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«Follia parlare di negazionismo climatico»

Ruvido, cattivo, scapigliato, voce della Zanzara (con David Parenzo) su Radio 24 e volto dei talk show di Rete 4, Giuseppe Cruciani è il nemico pubblico degli ambientalisti apocalittici.

Cruciani, dove andrà in vacanza?

«In Trentino, come al solito. Precisamente a Madonna di Campiglio, uno dei miei eremi».

In mezzo agli orsi?

«Non ci penso. Capisco chi può avere disdetto e chi può avere delle perplessità. Io sto in posti non frequentati dagli orsi, faccio delle ferrate… Comunque, il freno al turismo è un motivo in più per abbattere gli orsi problematici».

Già l’espressione fa ridere.

«Vero. Orsi che possono mettere in pericolo la comunità. Li abbattono ovunque, da noi è un dramma di Stato».

Il turismo in Trentino ne risentirà?

«Spero di no. Per fortuna non c’è un pericolo costante. Sicuramente la campagna di protezione di questi mesi non aiuta».

Gli animalisti dicono che bisogna rispettare le loro abitudini: sono più importanti di quelle degli esseri umani?

«Per loro quelle degli uomini vengono dopo. Nel suo bellissimo Gli animali hanno diritti? Roger Scruton, un filosofo britannico morto di recente, scriveva che, siccome sono moralmente inferiori, proprio per questo vanno più protetti. Infatti, nelle società occidentali non c’è niente di più sofisticato e puntiglioso della normativa per la protezione degli animali. Ci sono tantissime leggi che li tutelano dalle sevizie e ci impegnano a coccolarli e accudirli in tutte le situazioni».

Gli animalisti si preoccupano anche delle abitudini delle nutrie e degli istrici che, scavando le tane, indeboliscono gli argini dei fiumi.

«Anche in quel caso ci vuole l’abbattimento selettivo e costante. Non capisco come si possa pensare di proteggere prima le nutrie e poi, eventualmente, il territorio. La controprova viene dai danni minori ai nostri fiumi e al nostro territorio se si adotta una sana politica di manutenzione degli argini. L’animalismo estremo produce solo danni».

Sul bellissimo litorale di Giovinazzo, in Puglia, la conversione di un ecomostro in un resort turistico è bloccata dalla Via (Valutazione impatto ambientale) preoccupata di tutelare la lenticchia di mare, una piccola pianta acquatica.

«Siamo alla follia. Spero che la vera motivazione del divieto non sia questa. La sopravvivenza della lenticchia di mare anteposta allo sviluppo economico… La penso al contrario: se per migliorare il territorio e creare lavoro serve cementificare, si cementifica. Il cemento non è sempre, automaticamente, male. La lenticchia di mare è la panna sopra le ciliegie dell’ambientalismo sfrenato. Non può essere così…».

E come può essere?

«Non lo so, magari con questa battaglia si creano dei bacini elettorali. La protezione dell’ambiente e una formula così generica che ci si può mettere dentro tutto. Ma è un grande ricatto: ma come, non vuoi proteggere l’ambiente? Elly Schlein ne parla di continuo, ma è un gigantesco alibi che produce divieti e immobilismo».

Sembra che non valga per il Ponte sullo stretto di Messina: è contento che si farà? Lei ci scrisse un libro 15 anni fa…

«Me lo sono quasi dimenticato. Non sono sicuro che si farà davvero, temo che per l’ennesima volta possa naufragare. Fare i ponti dovrebbe essere un fatto normale, invece in Italia è una battaglia ideologica».

Anche lì ci sono le Ong preoccupate per le sorti degli uccelli…

«La salute degli uccelli, la paura dei terremoti…».

Si dice che i problemi della Sicilia sono altri, che servono altre infrastrutture.

«Certo, le ferrovie. Ma non è che se non fai una cosa non devi fare l’altra. Perciò, finché non vedo, non dico la prima pietra, ma il taglio del nastro, non ci credo».

Che cosa pensa degli attivisti di Ultima generazione?

«Questi ragazzi, che io chiamo di Ultima degenerazione, imbrattando i monumenti o bloccando il traffico pensano di conquistare visibilità e andare nei talk show, credendoli utili per sensibilizzare mentre, in realtà, sono un tritacarne, una rappresentazione teatrale. Lo faccia dire a uno che li conosce».

Però, loro battaglie…

«Li trovo un po’ millenaristi e un po’ luddisti. E quindi un po’ contraddittori, perché poi si servono della tecnologia, cellulari, social e tutto il resto. Sono attaccati al mito della natura sacra e intoccabile, ciò che per loro l’uomo non è. Nessuno nega che gli idrocarburi inquinino, ma in questo momento, e non si sa per quanto ancora, non c’è alternativa. Poi li trovo fondamentalisti, incapaci di ammettere posizioni differenti, come quelle espresse da studiosi come Franco Prodi o Franco Battaglia».

