo aver accettato quella condizione con ascetica rassegnazione, si accorse dei cambiamenti che la sua silenziosa testimonianza suscitava nelle guardie che si occupavano di lui. Al punto che, per evitare le conversioni, gli ufficiali del regime erano costretti a sostituirle di continuo con grande disappunto. Una lezione su cui può essere utile soffermarsi.

 

La Verità, 19 maggio 2020

 

«I nuovi diritti rimuovono il dato della natura»

Perle nella conchiglia di un linguaggio piano, ma denso e profondo. Sono le risposte del cardinal Camillo Ruini, 89 anni, 17 dei quali trascorsi come presidente della Conferenza episcopale italiana. Insieme con Gaetano Quagliarello ha pubblicato da Rubbettino Un’altra libertà – Contro i nuovi profeti del paradiso in terra. Un dialogo sulla società contemporanea e il ruolo della Chiesa, curato da Claudia Passa. Un dialogo che il cardinale ha preferito non allargare ad altri argomenti nevralgici, come l’incontro con Matteo Salvini e il dibattito sul celibato dei sacerdoti.

La riflessione che conduce con Gaetano Quagliariello prende le mosse dall’Evangelium vitae nella quale Giovanni Paolo II attribuiva le minacce alla vita all’estensione del concetto di libertà individuale. A un certo punto osserva che, confermata l’attualità di quell’enciclica, «oggi la situazione si è appesantita». In che cosa vede questo appesantimento?

«Lo vedo in particolare, per quanto riguarda l’Italia, sul versante della fine della vita, dove purtroppo si è fatto spazio al suicidio assistito e all’eutanasia, pur cercando di evitare queste parole».

Con la crisi delle ideologie e del marxismo in particolare, anziché «perseguire la costruzione della società perfetta si cerca l’esistenza perfetta». Ne è una conferma la trasformazione dei partiti comunisti in partiti radicali di massa. È da qui che nascono i «nuovi diritti» e la rivoluzione antropologica in atto?

«I cosiddetti nuovi diritti e la rivoluzione antropologica nascono da una parte dall’assolutizzazione della libertà individuale, per la quale i desideri diventano diritti, dall’altra parte dallo sviluppo scientifico e tecnologico che ha reso possibile una trasformazione dell’uomo ottenuta non per via economica e politica, come pensava Marx, bensì intervenendo direttamente sulla nostra realtà biologica. Il fallimento dell’utopia marxista, sancito dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione sovietica, ha spinto molti marxisti a trasferire dalla società all’individuo la loro ricerca del paradiso in terra, come aveva previsto Augusto Del Noce».

È un’errata concezione della libertà individuale che autorizza l’uomo a disporre della vita e della morte attraverso l’interruzione della gravidanza e le pratiche eutanasiche?

«Direi di sì. Si tratta sempre di una falsa assolutizzazione della nostra libertà, come se ci fossimo dati la vita da soli e avessimo imparato da soli a comportarci da persone libere».

In materia di eutanasia, dal caso di Eluana Englaro a quello di Alfie Evans fino a quello di Dj Fabo, abbiamo assistito alla supplenza o invadenza di organismi giuridici in assenza di normative. Pensa si debba ammettere una presenza troppo flebile della comunità cristiana e delle massime gerarchie su questi temi?

«Penso sia giusto distinguere: avremmo potuto e dovuto fare di più, ma non si deve dimenticare che in molti casi, compresi quelli da lei citati, la Chiesa ha parlato chiaro e forte, anche se molti mezzi di informazione hanno preferito ignorare la sua voce».

Un esempio di libertà sganciata dalla responsabilità è dato dal fatto che, mentre si considera intoccabile il diritto all’aborto, si vogliono aver figli ricorrendo alle biotecnologie e all’utero in affitto?

«Il vero problema è che non si considera il figlio come una persona, ma come qualcosa di cui i genitori possono disporre, sopprimendolo se non è gradito, o invece procurandoselo in qualsiasi modo, anche con il ricorso all’utero in affitto».

Già nel 2005 Papa Benedetto XVI mise in guardia dalla «dittatura del relativismo». Oggi questo comportamento si è rafforzato sulla spinta del pensiero politicamente corretto, nuova «religione secolare»?

«Il relativismo fa certamente parte del “politicamente corretto”. La “dittatura del relativismo” pretende che il relativismo sia l’unico atteggiamento giusto e valido, cadendo così in una curiosa contraddizione perché proprio il relativismo sarebbe giusto in sé e non relativo ai nostri punti di vista».

C’è il pericolo che attraverso il politicamente corretto si affermino le dittature delle minoranze?

«Non si tratta soltanto di un pericolo, ma di una cosa che si è verificata varie volte, in particolare riguardo alla concezione del matrimonio e della famiglia».

I nuovi diritti hanno in comune la relativizzazione o l’annullamento del dato di natura?

«Purtroppo sì. L’idea di fondo è che una natura umana propriamente non esista e che noi siamo integralmente plasmati dall’ambiente in cui viviamo, dalla nostra cultura, dalle nostre scelte».

Come interpretare la tendenza a equiparare i rapporti omosessuali a quelli eterosessuali aperti alla procreazione e la diffusione crescente della teoria del gender?

