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«In università posizioni totalitarie e anti ebraiche»

Rispetto della realtà in tutti i suoi fattori. È la dote principale in cui ci si imbatte dialogando con Luciano Violante, ex magistrato, già presidente della Camera e attualmente a capo della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine. Confrontarsi con lui sui fatti che agitano le università italiane, cominciando da quella di Torino, la città dove risiede quando non è a Roma, vuol dire avvicinarsi alla dimensione dell’oggettività.
Vorrei cominciare dalla fotografia della riunione del Senato accademico di Torino. Mentre i docenti sono concentrati sui loro dispositivi, alle loro spalle studenti con bandiere palestinesi e striscioni chiedono lo stop all’apartheid e di sospendere gli accordi con le università israeliane. Qual è il suo commento?
«È un commento negativo. Da quella foto emerge una sorta di dimissione del Senato accademico dalle sue proprie funzioni. Un abbandono delle proprie responsabilità che suscita imbarazzo e fa male all’università».
Secondo lei il ricorso a parole come genocidio e apartheid nelle manifestazioni studentesche è frutto di superficialità o di eccesso di ideologia?
«Mi permetta un passo indietro. Le ragazze e i ragazzi protagonisti di queste contestazioni sono appena usciti dell’adolescenza e hanno bisogno di impegno ideale, di mobilitarsi per un’idea; ma hanno scelto un’idea e un impegno sbagliati».
Che cosa intende?
«Tutte le giovani generazioni hanno, ed è bene lo abbiano, un obiettivo ideale che ordina il loro impegno civile. Può essere l’ambiente, la pace, il miglior funzionamento dell’insegnamento scolastico. I giovani che vediamo in questi mesi però hanno sbagliato sia nel merito che nel metodo. Nel merito, perché quelli che contestavano erano accordi che riguardavano le università, non il governo Netanyahu. Nel metodo, perché da un approccio filo palestinese sono scivolati all’intolleranza anti ebraica. Il popolo israeliano non è il governo israeliano».
Al termine della riunione, il Senato accademico ha votato, dice in autonomia, la mozione che interrompe le collaborazioni proposte dal ministero degli Esteri.
«Se l’avessero fatto in autonomia l’avrebbero deciso prima. Le istituzioni, il Senato accademico è un’istituzione, non devono mai agire condizionate dalla pressione aggressiva di un avversario. Soprattutto se si è professori universitari e si devono trasmettere dei valori civili».
Dall’osservatorio di presidente della Fondazione Leonardo condivide la volontà dei docenti della Normale di Pisa di selezionare le ricerche cosiddette dual use, interrompendo quelle a fine bellico?
«Ci sono tre questioni distinte. Innanzitutto, la dual use può essere o accidentale o programmata. Accidentale è l’automobile costruita per trasporto di persone e cose, usata invece come autobomba. Programmata è la fabbricazione di un elicottero che, può salvare vite in mare, e con alcuni accorgimenti  può invece compiere azioni di guerra. La seconda questione riguarda le ricerche oggetto dell’accordo che riguardavano l’agricoltura di precisione, l’utilizzo e il governo delle acque, l’elettronica quantistica; nessuna fornitura diretta o indiretta di armi».
E la terza questione?
«L’ho già accennata. L’azione dei ragazzi che voleva essere filo palestinese, in realtà è scivolata nell’anti ebraismo. “Fuori Israele dall’università” lo dicevano i fascisti delle leggi razziali. Premesso questo, credo che l’università dovrebbe indicare obiettivi accettabili, seri e raggiungibili per fare progredire il Paese nel quale opera piuttosto che limitarsi a rispondere sì o no a degli appelli».
Nelle prese di posizione di alcuni atenei, da Torino a Pisa, dalla Bicocca di Milano alla Sapienza di Roma, vede un corpo docente cedevole nei confronti degli studenti o troppo partigiano nell’interpretazione della crisi mediorientale?
«Vedo atteggiamenti diversi. Giovanna Iannantuoni, rettrice della Bicocca, e Antonella Polimeni, rettrice della Sapienza, hanno adottato comportamenti di grande rigore».
A Torino, all’inizio, l’unica a opporsi al boicottaggio è stata la preside di Matematica.
«La professoressa Susanna Terracini».
Invece Francesco Ramella, preside di Scienze politiche, ha respinto l’accusa di arrendevolezza agli studenti precisando che il confronto con loro è utile, dimenticando però di dire qual è stato l’esito di quel confronto.
«Perché non c’è stato confronto, ma un’imposizione».
Sul Corriere della Sera Angelo Panebianco
, che in passato ha subito forti contestazioni da parte di gruppi studenteschi, ha messo in guardia dal pericolo che le nostre università siano guidate da dei Don Abbondio.
«La maggior parte delle università si è comportata seriamente. Coloro che hanno temuto di scontentare gli studenti hanno tradito il proprio ruolo professionale. Angelo Panebianco è uno studioso di particolare autorevolezza».
Altri sottolineano che già a fine ottobre un appello che parlava di genocidio del popolo palestinese ha raccolto 4000 firme di docenti.
«Purtroppo non è un abuso anche se non è ancora una verità. Un cospicuo numero di giuristi inglesi sostiene pubblicamente in questi giorni che si tratti di genocidio. Anche il Tribunale internazionale dell’Aia sta riflettendo sul caso. È un abbattimento di massa di persone, case, scuole, ospedali. Con errori gravi che hanno colpito innocenti e migliaia di bambini. La situazione è insostenibile. Anche il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha chiesto nuove elezioni e il presidente americano, Joe Biden, ha chiesto di ripristinare gli aiuti umanitari a Gaza».
Boicottando le collaborazioni con le università si penalizza il governo Netanyahu o si danneggiano gli israeliani?
«Si danneggiano le università, quindi i cittadini. Si danneggiano gli israeliani coetanei dei manifestanti italiani».
Come considerare il fatto che nelle nostre università ci sono dipartimenti e studiosi che collaborano con colleghi della Cina, della Russia, della Corea del Nord e dell’Iran?
«Se dovessimo adottare il criterio della mozione approvata a Torino dovremmo interrompere le collaborazioni con un terzo del mondo».
Questi spazi di confronto in nome dell’indipendenza della scienza possono favorire forme di diplomazia anche in altri campi?
«Assolutamente sì. Parlare con l’avversario è indispensabile per  il progresso civile. Non farlo o impedire di farlo è una forma di primitivismo politico. Come quella che abbiamo visto quando furono vietate le lezioni di Paolo Nori su Fëdor Dostoevskij alla Bicocca di Milano».
La causa del clima attuale è l’antisemitismo, l’orientamento filopalestinese della sinistra radicale o la contestazione della politica estera del governo?
«Soprattutto c’è la distruzione di una parte del popolo palestinese, contestata persino da Biden. Allo stesso modo, un fatto che stupisce è che dopo il 7 ottobre non si sono tenute manifestazioni significative a favore di Israele. Le donne sono state rapite, violentate, fatte oggetto di una serie di abusi inaccettabili. Com’è avvenuto anche per i prigionieri. Ci si aspettava una reazione che non c’è stata».
Alla Giornata della donna indetta da Non una di meno, l’una di meno, letteralmente, è stata una donna respinta perché voleva che il corteo ricordasse anche le donne uccise e violentate dai terroristi di Hamas?
«Non conosco l’episodio specifico, ma se è avvenuto è la riprova che si parte dall’essere filo palestinesi e si arriva a essere anti ebraici».
Come definirebbe l’impedimento a parlare nelle università ai giornalisti David Parenzo di La7 e Maurizio Molinari, direttore di Repubblica?
«Sono fatti inaccettabili, che fanno parte di scenari che non vorremmo mai più vedere. Impedire a una persona di parlare, in primis a un avversario politico, è uno degli aspetti caratteristici del totalitarismo».
È curioso che questo divieto sia imposto da gruppi come Cambiare rotta che si professano paladini della democrazia?
«Queste posizioni sono, inconsapevolmente spero,  totalitarie. Personalmente, pur pensandola diversamente da lui, in questo guazzabuglio ho apprezzato l’iniziativa del professor Tomaso Montanari, rettore dell’università per stranieri di Siena, che ha deciso di chiudere i corsi sia per il giorno di fine Ramadan quanto, in memoria delle vittime del 7 ottobre, per lo Yom Kippur».
In tema di circolazione delle idee c’è affinità, come qualcuno osserva, fra l’intolleranza attuale e il clima del Sessantotto?
«Non vedo questo parallelismo. Certe forme di intolleranza possono ricordarlo, ma il Sessantotto contestava le strutture delle società e dei poteri pubblici all’interno di una teoria politica. generale, mentre la protesta attuale è più limitata».
O c’è affinità con il clima degli Anni di piombo? Allora si parlava di pochi cattivi maestri, oggi appelli per interrompere le collaborazioni con le università israeliane vengono sottoscritti da migliaia di docenti.
«Gli Anni di piombo hanno visto i morti per strada, più di 500.  Con tutto il rispetto, credo che quei docenti sbagliano perché non penalizzano il governo Netanyahu, ma le università israeliane e gli studenti israeliani».
Questo clima è un prodotto interno dei nostri atenei o lo importiamo dall’estero?
«Si sta manifestando anche nei college e nelle università americane. Ma torno al punto di partenza: questa generazione appena post adolescenziale ha bisogno di obiettivi sani. E siamo noi adulti a doverli suggerire, altrimenti scelgono quelli sbagliati».
Quindi anche lei vede forti responsabilità del corpo insegnante?
«Io parlo di responsabilità della nostra generazione».
L’intolleranza è frutto di indottrinamento?
«Vedo piuttosto autodidatti dilettanti che rimasticano vecchi luoghi comuni dell’intolleranza e che proprio per questo possono essere pericolosi, loro malgrado».
Un tempo le università erano laboratorio critico del sistema, oggi i college americani sono il posto dove si forgia il politicamente corretto, quasi una nuova forma di maccartismo?
«Negli Stati Uniti non sembra esserci una élite capace di proporre obiettivi validi. L’America attraversa una fase di declino: cultura woke e cancel culture sono frutto di ignoranza. E l’ignoranza è terribile, come documenta, per esempio, la sospensione di quella professoressa che aveva mostrato il David di Donatello in una scuola americana».
Che reazione le ha suscitato l’università di Trento che ha scelto di declinare i documenti amministrativi con il femminile sovraesteso?
«Suvvia, lasciamo perdere».

