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Ecco il sequel, che non si farà, di C’è ancora domani

Il cinema italiano non ha attributi, manca di coraggio, originalità, gusto dello sberleffo. Al contrario, è conformista, prevedibile e chiuso in consorterie. Mi spiace dissentire da Claudio Siniscalchi e Gian Piero Brunetta, accademici e autorità assolute in materia, che pochi giorni fa hanno previsto un radioso futuro per la settima arte in auge nella nostra Italietta: «Per il cinema italiano c’è ancora (molto) domani», hanno scritto sul Giornale, e si noti l’ottimistica parentesi. Siniscalchi e Brunetta sono partiti da una vecchia intervista di Giovanni Grazzini a Federico Fellini nella quale il maestro di 8 e ½ smontava con il suo stile tra lo snob e il pop l’abitudine a lamentarsi prevedendo la rapida morte del cinema, in realtà, sempre pronto a rinascere dalle sue ceneri. Anche in questi mesi è successo dopo che, a causa della pandemia, si erano registrate la chiusura di molte sale e il radicarsi dell’abitudine alla visione domestica sulle piattaforme. Invece no. Barbie e Oppenheimer a parte, è arrivato C’è ancora domani di Paola Cortellesi che ha trascinato la rinascita e una nouvelle vague italiana, con Io capitano in corsa per l’Oscar. Matteo Garrone compone con Paolo Sorrentino e Roberto Andò il trio delle meraviglie del futuro radioso. E va bene, chi si accontenta gode.

Personalmente vado in direzione ostinata e contraria alla rosea previsione. Non solo perché, come già osservato, salvo rare eccezioni il cinema italiano è appannaggio di dieci registi e dieci registe, dieci attori e dieci attrici, sempre gli stessi e le stesse. E oltre il quale, la stragrande produzione di film e filmetti d’autore, pur confortata dai fondi pubblici, viene proiettata in sale semideserte. No, non è per questo che sostengo che il nostro cinema è tendenzialmente conformista. Lo dico in riferimento alle storie, ai contenuti, all’angolazione delle trame. E perdonerete la lunga premessa, ma serve a spiegare il punto di vista dal quale avanzo la critica.

Vengo al dunque. C’è un romanzo che narra la storia vera, drammatica e particolare di un’importante famiglia della politica, raccontata con la voce di una bambina, poi adolescente, ragazza e donna matura, che attraversa cinquant’anni d’Italia. Questa storia è il sequel reale e non di fantasia di C’è ancora domani. Perché, mentre il film di Cortellesi è ispirato ai «racconti delle nonne», il libro di cui parlo ha al centro la vita vissuta delle mamme. Tuttavia, nessuno ne farà la trasposizione cinematografica perché è una storia non allineata, non ortodossa.