«È un aspetto della dittatura del relativismo. L’omosessualità è sempre esistita e nel corso della storia il matrimonio si è configurato nelle forme più diverse, pensiamo alla poligamia e anche alla poliandria. Mai nessuno però aveva pensato a un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Che oggi lo si rivendichi come una conquista di civiltà è il segno della profondità della crisi che ci attanaglia».

Il diritto a emigrare sembra contare più adesioni del diritto a crescere dove si è nati. L’emergenza migratoria dev’essere affrontata con l’accoglienza senza limiti o attraverso la pianificazione della politica?

«Non si tratta solo di un’emergenza, ma di un fenomeno di lungo periodo. Per governarlo bisogna coniugare le esigenze della solidarietà e dell’accoglienza – non dimenticando mai che per un cristiano ogni uomo è un fratello – con quelle del rispetto della legalità e della sicurezza dei cittadini, reprimendo le organizzazioni criminali che prosperano sull’emigrazione clandestina, sullo spaccio della droga e sullo sfruttamento della prostituzione. Sviluppare una cultura dell’accoglienza non significa affatto rinunciare ai nostri valori, senza dei quali non c’è futuro per noi».

Il multiculturalismo è un valore in sé stesso?

 «La molteplicità delle culture è un dato di fatto, da accogliere positivamente, ma non è un valore in sé, tanto meno il valore primo e il criterio decisivo a cui fare riferimento. In particolare per i credenti in Gesù Cristo il valore primo non può essere altro che Cristo stesso: proprio da lui impariamo ad amare il nostro prossimo, compresi coloro che la pensano diversamente da noi».

Un’altra emergenza è la salvaguardia del pianeta che nelle sue forme più intransigenti arriva a equiparare l’uomo alle altre specie animali, quando a non a considerarlo nocivo per la terra. Fatto salvo il rispetto del pianeta, come ritrovare equilibrio nel rapporto con l’ambiente?

«Rispettare e salvaguardare il nostro pianeta è oggi un’esigenza prioritaria, una questione di vita o di morte per l’intera umanità. Tutto questo però non ha nulla a che fare con l’equiparazione dell’uomo agli altri animali. Per la fede cristiana l’uomo è l’unica creatura visibile fatta a immagine di Dio. Ma anche su un piano semplicemente razionale la singolarità dell’uomo emerge chiaramente: è sufficiente pensare a quel fatto imponente che è lo sviluppo della cultura. Sia la fede sia la ragione ci dicono inoltre che dobbiamo impiegare questa nostra superiorità non per distruggere il resto della natura, ma per custodirlo».

L’ambizione di realizzare l’esistenza perfetta, che escluda imprevisti, dolore, handicap, si basa sulla presunzione di onnipotenza della scienza?

«La scienza autentica – in concreto i veri uomini di scienza – conosce meglio di noi i limiti della scienza stessa. Un’esistenza perfetta rimane comunque un’illusione pericolosa, che si ritorce contro di noi».

A suo avviso come può essere letta l’esplosione del coronavirus e il senso di insicurezza che comporta? Che riflessione ci impone sulla scienza, sulla caducità dell’uomo, sull’accettazione del limite?

«L’esplosione del coronavirus è un enorme imprevisto che condiziona la nostra vita e ci ha obbligati a modificare repentinamente i nostri modi di vivere, di lavorare, di rapportarci a vicenda. Certo, è una conferma di quel che ho appena detto sui nostri limiti. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: proprio questa pandemia sollecita l’impegno di tutti, ci fa meglio comprendere l’importanza della solidarietà, mette in luce un coraggio, una dedizione, una capacità di sacrificio che ci ha sorpreso positivamente. Così il coronavirus è un grande appello a essere migliori: detto con le parole del Vangelo, un appello a convertirci».

E che riflessione suggerisce sulla globalizzazione?

«L’intensificazione dei rapporti e degli scambi a livello mondiale contribuisce certamente alla rapida diffusione di questa epidemia. Non dimentichiamo però che cent’anni fa il contagio della “spagnola” non fu meno violento».

Dall’esplosione dell’epidemia conviviamo con la paura. Solo una presenza portatrice di speranza può aiutare a vincerla, come accadde agli apostoli sulla barca con Gesù mentre il mare era in tempesta. In un momento così crede che la Chiesa dovrebbe far sentire di più la sua voce ai credenti e a tutti i cittadini?

«Di fronte al coronavirus, e in genere di fronte ai mali che ci minacciano, come credenti chiediamo nella preghiera l’aiuto di Dio. Questa semplice richiesta ci fa riscoprire un aspetto fondamentale della nostra fede, che Dio cioè non è soltanto un Signore lontano e un po’ astratto, ma è il Padre che si cura di noi e che tiene nelle sue mani le vicende del mondo».

In conclusione, se dovesse suggerire una parola o un esempio ai cristiani del Terzo millennio, che cosa direbbe?

«Preferisco limitarmi all’esempio, che è quello datoci da Giovanni Paolo II. Gli sono stato vicino per vent’anni, ho visto come egli viveva alla presenza di Dio e perciò non aveva paura ed esortava tutti a non avere paura e a fidarsi di Dio. Viviamo in anni difficili, per la Chiesa e per l’Italia, e spesso ci siamo allontanati da Dio, ma Dio non si è allontanato da noi: la nostra vita e la nostra speranza possono e devono fondarsi su di Lui».

  La Verità, 15 marzo 2020