 

La Verità, 6 aprile 2024

«Se il Pd ignora i doveri i diritti restano un’illusione»

Luciano Violante è un uomo delle istituzioni, uno studioso, un ex magistrato capace di ascolto e di confronto. Esemplare raro nello scenario politico contemporaneo. In La democrazia non è gratis – I costi per restare liberi (Marsilio) l’ex presidente della Camera si chiede se «con tutto il suo carico di storia, di cultura, di innovazione per il benessere dell’umanità, l’Occidente deve rassegnarsi alla sconfitta o alla marginalità?».

Presidente Luciano Violante, nel suo libro esprime preoccupazione per le sorti della democrazia a livello mondiale: che cosa la mette in pericolo in modo particolare?

«Il fatto che non ce ne stiamo curando. La democrazia non è un bene che si trova in natura. È sempre costata lotte, guerre, morti e lutti. Va costruita e difesa giorno per giorno, altrimenti deperisce. Oggi in Occidente non lo stiamo facendo».

La democrazia è lo stato perfetto, l’Eden della convivenza politica?

«È un processo continuo basato sul rispetto tra le persone, tra le persone e le istituzioni, tra le persone e le cose. Mira alla non discriminazione, riconoscendo i bisogni e i meriti».

La democrazia ha anche dei limiti, per esempio la lentezza delle decisioni?

«Certamente, perché prevede il confronto e il confronto rallenta, ma consente di giungere a decisioni utili alla comunità. Senza confronto si decide prima, ma molto spesso peggio. È necessario cambiare le vecchie procedure, e farlo rapidamente. Le soluzioni esistono».

Quando si parla di democrazia non è il caso di aggiungere l’aggettivo reale come si faceva per il socialismo?

«Parlerei  di democrazia effettiva più che reale. La democrazia effettiva è un bilanciamento tra rappresentanza e decisione. Anni fa fui criticato quando parlai di democrazia decidente, ma trovo che sia l’espressione giusta perché indica una democrazia capace di decidere e che non si limita a rappresentare».

T. S. Eliot diceva che spesso gli uomini «sognano sistemi così perfetti da non aver più bisogno di essere buoni». È un’espressione che somiglia a quella da lei citata del presidente americano James Madison: «Pensare che una forma di governo garantisca la libertà o la felicità senza alcuna virtù nella popolazione, è una chimera».

«Innanzitutto, la democrazia si considera imperfetta, mentre  le tirannie si  presumono perfette. Detto questo, la democrazia è un processo di continuo movimento, un andare avanti… anche se a volte si va indietro. Tornando a Madison, essa ha bisogno non solo di classi dirigenti democratiche, ma pure di cittadini democratici, che rispettino i propri doveri».

A proposito delle tirannie elettive lei segnala i pericoli di quelle capeggiate da Vladimir Putin, Viktor Orbán e Recep Tayyp Erdogan, non sarebbe corretto parlare al plurale anche delle democrazie, così diverse in Germania, in Francia o in Gran Bretagna?

«Infatti. Le tirannie sono tutte uguali, le democrazie sono tutte diverse».

La democrazia decidente è un compromesso tra le tirannie elettive e le democrazie solo rappresentative?

«Non è un compromesso, ma è la vera democrazia. È un sistema  che ascolta al fine di decidere; non è un sistema che ascolta al fine di ascoltare».

L’obiettivo è governare.

«E quindi decidere. Che vuol dire scegliere, ovvero sacrificare alcuni interessi e favorirne altri».

Il presidenzialismo o un forte cancellierato potrebbero essere la soluzione?

«Il presidenzialismo, nelle sue varie forme, era un buon sistema fino a vent’anni fa, quando le società erano pacificate e non avevano bisogno di arbitri. Questo perché il presidenzialismo è un sistema duro: chi vince governa, chi perde va a casa. Oggi probabilmente non è più adeguato. Pensi al sistema americano dove alle camere si dovrebbe realizzare il bilanciamento dei poteri rispetto al Presidente. Invece  al Senato si istruisce il processo a Donald Trump mentre alla Camera la maggioranza repubblicana vuole processare Joe Biden o suo figlio. In Francia il presidente Emmanuel Macron ha tutta la società contro. In Brasile abbiamo avuto il caso di Jair Bolsonaro, un tipico esempio di presidenzialismo populista. Trovo che il cancellierato su modello tedesco sarebbe il sistema migliore anche per l’Italia».

In Germania c’è una legge elettorale proporzionale, dovremmo recuperarla anche noi?

«Si può anche fare, non c’è un sistema migliore degli altri. Il proporzionale favorisce il rapporto tra i partiti e la società e nella nostra attuale situazione potrebbe essere utile. Con partiti forti è più efficace il maggioritario, con partiti deboli quello proporzionale».

Lei indica l’assalto dei trumpiani a Capitol Hill e la rivolta dei seguaci di Bolsonaro come esempi di azioni antidemocratiche. Sono episodi estemporanei o vere minacce per la democrazia?

«Sono manifestazioni proprie delle  società non pacificate».

Quindi episodi contingenti?

«Bisogna attendere. Non sappiamo che effetti avrà sulla società americana il processo a Trump. Non sappiamo quali conseguenze avrà la ribellione a Macron, il cui governo ha superato la mozione di sfiducia per soli nove voti».

I vari populismi e l’affermarsi di partiti e movimenti sovranisti sono una reazione alla presunzione di superiorità delle élites?

«Distinguerei tra sovranismo e populismo. Il populismo individua problemi giusti offrendo soluzioni sbagliate. Mentre il sovranismo è la tendenza a rendere prioritari fattori nazionalisti. Così facendo degenera spesso nell’autoritarismo».

Le élites hanno responsabilità in queste evoluzioni?

«Le élites sono necessarie. L’importante è che non siano elitiste, cioè che vivano il loro essere élites come una responsabilità e non come un privilegio».

Non c’è un po’ di ingenuità in questa fiducia? Parafrasando Giulio Andreotti, chi ha il potere se lo tiene stretto.

«Le élite ci sono dappertutto, nella politica, nel giornalismo, nella ricerca scientifica… Non necessariamente esercitano un hard power. Spesso si tratta di soft power, di capacità d’indirizzo e di orientamento. L’importante è che le élites non si sentano tali e quindi non si mettano al vertice di una scala gerarchica. A quel punto sono solo oligarchie».