La vicenda muove nei primi anni Cinquanta da Riesi, un paesino della Sicilia profonda dove una bambina viene lasciata dai genitori alla zia, sorella del padre, che la cresce amorevolmente nell’educazione cristiana. L’abbandono è ovviamente traumatico e causa di disturbi dell’alimentazione – lo sarà ancor di più per la sorellina più piccola che morirà desolatamente sola, in ospedale. Quando per la bimba arriva l’età scolare, i genitori, atei convinti che vivono tra Bologna e Roma per dedicarsi alla politica e all’arte, allo scopo di preservarla dai bigottismi della scuola statale decidono di iscriverla a un istituto inglese della capitale. Per lasciarla andare, però, la zia pretende che venga battezzata perché, pensa, il battesimo è un sigillo perenne, antidoto contro il male. Il padre acconsente, ma a sua volta decide che il padrino sarà un suo amico, inveterato anticlericale, militante del Partito radicale di cui il papà è storico fondatore. La faccenda si ripete al momento della cresima cui, dopo la frequentazione della scuola laica ma con insegnamento della religione, la bambina chiede paradossalmente di accedere. La madre dà il consenso e la invita a scegliere una donna con la quale abbia un rapporto di confidenza. In mancanza di alternative, la ragazzina sceglie Liliana Pannella, sorella di Marco. Il quale è, a sua volta, amico del padre e frequenta assiduamente la casa di famiglia. Dove le serate si animano di discussioni fra politici e intellettuali, di utopie, strategie, rivoluzioni dei costumi. Albeggiano i Settanta, la bambina, ora adolescente, si abbevera al carisma degli adulti e partecipa con la madre alle battaglie del Movimento per la liberazione della donna. È una stagione entusiasmante e coinvolgente. I diritti civili, dal referendum sul divorzio alla legalizzazione dell’aborto, sono conquiste faticose, dirompenti e ancora sanamente prive della mielosa patina woke di oggi. La soffitta di Marco Pannella in via della Panetteria, dietro Fontana di Trevi (venduta pochi giorni fa), è meta di politici, poeti, artisti, semplici militanti. Un laboratorio di idee e vite irregolari. Non tutto fila liscio come l’olio, però. Affiorano i primi dissidi perché l’influente padre della ragazza vorrebbe trasformare i radicali in un partito che possa governare, mentre Pannella lo vuol mantenere corsaro e antipotere. Il leader si trasferisce a Parigi, manda lunghe lettere, tenta il suicidio…

Tutto è raccontato nel libro-sceneggiatura di cui sopra. Ci sono i primi segnali di crisi. C’è il congresso del 1975, l’intervento di Pier Paolo Pasolini (letto da Vincenzo Cerami perché PPP è stato ucciso due giorni prima) che mette in guardia dal pericolo di imborghesimento e dal tradimento degli intellettuali. La ragazza ha ora 22 anni e inizia a prendere le distanze dagli eccessi dell’«ideologia edonistica» e dalla «falsa tolleranza». Quando la madre, attrice, pittrice e femminista, si ammala gravemente, l’allontanamento diventa definitivo. Anche perché, assistendola, la figlia si ritrova segretamente a pregare e, lentamente, riaffiora in lei quella fede che da bambina aveva coltivato di nascosto, trasgredendo il regime antireligioso dei genitori.

Questa storia vera, questa sceneggiatura che ha la grazia della letteratura, è un viaggio dai Cinquanta al Terzo millennio che illumina la stagione della militanza radicale, del primo femminismo e racconta un’insolita conversione religiosa. Insomma, è un faro sull’altra gioventù. Purtroppo, nessuno la porterà al cinema. Perché il cinema stesso è figlio del pregiudizio ideologico che tuttora soffoca le casematte della nostra cultura. Lo abbiamo visto nell’accoglienza che (non) ha avuto questo romanzo – scritto durante il lockdown, poco letto e non recensito – quando ne è stata impedita la presentazione nel luogo canonico delle presentazioni, ovvero il Salone del libro di Torino, proprio da un gruppo di neofemministe che, invece, avrebbero avuto molto da imparare se si fossero disposte ad ascoltare. Tutto ciò perché il romanzo è Una famiglia radicale (Rubbettino editore) e l’autrice è Eugenia Roccella, oggi ministro per la Famiglia del governo Meloni.

Il cinema italiano manca di coraggio perché questa storia, che anche la sua protagonista oggi ha rinunciato a proporre, resterà chiusa in un cassetto. Lo dico a ragion veduta, avendo provato a contattare qualche grande produttore e qualche importante regista, ricavandone cortesi e, in qualche caso, motivati rifiuti. Quelli di destra, schematizzo per capirci, non lo possono fare per non esporsi all’accusa di fare propaganda, realizzando una pur grande opera dal libro di un ministro. Quelli di sinistra non lo riescono a fare perché troppo scomodo e poco gestibile con i loro abituali attrezzi del mestiere. Insomma, servirebbe troppo di tante cose per sbloccare la paralisi. Troppo coraggio, troppo idealismo, troppa onestà intellettuale. Tutto ciò che manca al nostro cinema. Per il quale il domani non è così radioso.

