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L’allarme di Tamaro per il totalitarismo scientista

È un’esortazione tutt’altro che buonista e consolatoria quella che Susanna Tamaro rivolge a chi leggerà Tornare umani, il saggio che manda oggi nelle librerie per l’editrice Solferino. Un testo che aiuta a impossessarci con sguardo critico di questi due anni e mezzo di Coronavirus. Un monito forte, scritto con linguaggio pacato e accessibile, ma sostenuto da un giudizio senza sconti sulla politica, le case farmaceutiche, i media. Si parla del Covid-19, dei confinamenti, dell’Italia regolamentata dai semafori in base al numero dei contagi, delle quarantene indiscriminate dalle Alpi a Capo Passero, dell’idolatria dei vaccini. Ma se ne parla nella cornice della storia della medicina, con lo sguardo al cuore dell’uomo e al suo bisogno di essere salvato.

Tornare umani è una raccolta di idee per la ripresa e resilienza degli uomini di questo decennio di crisi e smarrimenti. Una summa per ricominciare dopo due anni di pandemia. E di infodemia. Che sono il punto di arrivo di un percorso che viene da lontano e che ci ha progressivamente ridotti a una dimensione. «Com’era la nostra società quando è arrivato il virus?», si chiede Tamaro. «All’apparenza, tutto andava nel migliore dei modi ma, per chi era capace di osservare la realtà con un po’ più di attenzione, era abbastanza chiaro che stavamo vivendo gli ultimi giorni di un carnevale protratto troppo a lungo». Le epidemie susseguitesi dalla fine del Novecento erano nient’altro che avvisaglie. E la Sars-Cov-2 è solo l’ultima delle infezioni annunciate, il modo in cui il pianeta Terra si ribella alle umiliazioni che le imponiamo. Altre ne seguiranno. Il paradosso della società carnascialesca è che siamo piegati da una quantità di malattie psicosomatiche, declinazioni di una tristezza abissale. «L’insonnia, l’irritazione, il mangiare smodatamente o il non mangiare affatto: problemi per i quali ci veniva sempre consigliata una pillola. Non dormi? Pillola. Sei triste? Pillola. Mangi troppo? Pillola». La causa è il disconoscimento delle domande fondamentali dell’uomo. «Con un lavoro astutamente tenuto sottotraccia, piano piano, al mondo contemporaneo è stata sottratta l’anima; al suo posto è stato regalato l’intrattenimento, il frenetico succedersi di risposte elargite dai media che non hanno altro scopo se non quello di evitare che le persone comincino a interrogarsi. Eppure, l’uomo che cos’altro è se non un’unica grande domanda?». E quando le medicine vengono usate per soffocare l’inquietudine che cosa sono se non «un mezzo per mantenere il controllo sociale?».

Il punto di vista di Tamaro è la persona, irriducibile a organismo biochimico. È la collina umbra, non equiparabile per decreto alle province lombarde. È una vita immersa nella natura, a contatto con le specie animali e i loro cicli vitali, le galline, le mucche, le rondini. In pochi mesi il virus ha reso la nostra società gaudente un cumulo di rovine. E siccome «l’economia ha abbandonato l’etica e si è trasformata in finanza», ora la finanza è il regno degli squali, predatori e voracissimi. Di fronte al dilagare del panico l’arte medica è stata sostituita dal protocollo: qualsiasi altra ipotesi rispetto a «Tachipirina e vigile attesa» viene scartata e demonizzata. «Non sono mai riuscita a vedere le case farmaceutiche come benefiche fatine. L’era dello squalene è la loro epoca», ammette Tamaro. Quando finalmente arrivano i vaccini, malgrado non siano stati testati a sufficienza, vengono idolatrati. «Nel culto del vaccino non era più presente neppure la più lontana parvenza di scienza, perché la scienza è davvero tale soltanto quando ammette il dubbio e la possibilità dell’errore». Invece, se «eretta a verità assoluta non è altro che il volto postmoderno del totalitarismo». Nonostante questo, o forse proprio per questo, quando si scopre che «il vaccino non possiede l’onnipotenza che avevamo sognato», si rammarica la scrittrice, vaccinata a sua volta, scatta la teoria del capro espiatorio: «Il no vax da figura folkloristica si è trasformato nel nemico mortale della nazione» perché non si è inchinato ai protocolli, ai decreti, alle statistiche.