Resto scettico guardando a ciò che accade nel nostro Paese.

«Dovremmo saper distinguere tra élites e oligarchie».

Quanto è sottile la linea di separazione?

«Trovo che ci sia un confine solido: l’élite persuade, l’oligarchia comanda».

Sempre in linea teorica.

«La teoria è indispensabile per la pratica».

Le spinte populiste sono state prima un segnale e ora una reazione all’illusione della globalizzazione a guida occidentale?

«L’assalto alla Camera dei militanti trumpiani e l’invito dei “bolsonari” all’insurrezione delle forze armate in Brasile sono la conseguenza della mancata cura della democrazia. Di diversa natura è il tema della presunzione dell’Occidente di guidare la globalizzazione. È in corso la sostituzione della globalizzazione tradizionale, fondata sui mercati, con una nuova globalizzazione fondata sull’alta tecnologia».

La chiama «reintermediazione». Quanto è temibile per la democrazia il potere degli algoritmi e dei grandi marchi digitali come Apple, Microsoft, Amazon?

«Le regole europee cercano di regolare  questi oligopoli».

Per l’esercizio della democrazia è da considerare più subdolo il capitalismo o il totalitarismo della sorveglianza?

«La sorveglianza è di per sé un rischio. Ma l’esperienza ci dice che c’è più libertà nei paesi  con economie di carattere capitalistico, che in Cina o in Russia».

Nei sistemi occidentali la qualità della democrazia andrebbe correlata anche con la composizione del potere che controlla i media?

«La libertà dei mezzi di comunicazione è essenziale per il funzionamento della democrazia. Non a caso i primi poteri che i sistemi autoritari attaccano sono quello dei media e della magistratura, ovvero i poteri di controllo».

Come giudica il fatto che il rapporto di Worlds of Journalism Study (Columbia University Press, 2019) ha evidenziato che l’Italia ha i giornalisti più orientati a sinistra di tutta Europa?

«Segno che  la sinistra ha fatto un buon lavoro».

Lei cita l’instabilità dei governi italiani come fattore di debolezza democratica. Cosa si può dire del fatto che per un decennio, salvo l’anno del Conte 1, il Partito democratico ha sempre governato pur avendo perso le elezioni?

«Evidentemente è un partito capace di costruire le alleanze. Non dico che governare senza vincere le elezioni sia un fatto positivo, ma nelle democrazie parlamentari può accadere».

In questo caso élite e gruppo di potere coincidono?

«A volte coincidono, ma non sempre; le élites tendono a persuadere, non a prevaricare».

La persuasione si riscontra nel voto.

«Per governare, oltre al voto, serve la capacità di costruire alleanze».

Qual è il suo pensiero sui primi passi della neo segretaria Elly Schlein?

«È ancora presto per giudicare. Sta revisionando la macchina, non ha ancora cominciato a guidarla».

Però la segreteria l’ha composta.

«Quella è la macchina».

 E com’è?

«Le macchine si giudicano quando corrono, non quando stanno ferme».

Con Elly Schlein la trasformazione del vecchio Pci in partito radicale di massa profetizzata da Augusto Del Noce sarà più rapida?

«Non ho mai condiviso quella definizione anche perché a volte il Pd è stato un partito moderato di massa».

Con Matteo Renzi, per esempio, ma poi ha ripreso la direzione dei diritti civili: ora potrebbe accelerare?

«Un grande partito deve parlare anche di doveri senza i quali non c’è comunità. Se non bilanciati dai doveri, i diritti diventano un’illusione».

Identificare i desideri con i diritti può essere una minaccia alla corretta gestione del bene comune?

«I desideri interessano i singoli; i diritti investono la comunità e le sue istituzioni. Perciò i desideri non possono diventare automaticamente diritti».

Che sorte avranno a suo avviso i cattolici in questo Pd?

«Non sono cattolico, ma penso che  la cultura cattolica democratica è essenziale perché ci sia il Pd; altrimenti ci sarà un partito diverso».

La priorità che Elly Schlein sta dando ai diritti civili è la strada giusta per «riconnettersi con chi non ce la fa» come auspicò Enrico Letta subito dopo lo spoglio elettorale?

«In alcuni casi, come le madri che devono crescere i figli in carcere, la risposta è positiva. Ma le comunità che chiedono diritti sociali sono più ampie e più profonde rispetto a quelle che chiedono più diritti individuali. Io penso alla centralità della formazione delle giovani generazioni per una politica capace di rispondere ai bisogni e valorizzare i meriti».

 

 La Verità, 14 aprile 2023 

 

 

Il caso Orsini e il regime soft dei migliori

La censura dei migliori. Operata dai migliori. I buoni, quelli che stanno dalla parte giusta della Storia. La vittima è il professor Alessandro Orsini, docente di Sociologia del terrorismo internazionale presso la Luiss (Libera università internazionale di studi sociali). Colpevole di avere posizioni non allineate al pensiero unico atlantico. E per di più colpevole di percepire 2.000 euro a puntata per sei puntate di #Cartabianca alle quali l’aveva invitato Bianca Berlinguer. È un filputiniano, così è stato marchiato, lo si può colpire. Dopo la prima ospitata e la levata di scudi, preventiva ma unanime, dal Pd a Italia viva, la Rai ha stracciato il suo contratto. Il direttore di Rai 3, Franco Di Mare, «d’intesa con l’amministratore delegato della Rai» ha deciso di non dar seguito all’accordo «originato dal programma #Cartabianca che prevedeva un compenso per la presenza del professor Orsini». È la Rai al tempo di Mario Draghi e di Carlo Fuortes. Eccezioni e dissonanze non sono tollerate. Almeno Silvio Berlusconi aveva il coraggio di diramare un editto. Ora si censura con un comunicato, in sordina. Con i modi del regime soft. «Mamma Dem comanda e la Rai ubbidisce», ha twittato Marcello Veneziani. Corradino Mineo ha parlato di maccartismo.

Lo scandalo è doppio. Innanzitutto che Orsini esponga critiche alla Nato e all’Unione europea a proposito della situazione che ha portato all’invasione di Putin dell’Ucraina. E poi che lo faccia essendo retribuito. Da Paola Picierno a Stefano Bonaccini, da Andrea Romano a Michele Anzaldi il senso del ragionamento è questo: se vuole dire le sue opinioni lo faccia gratis. Domanda: per essere pagati, come lo sono tutti gli opinionisti da Mauro Corona ad Andrea Scanzi, da Giampiero Mughini a Beppe Severgnini per citare i primi nomi che vengono, bisogna dire cose gradite al padrone del vapore? Berlinguer ha replicato che se si vuole approfondire il dibattito (i talk non si chiamavano programmi di approfondimento?) il contraddittorio è necessario. Escludere una voce rappresentativa di un’opinione presente nella società italiana lo mortificherebbe. «Serve la più ampia pluralità di idee. Non è forse questa la missione del servizio pubblico?», ha chiesto Berlinguer. Orsini si è detto pronto a partecipare al programma anche gratuitamente. Vedremo se il problema sono gli euro o i contenuti del professore. O magari la Berlinguer stessa, che la Rai draghiana vuole accantonare.

La gran cassa del monopensiero lavora a tempo pieno fin dalla pandemia. E con l’invasione dell’Ucraina ha serrato ancora di più le file. In pochi giorni abbiamo letto la lista di proscrizione di indegni filoputiniani, sorta di scomunica civile, redatta da Gianni Riotta. Abbiamo visto Beppe Severgnini accaldarsi nel dire «che bisogna leggere solo i giornali giusti e guardare solo i programmi giusti». Abbiamo letto Massimo Gramellini randellare tutti coloro che deviano dal sentiero bellico per dire che con costoro non ci può essere alcun dibattito. Abbiamo letto Antonio Polito scrivere scandalizzato che «in ogni talk show ce n’è uno». Sarebbe questo lo scandalo. Invece, mi verrebbe da dire: grazie a Dio. Anche se non condividessi nulla di ciò che questo «uno» sostiene. È un fatto di pluralismo, bandiera ammainata dalla sinistra. Di salute della democrazia, principio che ormai i dem disconoscono. Tutti allineati e coperti, si diceva da militare. E chi sgarra, in punizione. O censurati. Dai migliori.