Sono collegati ad A22 Network, finanziata dal Climate emergency fund.

«Può darsi che qualche soldo arrivi da questi fondi. Ma a me sembrano più degli scappati di casa, ragazzotti che fanno le loro molto discutibili proteste in modo autonomo. Se il Climate emergency fund si servisse di loro avrebbe scelto il cavallo sbagliato».

Se le capitasse di trovarli seduti sulla tangenziale che deve percorrere con la sua auto full electric…

«Ho un’auto diesel e non mi devono rompere le scatole».

… per raggiungere la sua meta, come si comporterebbe?

«Scenderei dalla macchina e direi che devo andare a lavorare: “Non mi cagare il c… alzati e smettila di fare il buffone per strada”».

Non si accorgono che è un errore attaccare l’Europa e sorvolare sui sistemi industriali di Cina e India?

«Quando si fa presente che sarebbe più giusto incatenarsi davanti all’ambasciata cinese o indiana, rispondono che quei Paesi inquinano perché producono merce per l’Occidente. La causa di tutti i mali siamo sempre noi che alimentiamo l’industria degli idrocarburi e siamo i consumatori più smodati del pianeta. Magari è vero…».

La soluzione è la decrescita?

«Qualcuno lo pensa. Di sicuro non si può imporla a tutti. Anche questi ragazzi non credo conducano vita monacale e lavino la biancheria nell’acqua del fosso. Anche loro sono immersi nella società occidentale che non sopportano. E intanto gridano alla fine del mondo vicina».

Le star di Hollywood e molti attori e intellettuali nostrani sono dalla loro parte.

«Ma questo è normale perché non c’è causa più nobile e indolore che volere un mondo meno inquinato. Questo lo vogliono tutti, è ovvio, come la pace nel mondo. I problemi nascono quando si devono individuare gli strumenti per raggiungere l’obiettivo. Perché, ricordiamolo, la vita in sé è inquinante».

L’ecologia è diventata una religione?

«Certe intransigenze lo fanno pensare. Ci sono intellettuali e testate giornalistiche che vogliono introdurre il reato di negazionismo climatico, come il negazionismo dell’Olocausto. Ci rendiamo conto?».

Questo è l’ambientalismo movimentista e dilettantista, poi c’è quello istituzionale e dirigista dell’Unione europea. Che cosa pensa della svolta green di Bruxelles?

«È una convergenza di interessi delle lobby dell’industria green che, con la scusa dell’emergenza, vogliono farci cambiare stili di vita e farci spendere di più. Nel modo che vogliono loro».

Dalle auto elettriche che dovremo acquistare nei prossimi anni all’efficientamento delle abitazioni, l’agenda green è fitta di nuovi adempimenti.

«Una serie di disagi e di costi. E i vantaggi quali sarebbero? Le nostre responsabilità per il peggioramento dello stato del pianeta sono inferiori a quelle che la narrazione apocalittica ci attribuisce, perciò mi sembra che qualsiasi sforzo virtuoso non sarebbe compensato da una miglior qualità della vita. Né nostra né di chi verrà dopo di noi».

E cosa pensa del cibo del futuro fatto di insetti e farine di grillo?

«Su questo sono libertario. Ognuno mangi quello che preferisce, l’importante è che non ci siano imposizioni e divieti. Da italiano, non penso che il nostro cibo debba temere la concorrenza di grilli e cavallette».

Con la possibile estensione del green pass all’emergenza climatica voluta dall’Ue potrebbero essere perseguiti i cosiddetti negazionisti ambientali?

«Non credo che il green passa verrà esteso all’ambiente. In ogni caso, non mi stupirei se i cosiddetti negazionisti verranno trattati come coloro che non si volevano vaccinare».

 

Il Timone, luglio-agosto 2023

«La sinistra non propone nulla, sa solo dire no»

Due anni e mezzo fa, dopo un periodo di penombra da pensatoio, Marcello Pera aveva ritrovato visibilità e attenzione dei media. Ma quando lo intervistai chiedendogli se, di fronte allo stato dell’Italia, si sentiva come il poliziotto richiamato dalla pensione per risolvere un caso disperato, abbozzò: «Non sto rientrando in politica», disse. Invece, ora l’ex presidente del Senato, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo, siede a Palazzo Madama nelle file di Fratelli d’Italia. «Sì, ha avuto ragione lei», concede. «Solo sul fatto che fossi in pensione non ce l’aveva. In questi anni mi sono dedicato a studiare la riforma dello Stato, un tema che mi sta a cuore».

Dopo il confronto fra la premier e le opposizioni di qualche giorno fa, come procede la riflessione su presidenzialismo o cancellierato?

«Ho visto che proseguono le audizioni per iniziativa di Giorgia Meloni al fine di trovare un testo condiviso. Mi auguro che quanto prima lo si trovi».