Il punto di vista di Tamaro sono gli studi di scienze naturali e biologia, da Charles Darwin a Konrad Lorenz. Sembra che non abbia fatto altro nella vita. E in questi giorni in cui si cercano uomini e donne per guidare i dicasteri del prossimo governo, un illuminato ministro dell’Ambiente o della Salute potrebbe attingere alla sua idea di «medicina come arte» che utilizza le varie discipline e si relaziona all’unicità della persona. Al contrario, la scienza moderna porta a relazionarsi con l’umanità nell’«universo dell’indistinto. In cosa si manifesta l’universo indistinto? Nella cancellazione della memoria individuale (…); nell’annullamento dell’identità dei popoli ormai amalgamati nel megastore consumistico; nell’annacquamento di ogni pensiero etico – il bene e il male prêt- à-porter: il bene è ciò che per me è bene, il male ciò che per me è male –; nella ridicolizzazione della realtà genitoriale, con la conseguente deriva educativa che priva i bambini della loro dignità e della capacità di lottare, trasformandoli in insetti obbedienti; (…) nella promessa prometeica di vincere l’ultima battaglia, ovvero l’eliminazione della morte».

Sostenuta dalla sapienza orientale, il punto di vista di Tamaro è, come sempre, dove ci porta il cuore. «Ci porta all’umiltà, a inginocchiarci sulla terra e onorarla con lacrime di pentimento perché ci siamo raccontati che era una madre (…) mentre avrebbe dovuto essere una figlia». Ci porta a chiedere perdono alla creazione e alle creature: «Non sarà certo il buco dell’ozono o il riscaldamento climatico a porre fine ai nostri giorni bensì», conclude la scrittrice, «quello, molto più devastante, della cancellazione della nostra anima».

 

La Verità, 18 ottobre 2022

 

«La lettura per dovere salverà i nostri ragazzi»

W la scuola. A un certo punto del suo Contro Pinocchio (Einaudi), titolo da pamphlet più che da memoir, al culmine di una serie di ricordi e citazioni mandate a memoria, Aurelio Picca annota: «Non stiamo a scuola. Abbasso la sguola. W la scuola». Scritto così, con la doppia vu, come si faceva da ragazzini mezzo secolo fa (di solito la vu era rovesciata). E infatti «scuola» sembra rimbalzare da un’altra era. Anacronistica, lontana. Una cosa con i banchi affiancati. La lavagna. La maestra con la messa in piega. Preistoria, in tempi di Dad e Whatsapp. «Oggi la scuola non esiste più, è tutta burocrazia», sbotta Picca dalla sua casa tra gli ulivi sopra Velletri. E nel tono della voce, nell’incalzare del pensiero si avverte tutta la sua carica nervosa, corporale.

Parlavamo della scuola.

«È un grande parcheggio, un tempo di attesa. Chi ci va per imparare? Nessuno. Si va per relazionarsi…».

O per postare i video su TikTok.

«Appunto. Quando ho insegnato, per qualche anno, li facevo leggere e scrivere, leggere e scrivere… Li facevo imparare a memoria i canti di Dante. Adesso arrivano alle superiori che leggono scorrendo le parole con l’indice».

E lei vorrebbe far leggere Cuore di Edmondo De Amicis?

«No, voglio che imparino l’italiano. Che capiscano che cos’è una comunità, una memoria comune, un’appartenenza a una storia. Tanto per cominciare, tornerei a una solo maestra».

Partita persa.

«Probabile. Ma servono insegnanti che sappiano anche loro leggere e scrivere e insegnino la nostra letteratura, non quella americana tradotta. Alessandro Manzoni è modernissimo. Bisogna tornare alla lettura per dovere, che non vuol dire imposta, ma seriamente motivata. In officina se devi usare il tornio devi imparare come si fa. Se vuoi capire chi siamo noi italiani, devi passare dalla letteratura che ce lo dice».

Non Pinocchio, come dice il titolo del libro.

«Si sa come sono i titoli, servono a catalizzare. Più che contro Pinocchio è un libro contro tutti».

Non ci facciamo mancare niente.

«Contro la globalizzazione che ha preso un bel colpo dalla pandemia. Contro il Novecento inteso come secolo breve, che invece non è ancora finito. Contro gli italiani che pensano ancora all’Italia dei borghi e dei souvenir, non certo all’Italia del silenzio e della visione che ho visto da ragazzino».

Pinocchio non le piace perché è un burattino senz’anima?