 

«Farò la terza dose, ma il pass non mi convince»

Sergio Castellitto non si allinea. Anzi, si potrebbe dire che si ribella. Al pensiero unico, al gne gne salottiero, al chiacchiericcio dei talk show. Per questo, ascoltarlo qualche sera fa motivare il suo «pensiero altro» davanti a Giovanni Floris ha suscitato curiosità e voglia di approfondire. Lunedì lo vedremo su Rai 1, protagonista di Crazy for football, film-tv tratto dalla storia vera di una squadra di calcetto composta da persone con problemi psichiatrici che punta  a partecipare al campionato del mondo della sua categoria. Castellitto sarà Saverio Lulli, un medico visionario e generoso.

Forse troppo?

«La generosità non è mai troppa. Il suo contrario sarebbe la misura, la capacità di essere strategici? Da psichiatra ci caschi per forza, l’emotività ha i suoi diritti. E anche se gli psichiatri cercano di mantenere la giusta distanza, alla fine credo che le relazioni umane, con i loro conflitti, siano la benzina che ci tiene vivi. Parliamo molto della violenza esteriore, ma tendiamo a sottovalutare quella che investe la nostra interiorità».

Perché ha creduto in questo film-tv?

«Il mondo della psiche è importante nel mio mestiere. Gli attori lavorano molto sul “materiale emotivo”, mi sto autocitando. È un mondo che ho sempre frequentato fin da Il grande cocomero di Francesca Archibugi e poi nelle tre stagioni di In Treatment per Sky».

Poi c’è il calcio.

«Uno sport che è un gioco. Ma è anche una metafora, con due squadre, quasi due eserciti che si affrontano per prevalere e che offre la possibilità di raccontare la solitudine. Questi due gruppi di ragazzi trovano nel gioco una possibilità quasi terapeutica di mescolare le loro solitudini e di comprendere meglio la propria individualità. Infine, mi piaceva che al centro ci fosse non uomo perfetto, ma un padre e marito imperfetto. Spesso sono le nostre imperfezioni a renderci speciali. Perché dovremmo cominciare a chiederci cosa voglia dire essere normali e cosa non esserlo».

C’è bisogno di storie costruttive dopo quello che abbiamo passato e stiamo passando?

«C’è bisogno di dimenticare. Ma anche di impreziosire ciò che ci è accaduto, per esempio attraverso l’attività di noi artisti. Dobbiamo essere disposti a raccontare l’intimità di questa immane tragedia. Non ho mai creduto che saremo stati migliori. Rispetto a cosa? Purtroppo il dibattito politico mi dà la sensazione che i rancori e gli odi siano tornati a essere materia da prima serata».

Perché nonostante la riapertura al 100% le sale cinematografiche non si riempiono?

«C’è una sorta di ginnastica riabilitativa che ognuno di noi deve fare. Abbiamo voglia di riprendere i riti della socialità, il cinema, i concerti, il ristorante. Ma dopo due anni di isolamento e solitudine, una certa titubanza è comprensibile e legittima. I media non in crisi sono l’oggetto che tutti abbiamo in salotto e i social. Sono i totem moderni, la Chiesa, il Parlamento, l’opinionismo».

Il pubblico stenta a ritrovare l’abitudine di andare al cinema?

«Tutto ciò che ci costringeva a fare il gesto attivo di andare in un posto, che implicava la decisione di partecipare non è più automatico. Dobbiamo ricominciare. L’unico vantaggio è che vincerà la qualità. I rami secchi saranno tagliati e prevarrà ciò che ha davvero un senso. Sono ottimista senza essere superficiale».

Tra i media che sono cresciuti durante la pandemia ci sono anche i libri, protagonisti del suo Il materiale emotivo: quanto dobbiamo esserne contenti?

«Sì, dobbiamo essere contenti. Pur sapendo che i libri li abbiamo comprati soprattutto su Amazon. In Italia si pubblica una quantità esorbitante di libri rispetto a quanto si legge. Ma la letteratura non è un fatto di quantità perché nasce dentro la solitudine di un artista. Lo vedo con mia moglie, Margaret Mazzantini. Costruire un mondo, raccontare una storia e metterci la propria visione del mondo è un gesto a suo modo titanico».

Le rifaccio la domanda che le fa Yolande nel film: cosa vuol dire che l’attualità uccide?

«E io rispondo come il mio personaggio: “L’attualità ci folgora, ci rende più fragili”. Lui è circondato da amici. Sono i personaggi dei romanzi di Dostoevskij, di Simenon, Don Chisciotte… La sera davanti ai fatti terrificanti che ci raccontano i telegiornali continuiamo a mangiare, indifferenti. Ma se leggiamo in un romanzo di un gatto che muore magari ci commuoviamo. L’attualità ci anestetizza, offrendoci anche l’alibi di essere informati. Io vorrei capire di più di come l’informazione accende e spegne le notizie».

Cosa intende dire?

«Faccio un esempio. Ci siamo tutti fermati davanti a quel bambino lanciato per essere salvato oltre il muro dell’aeroporto di Kabul, ma una settimana dopo nessuno si è più chiesto che fine abbia fatto. Romanticamente, sogno un’informazione che mi dica dov’è finito, se ha trovato una famiglia, se un giorno potrà studiare a Oxford o tornerà a Kabul».

Non si fida molto dei media, mi pare.

«Ora stiamo assistendo al G20, un appuntamento importante e necessario. Ma ho la sensazione che questa rappresentazione somigli alle vecchie parate militari, quando ce ne stavamo dietro le transenne a veder passare i bersaglieri. Come osservava Luigi Pirandello: vedo tante maschere e pochi volti».

Che cosa le ha lasciato l’esperienza di malato di Covid?

«Il sentimento più presente è stata la solitudine. La sensazione di essere caduto nel mistero che questa malattia è stata ed è ancora».

Una solitudine dovuta al fatto che i suoi famigliari non potevano avvicinarla?

«Una solitudine interiore. Ogni malattia in qualche modo consente il riaccendersi di un colloquio con sé stessi. Ascolti il tuo corpo, riguardi al tuo passato, improvvisamente ti trovi su un baratro. Non ne parlato prima perché non mi piaceva un certo esibizionismo della malattia. Quando ne esci tendi a rimuoverla, ma una cicatrice, un senso di fragilità rimane».

La convince l’intransigenza con cui vengono indicate alcune regole di protezione?

«Non mi convince perché nel dibattito in corso, se non ti schieri completamente da una parte, diventi il nemico e sei etichettato come barbaro. Con chi la pensa diversamente da me, preferisco praticare il confronto anziché il conflitto. Lo dico con il green pass in tasca, voglio capire perché resiste questa minoranza. In questi anni si è insistito giustamente sull’accoglienza delle minoranze. Tra coloro che non si allineano ci sono intellettuali, filosofi, una persona che stimo come Carlo Freccero. Non si può accettare che sia assaltata la sede della Cgil, ma nemmeno che si sparino gli idranti contro i portuali di Trieste».

Si è scritto e parlato molto più del primo fatto che del secondo.

«Su questo ci vorrebbe un libro più che un’intervista. La narrazione è decisiva. Un giorno qualcuno potrà stabilire se tutto è nato dal pangolino o da qualcos’altro. Ma di questo non si parla».

E non solo di questo.

«Non ci si interroga sul fatto che un 50% di elettori non è andato a votare perché non si sente rappresentato. Ci sono degli establishment che si combattono. Se si continua fare buoni contro cattivi non si va da nessuna parte».

Anche perché i buoni sono sempre gli stessi.

«È pleonastico dire che siamo contro la violenza. O che gli immigrati vanno salvati. Un problema da risolvere è anche l’ipocrisia dell’Europa. L’uomo si è sempre spostato verso la ricchezza. Ma dobbiamo avere gli strumenti per aiutare davvero chi soffre, sia civilmente che sul piano morale».

I fautori del Green pass intransigente dicono che è garanzia di libertà.

«Io credo che nelle sue modalità conservi delle contraddizioni. Se salgo su un autobus o nel metro non mi viene chiesto niente, ma senza green pass non posso andare a lavorare».

Perché negli altri Paesi europei c’è un’applicazione più tollerante?

«Forse sono meno impauriti di noi. Oppure hanno maggiore capacità di imporre regole di altro tipo. In Italia probabilmente serve a selezionare chi accetta le regole e chi no. Le persone che non si vogliono vaccinare, e che per fortuna non sono la maggioranza, continueranno a non farlo. Una democrazia forte dovrebbe saper gestire anche le minoranze dissidenti. Al limite, imponendo l’obbligo vaccinale».