 

La Verità, 29 febbraio 2024

«Famiglia naturale? Bella come una tribù che balla»

Tra virgolette. Lo ripete spesso, Antonella Elia, e vuol dire: le cose sono così, quasi. È innamoratissima di Pietro Delle Piane, ma per sposarsi è presto. Il rapporto con Mike Bongiorno era alla pari, più o meno. Le piacerebbe condurre un programma, ma dovrebbe essere speciale. Solo quando parla di sé e delle sue sofferenze, non poche, le virgolette spariscono. Sarebbe sbagliato vederla come una donna di contorno, una presenza decorativa. Trasmette fragilità, ma non le manca lo spirito della lotta. A BellaMa’ di Pierluigi Diaco ha fatto l’opinionista. A Citofonare Rai 2, condotto da Simona Ventura e Paola Perego, è inviata sul fronte dell’amore. Di recente, ospite di Oggi è un altro giorno su Rai 1, ha detto che «la famiglia tradizionale è bellissima».

È vero che quest’anno si sposa?

«Ehm… non credo, perché purtroppo ho paura. Per me il matrimonio è un vincolo sacro. Lo so che va di moda che se non funziona si divorzia. Ma, onestamente, io mi sposerei in chiesa e non posso considerare questa ipotesi. Se lo faccio dev’essere per tutta la vita».

Non è una bella prospettiva?

«Bellissima. Ma se considera la mia età e il fatto che ho vissuto tanto da sola nella savana…».

Bella metafora.

«Pietro potrebbe essere il compagno della vita, ma dovrei esserne certa. Quattro anni di fidanzamento forse non sono sufficienti per fare una scelta definitiva come il matrimonio».

I rodaggi lunghi servono ai ragazzi, quattro anni non bastano?

«Le statistiche dicono che più si diventa grandi più è difficile far durare le relazioni perché si è legati alle proprie abitudini. La convivenza è una scappatoia, consente una via d’uscita se qualcosa non funziona».

Scelta di comodo?

«Ha ragione, sono egoista e cagasotto».

E quindi niente vestito da sposa e confetti?

(Pausa) «È nell’aria, ma entro il 2023 rispondo maybe. Diciamo che non ho ancora organizzato nulla».

Non se la sente di rischiare?

«I rischi affettivi non mi sono congeniali, avendo avuto una serie di vicende… Però questo legame così saldo me lo tengo stretto. Anche mio papà e mia mamma ci hanno messo otto anni prima di sposarsi. Pensi il caso: si sposano, nasco io e dopo un anno e mezzo lei muore».

Poi è rimasta senza papà a 15 anni.

«Morì in un incidente stradale. L’idea di famiglia è sempre stata qualcosa di precario per me. Mio padre si è risposato con Paola quando avevo 9 anni. E poi anche la loro relazione è finita tragicamente».

Chi si è preso cura di lei?

«Paola, fino a quando ho avuto 18 anni e sono andata a vivere con un ragazzo».

Precoce.

«Dopo tre anni ho lasciato anche lui».

Com’è arrivata in televisione?

«Dopo aver studiato recitazione tre anni in una scuola privata di Torino, sono entrata al Teatro della Tosse di Genova. Ho fatto le prime tournée con Aldo Trionfo, recitando in Peccato che sia una sgualdrina di John Ford, e Tonino Conte. Poi ho partecipato ai provini della Corrida di Corrado».

E lui la chiamò.

«Lo facevo ridere perché ero goffa, mentre le altre erano belle e perfette».

La scelse perché con lei poteva giocare?

«Pensi che ero seduta a fianco di Michela Rocco di Torrepadula. Me ne stavo lì, ingobbita, perché mi sentivo fuori posto, come sempre del resto. E Corrado mi chiese proprio perché me ne stavo incurvata. “Perché mi vergogno”, dissi. Si mise a ridere e mi prese».

Qual era il suo tratto distintivo?

«La straordinaria umanità e la tenerezza verso le persone che lo circondavano, a partire da me fino all’ultimo tecnico dello studio».