«Intanto devo dire che ho letto la prima versione nella quale non diventa mai bambino. Lo attacco perché non sta nella realtà, non si fa male a giocare, non c’è la carne. Infatti, non ci dicono di che legno è: faggio, rovere, castagno? Sembra una storia virtuale. Con il legno vero da ragazzini ci facevamo le spade…».

Pinocchio ha ispirato trattati di teologia, di pedagogia, di filosofia perché ha la doppia natura: contestarlo vuol dire privarsi di un pezzo di storia.

«Tutto è partito da una riflessione su cosa far leggere a scuola. Rispetto all’ignoranza dei ragazzi di oggi che non conoscono la storia e la geografia e viaggiano sul computer, Pinocchio non dà risposte. Così, all’inizio abbiamo pensato a un saggetto polemico».

Che poi è diventato un memoir sull’infanzia.

«Faccio la spola tra le memorie letterarie e quelle reali del protagonista. Non è che non veda la metafisica di Pinocchio. Dice persino “Babbo mio vieni a salvarmi”… Solo che non sta nella realtà. Le botteghe dei falegnami non ci sono più, oggi neanche un adulto sa la differenza tra un faggio e un frassino».

Lei preferisce Cuore e I ragazzi della via Paal.

«Cuore è stato scritto a fine Ottocento e ha l’entusiasmo della patria giovane, dell’Italia finalmente unita. Tutta la vita si svolge nell’aula scolastica, dove ci sono i mestieri, gli artigiani, la manualità, le classi sociali. Nei Ragazzi della via Paal invece tutto accade nel campetto, il posto dello scontro con la banda dell’Orto botanico. Che per Ernesto Nemecsek diverrà la sua tomba. Qui la patria è da costruire, è una visione sul futuro che riguarda i ragazzi, ma pure i grandi».

Lei parla dei mestieri, del fabbro e del falegname, ma oggi siamo nell’era digitale.

«Per questo è un libro contro la globalizzazione. Chi si fa i mobili dal falegname? Si va all’Ikea. Non è solo il problema delle merci, dei prodotti, ma pure delle persone. La globalizzazione è standard, interscambio che annulla le differenze, cultura gender avanzata. Non vuole la famiglia, ma single che consumano, che si buttano nella movida, che viaggiano e fanno tutto online».

Dopo il Covid, la guerra in Ucraina ha sancito un altro stop.

«Il Covid ha decretato la caduta della prima globalizzazione, la guerra è il funerale definitivo».

Scrive: «La Russia è il cuore più grande del mondo. Non a caso è il Paese che ragiona in maniera superiore agli altri con il cuore e la vita che vi scorre». Se la legge qualche autore di liste di proscrizione le dispone un Tso d’urgenza.

«’Sti cazzi, dicono a Roma. Se fosse ancora vivo Carl Gustav Jung direbbe che gli americani non possiedono un inconscio collettivo, perché ce l’avevano gli indiani che non ci sono più. L’inconscio collettivo ce l’ha l’Europa cristiana, l’Europa dei miti. Quello più potente ce l’ha la Germania e ha le sue radici in Wotan, il dio della guerra. L’inconscio della Russia si fonda nella cristianità e nella spiritualità, nell’eterna pulsione dei barbari».

Tutto questo per dire cosa?

«Che in questa guerra conta, sì, la struttura, cioè l’economia. Ma contano pure le antropologie e le diverse idee di futuro. Non voglio parlare di guerre di religione, ma mi sembra che si affaccino delle questioni che riguardano il come si deve vivere. Del resto la questione della Russia e dell’Asia viene da lontano».

Lontanissimo.

«Con Giustiniano, Bisanzio era la seconda Roma. Già allora si voleva creare un mondo eurasiatico includendo la Russia. Per alcuni Mosca è la terza Roma. Nella modernità l’unico che ha avuto l’idea di inglobarla e ha parlato di Eurasia è stato Charles De Gaulle che era tutt’altro che atlantista. Voglio dire che non possiamo respingere la Russia, relegarla nell’Oriente».

Finché però c’è uno come Vladimir Putin che invade un Paese sovrano è un’operazione che risulta difficile.