Che sarebbe incostituzionale.

«Certo, è un paradosso. Io le regole le rispetto, ma questo non m’impedisce di ragionare. Davvero c’è stata la corsa alle vaccinazioni a causa dell’obbligo del green pass? Il governo dia le sue indicazioni e si vada avanti, senza criminalizzare nessuno».

La situazione è così esasperata perché il virus è diventato terreno di scontro ideologico?

«È diventato solo questo. Mentre la verità si raggiunge attraverso il confronto».

Rischiamo di fare del vaccino una nuova religione?

«Lo è già. Lo dico mentre attendo la terza dose».

Però andando al cinema è più contento di avere vicino altri spettatori certificati?

«Relativamente. Un vaccinato può essere contagioso o no? Nessuno è immune nel senso che è totalmente intoccabile. Nelle sale la gente entra con le mascherine e non parla».

Ci stiamo riavvicinando alla normalità?

«Non so definire la normalità. Se si toglie la carne dell’informazione intorno al Covid non so bene cosa ci rimane. Trovo più terapeutico vedere un bel film, leggere un bel libro o ascoltare una bella musica piuttosto che assistere all’ennesimo talk show. Lo dico senza altezzosità. I talk show sono diventati dei casting: si chiama quella giornalista perché sappiamo che litigherà con l’altro ospite e via di questo passo».

Ci si allontana dai media perché sono in gran parte allineati al politicamente corretto?

«Il danno peggiore ci viene dalla cancel culture. Trovo nefasta l’idea di cancellare la storia e l’arte. Oggi Fellini sarebbe censurato a ogni inquadratura. Questo fanatismo ucciderà la creatività. Tutti dovranno allinearsi perché tutti hanno bisogno di denaro. E il denaro te lo dà l’algoritmo. Così lo scrittore non sarà più uno scrittore ma un trascrittore, un pennivendolo. I danni di tutto questo ancora non li immaginiamo».

Dipinge uno scenario cupo.

«Raccapricciante. Ho un figlio di 15 anni che è ancora sanamente eversivo in quello che dice e pensa. A 30 anni dovrà fare i conti con questa cultura. Per fortuna lo abbiamo educato alla libertà e a far girare le idee».

 

La Verità, 31 0tt0bre 2021

«Ho cambiato rivoluzione, cerco quella del cuore»

È stato il capo militare di Prima linea, l’organizzazione terroristica che dal 1974 al 1983 rivendicò 101 attentati e l’uccisione di 16 persone. In carcere si è convertito al cristianesimo. Ha avviato il processo di dissociazione dalla lotta armata che ha portato a ricostruire trame e responsabilità di quella delirante stagione. Maurice Bignami, figlio di Torquato, ex capo partigiano e storica figura del comunismo bolognese, nato nel 1951 a Neully-sur-Seine dove i suoi genitori ripararono, marito di Maria Teresa Conti, sposata nel carcere Le Vallette di Torino, è persona scomoda per l’intera galassia postsessantottina. Ha da poco pubblicato Addio rivoluzione. Requiem per gli anni Settanta (Rubbettino): autobiografia e bilancio documentatissimo nel quale spiega le ragioni della sua abiura, condensata nell’espressione «esuli dal terrore e dal comunismo».

Ci incontriamo in un bar vicino alla Stazione Termini di Roma. Il tono della voce testimonia pudore e ponderazione, la complessità del pensiero il rifiuto di adagiarsi su facili certezze.

Quali condanne ha subito e perché?

«In primo grado sono stato condannato a tre ergastoli e ad altre centinaia di anni di reclusione. In appello, quando la nostra dissociazione era già consolidata, gli ergastoli sono caduti con l’eccezione di uno, comminato per l’uccisione di due carabinieri durante una rapina a una banca di Viterbo. Sarebbe caduto anche quello se Il Manifesto non avesse scritto, anche a firma di Rossana Rossanda, che non bisognava fidarsi di me perché, in occasione di un convegno con alcuni dissidenti sovietici, avevo teorizzato la nobiltà dell’abiura. Ricordiamoci che nel 1987 c’era ancora l’Urss».

Alla fine quanti anni ha scontato?

«Venti, con la buona condotta. Senza quella campagna avrebbero potuto essere dieci. “Persino i suoi amici”, sottolineò, equivocando, il magistrato, “dicono che non ci si deve fidare di lei, quindi…”. Detto questo, forse con un filo di snobismo accetto il paradosso di esser stato il promotore del movimento di dissociazione nelle carceri e al contempo l’ultimo a uscirne, nonché l’unico a non riavere i diritti politici».

Vent’anni per quell’omicidio e per cos’altro?

«Ero uno dei dirigenti di Prima linea. C’erano il responsabile della parte logistica e quello della formazione, io ero il capo militare dell’organizzazione».

Che cosa significa che «si può essere ex terroristi, mai ex assassini» come ha scritto?

«Si può essere ex di qualsiasi opinione politica. Esiste una corrente di pensiero che considera la possibilità del ricorso alla violenza. Senza scomodare Niccolò Machiavelli, dal regicidio alle guerre di religione, dal marxismo al leninismo, le differenze riguardavano solo il quando e il come praticare l’omicidio politico».

Invece, ex assassini non si diventa?

«Se hai oltrepassato la soglia dell’assassinio non puoi cancellarlo».

Le opinioni riguardano le idee, l’omicidio la carne.

«Anche chi stava dall’altra parte della collina, un carabiniere, un rappresentante delle forze dell’ordine, se ha ucciso non lo può cancellare. Lui ha ragione, io torto, ma la ferita te la porti addosso a prescindere».

Questa consapevolezza è condivisa nella sinistra post-terroristica?

«Lo spero per tutti gli ex compagni, lo so per alcuni di loro, come gli ex brigatisti Alberto Franceschini e Franco Bonisoli. Chi è stato fortunato e ha fatto incontri significativi, ha trovato quell’angolo nascosto del cuore che ci ha permesso di rinascere come uomini nuovi, maturando una consapevolezza diversa della nostra storia».

La sua comincia con l’educazione paterna, «un’intossicazione del bene per eccesso di dosaggio» che, scrive, non si può non fare propria. Negli ultimi anni suo padre sosteneva che i principi erano giusti ma gli uomini sbagliati, lei il contrario.

«Questo è il nocciolo. Ed è ciò che non mi è stato perdonato: l’autocritica radicale. Chi ha scelto la dissociazione ha messo in crisi il dogma dei principi sacri e inviolabili, corrotti solo dalla loro realizzazione storica».

Un’abiura che non è stata tollerata?

«Lo scontro con la Rossanda fu emblematico perché lei stessa, protagonista della rottura con il Pci, si riteneva l’anima antistalinista: salvo poi comportarsi con noi come la peggiore stalinista».

Nel libro smonta l’immagine del Sessantotto allegro e spensierato. Scrive che comandavano i musi lunghi e che le comuni erano «i luoghi più tristi, noiosi e ideologici sulla faccia della terra».

«C’era una liberazione chimica: l’anticipazione di una libertà intesa come fare ciò che piace senza render conto a nessuno. La nostra è stata la prima generazione che ha rinunciato a trasmettere qualcosa alle successive. Abbiamo praticato una cesura, vibrato un colpo d’ascia, impedendo qualsiasi eredità morale. Che cosa ha prodotto il Sessantotto? Ci sono un libro, un film, un’opera d’arte memorabili? Niente».

La musica rock? La pop art?

«La pop art è nata prima. Per un breve periodo il movimento ha politicizzato il rock, che poi ha proseguito per tutt’altre strade. In Italia il Sessantotto è durato vent’anni, altrove pochi mesi».

Perché, considerato che è la sua terra d’origine, non è riparato in Francia come altri?

«Avevo la nazionalità francese, ma come persona mi ha salvato restare in Italia. Il cambiamento avvenuto in carcere mi ha impedito la via di fuga imboccata, per esempio da Cesare Battisti. Non mi è mai neanche passata per la testa. Pochi mesi prima avevano arrestato quella che sarebbe diventata mia moglie. Anche l’influenza della lettura dei classici è stata fondamentale».

In che senso?

«Non si può mentire a sé stessi. Avevo vissuto un’esperienza drammatica storicamente importante. Andare a Parigi a fare l’intellettuale perseguitato voleva dire chiuderla con una fuga meschina, una menzogna».

I classici?