Poi arrivò Raimondo Vianello.

«Mi aveva visto con Corrado e mi portò a Pressing».

Duetti favolosi.

«Sfruttava la mia goffaggine e la mia comicità involontaria».

Un flash su Raimondo?

«Era il re dell’autoironia. Trasformava ogni situazione in una presa in giro. Quando, la domenica, ci si trovava a vedere le partite e io mi annoiavo a morte, mi diceva: “Si faccia le unghie, Antonella”. Poi in trasmissione si appoggiava sulla mia ignoranza per inventare le gag».

Mike Bongiorno?

«Dopo 3 anni di Pressing, feci La ruota della fortuna, poi Viva Mozart… Fu il mio ultimo anno di tv prima di tornare a teatro, altro errore…».

Ne aveva soggezione?

«Mica tanto. Era un rapporto più alla pari, tra virgolette. A Corrado e Raimondo davo del lei. Mike era affettuoso, protettivo e accudente. Anche se a volte s’incavolava, ma questo è risaputo».

Quasi amici?

«Sì, anche amici. Quando andammo a Vienna per Viva Mozart, mi portò a visitare i mercatini, ad assaggiare la Sacher torte in una pasticceria bellissima…».

Si trovava bene vicino a figure autorevoli perché cercava il padre perso presto?

«Mi era di conforto che mi mostrassero affetto e apprezzamento. Non ho abbastanza autostima, da sola non mi sento mai ok».

Quando ha partecipato all’Isola dei famosi è parsa tutt’altro che insicura.

«Perché ho un caratterino mica da ridere. Quando combatto, combatto all’estremo. E i reality sono terreno di combattimento».

Letteralmente, cone nella rissa nel fango con Aida Yespica rimasta nella storia della tv.

«Era nella sabbia, altrimenti sarebbe stato wrestling. Ho carattere e volontà, sennò mica sarei arrivata dove sono. L’Isola è come la vita di strada, tutti contro tutti. Sono stata abituata a lottare fin da piccola per le perdite e gli abbandoni… Quindi, tra virgolette, vengo dalla strada, l’ho vista subito brutta. Il reality è vita non arte, non c’entra il talento, non ci sono copioni, porti te stessa con le tue bassezze e grandezze. Oddio, grandezze se ne vedono poche».

Parlando di strada, cosa pensa degli studenti che protestano in tenda contro il caro affitti?

«Che da Seregno a Milano si può ben fare la pendolare. E che la realizzazione di sé stessi non è un fatto di privilegi, ma di fatica, sudore e sacrificio. Poi, riguardo al caro affitti, per carità, è giusto intervenire, non si può pesare solo sui genitori, non si può sfruttare così la gente. Ma prendere il treno non è la fine del mondo».

Lei ne ha presi molti?

«Quando ero modella facevo la spola Torino Milano. A 24 o 25 anni, quando speravo di diventare attrice, prendevo la cuccetta da Torino a Roma. Viaggiavo tutta la notte, mi truccavo nel bagno del treno, scendevo a Termini e pigliavo i mezzi per andare al provino davanti a registi importanti. Finito, me ne tornavo a Torino. Durante le prime tournée ho dormito su brandine sfondate. Il treno e la vita da pendolare è una materia su cui sono preparata».

I provini come andavano?

(Sospiro) «Insomma… Mario Monicelli mi fece andare quattro volte per la parte di Il male oscuro, una produzione italo francese, che poi andò a Emmanuel Seigner, moglie di Roman Polanski. Feci un provino anche per Massimo Troisi, ma non mi scelse. Invece, Salvatore Nocita mi prese per I promessi sposi della Rai».

Quest’anno ha fatto l’inviata per Simona Ventura e Paola Perego e l’opinionista di BellaMa’. È soddisfatta o vorrebbe un programma suo?