«Putin e la Russia sono due cose diverse. Né noi possiamo risolvere il problema giustiziando Putin perché, a prescindere da lui, la Russia resterà una presenza imprescindibile a tutti i livelli. Hanno fatto fuori gli zar ed è arrivata l’Unione sovietica, è caduta l’Unione sovietica ed è arrivato Putin. La Russia è un’entità culturale complessa con cui fare i conti. Che in qualche modo ci fa da specchio, come noi europei facciamo da specchio alla Russia. In questo confronto reciproco emergono le rispettive contraddizioni».

Nel frattempo, nelle università e nei teatri si cancellano gli scrittori, gli artisti e le opere russe.

«È una bestemmia solo porre il problema».

Mentre lei decanta un passato innocente e carnale, la cancel culture vuole setacciarlo con il perbenismo patinato.

«Stiamo assistendo a un’operazione di cinismo culturale che vuole costruire l’uomo post-umano. Il cyborg, il gender. Meno è cosciente di sé e più l’uomo del Terzo millennio è preda della manipolazione e del controllo».

E recide il suo essere creatura.

«Anche il suo mistero, la sua unicità. Siamo esseri uno diverso dall’altro. Invece si vuol rendere tutto uguale e insapore, uniformando gusti e desideri. Basta guardare la pubblicità, gli ammiccamenti, la convergenza sugli stessi gadget. È la distruzione del sacro, dove creatura e natura si incontrano rispettando le diversità. Siamo a un passo dall’apocalisse, dalla fine dell’umanità».

Spariscono anche l’affettività e il sesso?

«Siamo nel post-pornografico. Si parla di sesso perché non si fa più. La prima cosa che ti mandano sono le foto nude, non si ha più il coraggio dell’incontro. Oppure è solo narcisistico, una pulsione drogata, performativa, sbrigativa. Anche il sesso richiede tempo».

Chi sono i «ragazzi-futuro»?

«Prima o poi, defunta la globalizzazione e visti gli effetti del post-umano, qualcuno, una minoranza, comincerà ad avere a noia l’iPhone e il virtuale e inizierà ad avere una visione».

Scrive che Franti è l’antesignano di Billy Boy di Arancia meccanica: il bullismo di oggi non è nuovo?

«C’è sempre stato. Ma si era allenati a combattere da soli perciò non lo si diceva in casa. Era un rito d’iniziazione, una sorta di apprendistato. Caso mai oggi è aumentata la perversione, la serialità della violenza».

Cosa cercano le baby gang che stuprano in gruppo, agiscono come cosche, si radunano con i social per picchiarsi?

«Esprimono un’impotenza. Una volta ci si batteva uno a uno, corpo a corpo. Adesso in gruppo perché da soli manca il coraggio. Il gruppo copre un’inadeguatezza. Si va in palestra, ci si costruisce una forza utile ad alzare pesi, ma inutile nel quotidiano».

Il sesso virtuale, la pubblicità standard, le palestre, la movida…

«Tutto si uniforma e appiattisce. Anche il turismo e la ricerca della bellezza diminuiscono la possibilità di scelta. Tutti in fila al museo, alla mostra gettonata. La fruizione è schiacciata sull’attualismo e sulle esperienze della maggioranza. Si leggono libri come si guardano i format e si guardano le serie come si leggono i libri. I talenti che portano vera creatività non servono alla cultura globale perché tutti devono somigliare a tutti».

Con la guerra in Ucraina si parla molto di bambini mentre se ne fanno sempre meno.

«È indiscutibile che la morte dei bambini sia la tragedia assoluta. Ma in questo parlarne vedo ipocrisia e cinismo, perché poi nelle relazioni quotidiane, il primo obiettivo è che i bambini non disturbino gli adulti. C’è ancora qualche madre che la mattina prepara al figlio lo spuntino da consumare a scuola? Quello era un gesto rivoluzionario; si fa prima a comprare la merendina industriale».

Le parole salvifiche del libro sono innocenza e patria: dove le rintraccia nella realtà?

«Nella scelta dei rapporti. Nel dire no a questa ondata che travolge l’umano. È una scelta che si paga con la solitudine. Che però, a volte, aiuta a leggere i fatti. Sebbene io pensi che ci sono uomini che nascono con la grazia e la conservano per sempre e altri no, lo sguardo dell’innocenza non spetta più a noi adulti. Forse l’innocenza sta nella libertà di mostrare la propria fragilità. Il che vuol dire anche esser disposti a donarsi. Al contrario del mondo globale che vuole prendere. E mostra solo forza, giovinezza, perfezione».

 

La Verità, 7 maggio 2022