«Dopo poche settimane in isolamento padre Ruggero, il cappellano che ci avrebbe sposato, mi portò I promessi sposi. Era una rilettura, ma quanto significativa, non solo nelle pagine dell’Innominato».

Perché scrive che un romanzo più che un saggio è lo strumento per parlare dei fatti di sangue di cui è responsabile?

«Perché solo romanzandolo si può raccontare l’orrore senza impattare i sentimenti di carnefici e vittime. Solo la finzione permette di essere realistici, di entrare nella crudezza di certi eventi e narrare la carne ferita».

Perché nel giugno dell’84 consegnaste le armi al cardinale di Milano Carlo Maria Martini?

«La Chiesa era il nostro unico interlocutore e ci considerava affidabili. In quei giorni 40 magistrati avevano firmato un documento che paventava un’imminente ripresa del terrorismo. Era una manovra per frenare la pacificazione alla quale stavamo lavorando. Noi e la Chiesa eravamo gli unici a volerla. Consegnando le armi riconoscevamo le nostre responsabilità e favorivamo le indagini».

Che cosa può dirci dei suoi incontri con i familiari delle vittime?

«Ne ho avuti alcuni… Le posso raccontare un fatto che spiega certe dinamiche. Con suor Teresina, un’amica di Oscar Luigi Scalfaro, si era instaurato un rapporto di complicità. Lei arrivava in carcere e diceva: “Mi serve un milione”. Non chiedevo per chi e per cosa e lei non diceva. Mi attivavo, quei soldi potevano servire a qualche famiglia che aveva perso a causa nostra chi portava a casa lo stipendio. Era un atto concreto e sconvolgente oltre le parole e le emozioni. Un gesto sconvolgente, più per chi lo accettava che per noi, che ci tirava fuori da quell’inferno privato».

Con questo libro dice addio alla rivoluzione della lotta armata perché ne è cominciata un’altra?

«Il contrario della rivoluzione non sono la reazione, l’immobilismo, la rassegnazione, ma la politica. Citando Joseph Ratzinger: “Essere sobri ed attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale… Non l’assenza di ogni compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica” (Liberare la libertà. Fede e politica nel Terzo millennio, Cantagalli, Siena, 2018 ndr)».

Tutto nasce dalla rivoluzione del cuore?

«Chiamiamola con il suo nome: conversione. Però, mantenendo sempre un pizzico d’ironia per evitare formule manichee come: “Sei più rivoluzionario adesso di allora”, oppure: “Sei più buono oggi di allora”. Non c’è nulla di acquisito una volta per tutte».

Come avvenne questo cambiamento?

«Il giorno del matrimonio ci condussero in una cella con un tavolo facente funzione di altare. Percorremmo corridoi tra le guardie che battevano il pavimento con il manganello e cantavano Faccetta nera. Padre Ruggero celebrava a occhi socchiusi, mentre io li tenevo ben aperti e, man mano che la funzione procedeva, vidi trasformarsi i volti dei presenti, quello di Teresa, dell’avvocato che ci faceva da testimone, anche delle guardie. Eravamo tutti colpiti e succubi di quella situazione. I musi si erano distesi e avevano acquisito un che di fanciullesco, un’espressione molto fuori posto. Fu il primo di altri fatti».

Che possibilità ha di riavere un ruolo pubblico chi si è macchiato di crimini così violenti?

«La più grande vittoria dello Stato sarebbe stata riportarci alla politica. Non necessariamente in ruoli istituzionali. Stavamo lavorando alla possibilità di un’amnistia dei reati associativi che avrebbe permesso il ritorno alla partecipazione democratica della generazione che aveva combattuto lo Stato con le armi. Sarebbe stata una vittoria delle istituzioni. L’avvento di Mani pulite distrusse i partiti nostri interlocutori, lasciando paradossalmente in vita solo gli eredi dei due totalitarismi: il Pci e l’Msi».

Oggi per voi lo spazio pubblico è impraticabile?

«Trovare le modalità è un fatto di opportunità e misura. Per questo ci dispiace tremendamente di aver fatto la lotta armata. Ma, se possibile, ci dispiace ancor di più non aver fatto fin da subito la democrazia».

 

La Verità, 11 luglio 2020

«La richiesta di sovranità è richiesta di democrazia»

Un uomo di sinistra che difende la sovranità. E, per di più, lo fa da studioso. Carlo Galli insegna Storia delle dottrine politiche all’università di Bologna. Nella precedente legislatura è stato deputato del Pd fino al 2015, prima di passare a Sinistra ecologia e libertà e di confluire in Articolo 1 – Movimento democratico e progressista. Nel 2018 non si è ricandidato ed è tornato a insegnare. Ha pubblicato saggi su Carl Schmitt e, di recente, uno intitolato Marx eretico. Ma l’ultimo suo libro per il Mulino, l’editrice con la quale collabora assiduamente, s’intitola Sovranità, ed è un saggio piuttosto denso.

Professore, perché oggi la sovranità è un concetto messo in discussione malgrado sia presente nell’articolo 1 della Costituzione?

«L’interpretazione prevalente della nostra Costituzione, a opera di studiosi di scuola kelseniana, ha fatto coincidere la sovranità con l’ordinamento giuridico del Paese. A questa avversione di tipo scientifico si aggiunge oggi il fatto che l’Italia, partecipando alla moneta unica europea, ha rinunciato alla sovranità monetaria. Così, in una sorta di riflesso condizionato, chi parla di sovranità subisce gli attacchi degli amici dell’Europa. In realtà, da una parte l’Europa funziona attraverso le sovranità degli Stati, e dall’altra le logiche dell’euro costringono a continui tagli dei bilanci statali a investimenti, sanità, scuola e università; con le conseguenze materiali e sociali che vediamo, non solo in Italia. La richiesta di sovranità è in realtà la richiesta di democrazia, che lo Stato si occupi della società».

L’Europa è pronta a limitare e chiedere, ma lenta a condividere, partecipare, aiutare?

«L’Europa di oggi è espressione prevalente della volontà della coppia franco-tedesca. L’Italia è come sempre un vaso di coccio tra vasi di ferro: un paese di serie A, ma a rischio retrocessione. Si tratta ora di vedere se e come possiamo servirci anche noi della nostra sovranità».

Da qui l’accusa di sovranismo e nazionalismo: quando la difesa della sovranità sconfina nel nazionalismo?

«La sovranità consiste nell’affermazione dell’esistenza, su un territorio, di un gruppo umano che vuole essere “politico”. La sovranità è un concetto esistenziale. I suoi comportamenti concreti – pacifici o aggressivi – dipendono dalle circostanze».

Ci sono pericoli di nazionalismo oggi in Italia?

«Non credo. Di fronte al fatto che i principali Stati europei fanno larghissimo uso della propria sovranità, e che le banche di qualche Paese vengono salvate, quelle di qualche altro Paese vengono lasciate fallire, c’è chi insiste sulla necessità di garantire meglio i nostri interessi. Le mosse identitarie sono propaganda».

Il Meccanismo europeo di stabilità serve a questo?

«Il Mes esiste perché la Bce non è una vera banca centrale, prestatrice di ultima istanza; e ciò accade perché l’Europa non è un soggetto politico unitario. Il Mes serve ad aiutare le banche in difficoltà di Stati che non sono in difficoltà, come la Germania. Se l’impianto istituzionale della Ue è sconclusionato, per chiudere le falle si usano delle toppe. Il Mes è una di queste».

Altro pericolo: stabilendo la distinzione tra chi è interno e chi è esterno la sovranità pone le premesse della xenofobia?

«Il nesso interno/esterno è l’essenza della politica: le dà concretezza. L’esistenza politica è situata storicamente e geograficamente; i confini possono essere gestiti in modo crudele o civile, ma non possono non esistere. Quanto alle migrazioni, nel loro tratto finale sono coinvolti interessi criminali, mentre nel tratto iniziale c’è una struttura d’ingiustizia talmente colossale che non può essere risolta semplicemente allargando le maglie dell’accoglienza».

Perché il contrasto tra i sentimenti di compassione e solidarietà da una parte e le sovranità degli Stati dall’altra si risolve a vantaggio dei primi?