«Mi diverto sia come inviata che racconta storie d’amore sia con Diaco con il quale c’è empatia… Forse sarebbe il momento di una conduzione, ma dovrebbe trattarsi di un programma un po’ fuori dai canoni. Io funziono di più in coppia, da sola probabilmente non mi divertirei».

Parteciperebbe ancora a qualche reality, magari meno estremo dell’Isola?

«No no, a me piace L’Isola perché è proprio l’avventura. Una tentazione irresistibile».

Qualcosa che invece non rifarebbe?

«Il Grande Fratello. Troppo claustrofobico, la convivenza forzata con altri non fa per me. All’Isola vai a nuotare o a camminare e torni dopo due ore. Lì mi chiudevo nella sauna e sudavo sette camicie».

Amici e amiche nel mondo dello spettacolo?

«Non ho molte frequentazioni… Sento spesso Adriana Volpe e Laura Freddi, ma non ci vediamo molto per i troppi impegni. Diaco lo considero un amico. Simona e Paola cercano di aumentare la mia autostima. Per le prime 15 puntate di Citofonare Rai 2, Paola mi mandava dei vocali d’incoraggiamento. Anche Simona è molto affettuosa».

Qual è la dote che apprezza di più nel suo compagno?

«L’energia. E poi è profondamente buono, innocente. Pietro è innocente».

Qualche giorno fa Laura Chiatti è stata sommersa di critiche perché ha detto che l’uomo che lava i piatti le fa calare la libido. Capita anche a lei?

(Ride) «Pietro lo trovo sexy quando carica la lavastoviglie. Quando cucina per me è come se distribuisse amore. Lo fa perché non vuole che lo faccia io e questo è bellissimo».

Le ho sentito dire che «la famiglia tradizionale è bellissima»: che cosa le piace?

«Mi piace il nucleo. È come una tribù che balla. La famiglia di Pietro è enorme, fatta di legami profondi di amore tra fratelli, zii, cugini. Le mie zie, quando è morto mio padre, sono sparite nel nulla, non mi hanno più filato. Non ho mai veramente vissuto in una famiglia. Sono rimasta sola come un cane randagio, perché nessuno dei parenti, che sicuramente ho, mi ha più cercato».

C’è qualcosa nella vita che non rifarebbe?

«L’ho detto anche da Serena Bortone: mi sono pentita di aver abortito».

Perché?

«Avevo un essere vivente, in embrione, dentro di me. Era una vita a cui non ho dato modo di esistere. Una vita che era parte di me, un essere a cui avrei fatto da madre».

In quell’occasione ha parlato di peccato: è credente?

«Sì, ma la mia amarezza non deriva dal fatto che credo in Dio. O forse sì… Ho capito di aver commesso un peccato contro un altro essere vivente. So che Dio mi perdona, sono io che non mi perdono».

Non l’aiuta insistere sull’irreparabilità dell’azione, il Padreterno perdona.

«Certo. Ma se ti tagli una mano non ricresce. Forse potrei espiare, compiendo azioni meritevoli per recuperare il rispetto di me stessa che, per quello specifico atto, non ho. Se quando morirò Dio mi dirà che mi ha perdonato sarò felice. Ne ho parlato con un prete e mi sono vergognata. Se non l’avessi fatto oggi ci sarebbe un ragazzo di 26 anni, chissà perché penso che sarebbe stato un maschio…».

Che cosa pensa della maternità surrogata?

«Dell’utero in affitto? Non lo so, è una questione delicatissima. Ho amici omosessuali che sono padri meravigliosi e crescono bambini sereni. I figli sono nati da una donna in California, non una donna povera. Lo so, in questi casi si parla di compravendita, ma io non mi sento né di accusare né di giudicare».

Con tutto quello che ha vissuto, come fa a essere sempre sorridente?

«Provo a trasmettere gioia, a mettere in evidenza la felicità che ho dentro di me, assieme al dolore. Che però non mi piace raccontare perché mi fa sentire patetica. A volte capita che riveli anche le mie tristezze, ma solo in qualche intervista».

 

La Verità, 20 maggio 2023