«La politica non si fa con la compassione, ma con la prudenza e la giustizia. Le società pronte a commuoversi per i migranti sono le prime a respingerli, quando diventano troppi. E, soprattutto, le persone hanno diritto di non migrare oppure devono rassegnarsi al destino di abitare in una terra invivibile e quindi a dover venire in Europa? Tranne la minoranza di profughi che fugge da persecuzioni e guerre, la maggioranza dei migranti fugge da un’ingiustizia strutturale, che non può essere sanata da improbabili gesti di misericordia degli Stati».

Perché i sentimenti di compassione e solidarietà sembrano vincere sulle ragioni della politica?

«Dipende dalla “narrazione”. L’attuale governo si sta comportando più o meno come quello precedente, pur con qualche concessione in più. Matteo Salvini imprimeva maggiore enfasi nel fermare gli sbarchi, offrendo il fianco ai suoi avversari interni ed europei, ma i patti con le milizie libiche li ha fatti dapprima Marco Minniti. Il trattato di Dublino continua a imporci di tenerci i migranti, e nessuna promessa di redistribuzione è stata mantenuta, nonostante il recente, sbandierato, patto di Malta».

La sovranità degenera in sovranismo e il popolo si abbandona al populismo: le preoccupazioni sono giustificate?

«Oggi una fetta rilevante di popolo italiano chiede che lo Stato si serva della propria sovranità per avere soluzioni a situazioni di disagio sociale ed economico. Questo non è sovranismo, ma richiesta di democrazia reale. Ed è chiaro che il popolo è populista, che cosa dovrebbe essere? Tanto più in assenza di partiti credibili, in grado di tradurre in azione politica i problemi della società».

Che ruolo ha l’improvviso esplodere del dibattito sull’emergenza climatica?

«Gravi problemi di inquinamento sono senza dubbio presenti, ed è interesse di tutti dare a essi una soluzione. Una parte del capitalismo mondiale pone molta enfasi su questa necessità, vedendo nell’economia verde un’occasione di ulteriore sviluppo».

E che ruolo ha, invece, la predicazione di papa Francesco che, necessariamente, ha una prospettiva mondiale?

«Chi ha scritto la Laudato si’ non può non essere sensibile al saccheggio del mondo. Il Papa manda moniti non solo ambientalisti, ma anche etici: non tratta solo di accoglienza, ma di un’ingiustizia strutturale che domina il mondo. Quanto la sua posizione, molto radicale, sia condivisa, resta da vedere».

La critica della sovranità muove da motivazioni morali ed economiche. All’incrocio tra questi due poteri si pone la sinistra moderna da Tony Blair in poi: con quale risultato?

«Che la sinistra è diventata il pilastro del sistema di governo; che ha accettato l’ineluttabilità del neoliberismo, sperando di addomesticarlo un po’. Ma se c’è da scegliere tra le ragioni del lavoratore e quelle dell’imprenditore quasi sempre le sinistre scelgono quelle dell’imprenditore. Il jobs act ne è un esempio. Le compatibilità del capitalismo pesano più dei diritti dei lavoratori: questo è una posizione di destra che viene fatta propria dalla sinistra».

Quindi la sinistra ha molte responsabilità della crescita dei movimenti populisti e dei loro consensi presso i ceti meno agiati?

«In una parola, la sinistra è diventata liberal. Ora, ai cittadini l’estensione dei diritti civili può interessare, ma interessa di più che scuola e sanità funzionino, che i loro figli trovino lavoro, che i diritti sul lavoro e pensionistici siano rispettati. Ma la sinistra, benché a parole mostri interesse per questi temi, è convinta che il paradigma economico vigente non può essere modificato. Questo paradigma è l’ordoliberalismo tedesco (sistema liberista mediato dalle regole dello Stato ndr) esteso a tutta l’eurozona: l’euro è il marco che ha cambiato nome, e che è stato un po’ indebolito per aiutare le esportazioni tedesche. Ed è un paradigma molto esigente, che richiede sacrifici sociali: i suoi obiettivi primari sono la stabilità e l’esportazione; l’economia non può essere trainata dalla domanda interna».

Come siamo finiti in questa situazione?

«Dopo che gli Stati Uniti sono usciti dalla parità aurea nel 1971 il modello keynesiano vigente, che si basava sulla domanda interna e aveva come nemico la disoccupazione, è andato in crisi in pochi anni, ed è stato sostituito dal modello neoliberista e ordoliberista che ha come nemico l’inflazione. Da qui la perenne austerità, la riduzione della circolazione del denaro e i tagli che gli Stati ogni anno devono operare nella legge di bilancio».

Che cosa rappresenta il movimento delle sardine nato nella Bologna dove lei insegna?

«Sono l’ultima speranza che la sinistra ha di non perdere le elezioni in Emilia Romagna».

Dove hanno ribaltato l’inerzia del match, come si dice con linguaggio sportivo.

«L’Emilia è contendibile, ma non a causa delle sardine, quanto piuttosto perché il modello emiliano, storicamente valido, a molti pare oggi consunto».

Questo movimento, che fa dell’antisalvinismo la propria bandiera, rappresenta l’establishment?

«Hanno dalla loro la stampa, i media, la maggioranza parlamentare, la Chiesa ufficiale e illustri personalità li supportano in chiave elettorale. Ma le sardine appartengono all’ambito della politica spettacolo, anche se pensano di esserne il contrario. Che cosa sanno dire dell’euro, di Taranto, della Libia, dei migranti?».

Come spiega che il M5s nato come partito anticasta si sia alleato al Pd e ora il suo fondatore dica che le sardine sono un movimento igienico sanitario?

«La politica italiana non consiste nelle parole di Beppe Grillo, ma in quello che sappiamo fare per reagire al declino in cui ci troviamo. Un gesto di sanità politica sarebbe non interessarsi a ciò che non è essenziale. La politica è una cosa seria, e non sta né nelle sardine né nei talk show. Il M5s è passato dal 34% al 17% perché con la sua incompetenza e inconsistenza ha deluso l’elettorato. E si è alleato col Pd per non scomparire alle prossime elezioni. Ecco perché i suoi esponenti sono così abbarbicati alle poltrone».

 

La Verità, 29 dicembre 2019

 

«Vi racconto la vera storia della crisi di mezza estate»

Ladri di democrazia. S’intitola così, senza tanti giri di parole, il pamphlet nel quale Paolo Becchi, con Giuseppe Palma, racconta la vera storia della «crisi di governo più pazza del mondo» (Historica editore). Il professore di filosofia del diritto, già considerato l’ideologo del M5s per la vicinanza a Gianroberto Casaleggio, segue dalla sua casa di Genova i mutamenti della politica e l’evoluzione dei pentastellati, destinati, a suo avviso, a diventare «una piccola formazione di sinistra ecologista». Tutt’altro che periferico, Becchi è stato protagonista del disperato tentativo di mediazione agostano tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio che, per un attimo, aveva riaperto lo spiraglio per una riedizione del governo gialloblù con il capo grillino premier. «Doveva andare così, invece ora penso che il presidente Mattarella sarà pentito delle scelte che ha fatto quest’estate». Insomma, il professore la sa lunga e perciò conviene andare con ordine.

Cominciamo dalla fine, quella dei 5 stelle: davvero Grillo scioglierà il movimento come si sussurra?

«Mmmh… non credo. Secondo me lo lascerà così. Nemmeno lui ha la forza di scioglierlo. Lo renderà biodegradabile… O biodegradato».

In che senso?

«Diventerà una formazione marginale, un partitino di ecologisti di sinistra».

Il giocattolo è rotto e non si può aggiustare?

«Non vedo nessuno in grado di farlo. Il movimento aveva il suo Garibaldi, Grillo, che guidava le cariche, e il suo Giuseppe Mazzini, Casaleggio, il visionario che ci metteva il pensiero. Serviva un Cavour, ma non l’hanno mai avuto. Nel frattempo è morto proprio Mazzini».

Di Maio doveva essere il Cavour del M5s?

«Forse, ma ci voleva tempo per farne un grande pragmatico capace di gestire il potere».

La crisi attuale dipende dal personale politico, dai rapporti con la Casaleggio associati o da alleanze sbagliate?

«È venuto meno il principio unitario che teneva insieme l’organismo. L’originalità del movimento derivava dalla visione di Casaleggio che immaginava una società senza partiti, nella quale il cittadino avrebbe fatto politica senza intermediazioni, attraverso la Rete».

Utopia, sogno

«Non bisognava abbandonarlo, bensì integrarlo nella democrazia rappresentativa. Ora che si è perso l’elemento identitario qualificante è difficile trovarne un altro. La Lega nord si è trasformata in partito nazionale, ma l’idea autonomista è rimasta come elemento di fondo. Il M5s voleva abolire le poltrone e ora, per non sparire, i suoi uomini si attaccano proprio alle poltrone. Sono diventati il tonno dentro la scatoletta. Tra il 2013 e il 2018 hanno perso un’occasione storica. Dovevano cambiare la politica invece sono diventati un asse della partitocrazia. E poi c’è un altro fatto…».

Dica.

«I grillini rivendicano di aver riportato i cittadini alla politica. In realtà, se si guardano i numeri, nel lungo periodo l’astensionismo è aumentato».

Brusco risveglio in Umbria?

«Quando un partito ottiene un buon risultato alle politiche, poi lo dimezza alle europee e lo dimezza ancora alle regionali prendendo meno voti di Fratelli d’Italia, come si fa a non trarre le conseguenze. Quelle dell’Umbria sono state le prime elezioni dopo la nuova alleanza voluta da Grillo. Se si fosse andati a votare prima dell’accordo col Pd, il M5s poteva presentarsi ancora come forza antisistema. Ora ne è pienamente parte e la corrente di protesta si è spostata tutta sulla Lega. La verità è che la crisi di agosto non doveva finire così».

E come?

«Di Maio non voleva la rottura. E Salvini, quando ha visto l’uscita di Matteo Renzi, ha tentato in tutti i modi di fermare l’alleanza tra Pd e 5 stelle. Fino a telefonare al presidente Mattarella, proponendo Di Maio premier con un programma più articolato e una compagine diversa».

Tipo?

«Senza Danilo Toninelli e Giovanni Tria e con Conte commissario a Bruxelles. Glielo dico perché la mediazione l’ho fatta io, giorno per giorno».

Qualcosa ho letto in Ladri di democrazia

«Non ho potuto scrivere tutto… Quando ho capito che la faccenda si metteva male li ho chiamati. Io ero un sostenitore del governo gialloblù… Certo, mancava la sintesi, i leghisti ottenevano un risultato e i grillini un altro. Poi è cresciuto il ruolo di Giuseppe Conte».

Torniamo ad agosto.

«Dopo l’intervista di Renzi che seguiva le dichiarazioni di Grillo era chiaro che si sarebbe andati all’accordo col Pd. Di Maio non ne era per niente convinto, ma per fermare il treno ha posto come condizione di fare il premier».

Quindi non è stata un’idea solo di Salvini?

«Per garantirsi, Di Maio ha chiesto che fosse Salvini a parlarne a Mattarella. Domenica 25 agosto Salvini chiama il Quirinale, ma il presidente è fuori per impegni istituzionali. Quando nel pomeriggio Mattarella richiama e Salvini gli prospetta il governo con Di Maio premier, il presidente non si sbilancia. Non so se informi Di Maio o se avverta Zingaretti, fatto sta che il giorno dopo Zingaretti, fino a quel momento fermo sulla discontinuità, accetta Conte premier. Questa è la pura cronaca. Ora penso che Mattarella cominci a pentirsi delle scelte che ha fatto».

Prima c’era stata la conversione di Grillo che aveva deciso che il Pd non era più il nemico numero uno. Che cosa gli aveva fatto cambiare idea?

«Non so. So solo che in quei giorni viene informato del fatto che suo figlio è indagato per stupro».

Che cosa c’entra con il ribaltone sul Pd?

«Magari nulla, non so cosa sia avvenuto nella sua testa. Però c’è la contemporaneità, il giro sulla moto d’acqua del figlio di Salvini ha occupato le prime pagine per settimane, dell’accusa di stupro a suo figlio si è parlato mezza giornata. Fino a quel momento il Pd era il partito di Bibbiano. Poi, improvvisamente, Grillo dice che bisogna finirla con i barbari e allearsi con il Pd».

Tutto si è messo in moto da lì.

«Grillo ha sempre disprezzato Salvini, mentre considera Conte un elevato, lo ha anche scritto. Forse pensa che a lungo andare potrà sostituire Di Maio. Ma quel cambio di rotta è inspiegabile, anche perché c’era un accordo…».

Cioè?

«Una spartizione di ruoli: l’associazione Rousseau paga tutti i processi di quelli cacciati dal movimento e Grillo si ritira nel ruolo di padre nobile. Non a caso crea il suo blog mentre Di Maio, appoggiato da Davide Casaleggio, diventa il capo politico. Fino ad agosto, quando cambia tutto».

Il ritiro di Grillo non era causato dalla stanchezza…

«C’era un accordo, ricordiamoci sempre che è genovese… Di Maio è rimasto spiazzato perché non si aspettava che intervenisse in prima persona. Per far passare l’accordo, Grillo non voleva specificare il nome del Pd nel quesito sulla piattaforma. Adesso aspettiamo di vedere che cosa dirà sulle regionali in Emilia Romagna. Sappiamo solo che è contrario alla posizione di Di Maio».

Tornando a oggi, come hanno fatto a non prevedere il disorientamento degli elettori dopo un cambiamento così radicale?

«Non hanno più il contatto con la popolazione, vivono nel palazzo. Pensi alla trasformazione di una come Paola Taverna che non dava neanche la mano e adesso cerca benevolenza… Non spariranno del tutto, resteranno un partitino votato dagli elettori del Sud che hanno avuto il reddito di cittadinanza».

Previsione troppo nera?

«Non credo. Con Gianroberto Casaleggio c’era un’idea di futuro, c’erano i meet up e gli streaming. Casaleggio aveva detto che se ci si fosse alleati con il Pd sarebbe uscito dal movimento e invece sono gli italiani che hanno lasciato il M5s. Sono divisi su tutto, non riescono nemmeno a nominare i capi dei gruppi parlamentari».

Perché ha lasciato il movimento?

«Per dissensi sulla linea. Mi chiesero di scrivere un atto di accusa di Napolitano, ma poi cambiarono idea e il mio documento finì nel cassetto. Per le europee del 2014 avevo proposto di fare la campagna contro l’euro, allora non era come adesso. Dissi a Casaleggio che stava sbagliando e che Renzi avrebbe stravinto, sappiamo tutti come andò».

Una volta arrivati al governo era troppo difficile gestire l’ideologia della decrescita?

«Il governo gialloblù non ha saputo fare la sintesi tra sovranismo identitario leghista e sovranismo sociale dei 5 stelle. Ma l’Italia ha bisogno di questa sintesi».

C’erano i no alla Tav, all’Ilva, alla Gronda…

«È il motivo per cui Salvini ha staccato la spina. I poteri forti non aspettavano altro e appena si è aperto lo spiraglio si sono infilati per riprendersi tutto. Il M5s non ha saputo mantenere la carica ecologista adattando il messaggio a una strategia di sviluppo sostenibile».

Il futuro del M5s è quello di un partito verde e digitale su modello nordeuropeo?

«Trascuriamo gli eccessi alla Greta Thunberg, ma l’emergenza ecologica è reale. Non vedo altri approdi che quello di una sinistra ecologista, tipo i Grunen tedeschi. Ma in Italia non hanno mai attecchito, è un destino di marginalità».

Destino irreversibile? E Di Maio?

«Destino molto probabile. Di Maio non ha il carisma di Salvini o dello stesso Grillo che entusiasmano le folle. E prima o poi si andrà a votare».

Tra un paio d’anni?

«Non credo, si voterà già nel 2020. Alla fine capiranno che è meglio una morte rapida e dolce rispetto a un’agonia prolungata. Dopo l’Umbria ci saranno l’Emilia Romagna, la Calabria, la Puglia, il Veneto… Se Zingaretti avesse intelligenza politica sarebbe lui a voler votare. Certo, vincerebbe Salvini, ma si libererebbe di Renzi, metterebbe in Parlamento i suoi uomini e potrebbe dar vita a un’opposizione credibile».

Adesso però è al governo.

«In un governo che sta mettendo le tasse sulle cartine per le sigarette. Ma è una gag di Maurizio Crozza o una cosa vera? Un Paese come l’Italia, già settima potenza mondiale, sta decidendo di tassare le cartine per le sigarette: non ci si crede. Una manovra così dà ancora più potere a Salvini. Di Maio l’ha capito, Zingaretti ancora no».

Ha visto Di Maio cantare Pino Daniele al Costanzo show?

«No, come già Gianroberto Casaleggio, non guardo la televisione».

 

La Verità, 3 novembre 2019