Se oggi dovesse tenere il discorso sullo stato dell’unione dell’Italia che immagine userebbe?

«L’immagine positiva di un Paese che sta crescendo e che ha voglia di lavorare».

Qualcuno ha parlato di un Paese infiammato, in preda a un’infezione.

«Non vedo niente di tutto questo. Vedo invece una presidente del Consiglio sempre più autorevole, in Italia e fuori. Poi c’è la contestazione della sinistra che continuando ad agitare la bandiera scolorita dell’antifascismo si mostra incapace d’immaginare un programma di governo. Perciò cerca ogni occasione per innescare una manifestazione di protesta o l’altra. È la dimostrazione di grande debolezza».

Questa infiammazione viene accesa da chi paventa il pericolo del ritorno del fascismo?

«È un’arma sempre più spuntata. Quando la premier va in giro per il mondo e in Europa nessuno si attarda su questi problemi di retroguardia».

L’ultimo appiglio è la nomina di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione Antimafia perché ritratta in una fotografia con un condannato per la strage di Bologna.

«È il tentativo di trasformare un piccolo caso nella dimostrazione di un teorema. A che serve una polemica che dura un giorno?».

È soprattutto il mondo intellettuale a ribadire queste accuse?

«Trovo che il mondo intellettuale di sinistra sia pigro, incapace di produrre idee nuove e invece molto ripetitivo di formule e parole d’ordine che non hanno seguito nella società civile. Nessuno in Italia si infiamma per la rinascita del fascismo. Ci sono temi ben più concreti. Per esempio, qualche giorno fa al Senato si è parlato del ponte sullo stretto di Messina e mi chiedo come il Pd abbia potuto votare contro una struttura che modernizza e unifica il Paese, liberando la Sicilia dalla condizione insulare».

Qualche esponente istituzionale come il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano o il presidente del Senato Ignazio La Russa potrebbe essere più misurato nelle sue esternazioni?

«Probabilmente sì. È anche vero che, insomma, sono persone sempre attese al varco e qualsiasi espressione usino viene sezionata e utilizzata per altri fini. Nelle sue iniziative, il ministro Sangiuliano si mostra sempre aperto alla discussione e non fazioso».

Sembra anche a lei che il conflitto sia più acceso sul terreno della cultura e dell’antropologia che su quello dell’attività di governo in senso stretto?

«Tra i due schieramenti ci sono differenze culturali e politiche non sanabili in materia di legislazione etica, sulla quale il governo pone giustamente dei confini che non possono essere superati. La ministra Eugenia Roccella fa bene a insistere su questo punto: un governo conservatore non può violare i principi della tradizione. Di più: non usare gli altri come mezzo di soddisfazione dei propri desideri è un principio laico. Che, nel caso della pratica dell’utero in affitto, viene palesemente violato dalla trasformazione delle donne in incubatrici».

Il dibattito non avviene in Parlamento perché la maggioranza è blindata e l’opposizione manca di leader all’altezza?

«L’opposizione mostra di non avere progetti concreti alternativi. Salvo alcuni no pregiudiziali, nulla viene elaborato e portato in Parlamento dalla sinistra. L’esempio più macroscopico è quello delle riforme istituzionali. Sulle quali il Pd è arretrato anche rispetto alle stesse posizioni del suo recente passato. È come se rinnegasse la necessità di fare queste riforme e avesse scelto come unica alternativa il dire no».

Come giudica la novità rappresentata da Elly Schlein?

«Personalmente trovo che questa novità non sia ancora sbocciata. Non si sia palesata. Non ho capito a che tipo di partito Elly Schlein stia lavorando. Ridurlo alle battaglie per i diritti delle minoranze, al gender, le famiglie arcobaleno e la maternità surrogata mi sembra troppo poco per un partito di opposizione di tradizione socialista. Davvero troppo poco».

Le è piaciuto il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni?

«Sì, mi è piaciuto. Ma mi ha anche un po’ stupito perché Mattarella ha parlato di diritti individuali diversi dai diritti delle etnie, cioè comunitari o sociali. Questa è una tipica e classica posizione liberale, che stavolta ho sentito propugnare da un uomo di cultura cattolica».

L’autore dei Promessi sposi era contrario alla difesa delle radici e della nazione?

«Non credo, è uno dei padri del Risorgimento italiano. Quindi, come per Manzoni anche per altre figure dell’epoca, la nazione e la patria erano punti fermi irrinunciabili».

In Marzo 1821 l’Italia è vista «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».

«È l’elogio della patria, madre di tutti gli italiani. L’elogio della nazione italica, un tipico concetto risorgimentale».

La parola tabù è «etnia». Si può difendere la propria identità senza che significhi propugnare «una supremazia basata sulla razza»?

«Sarebbe come dire che una persona che ami la patria e sia perciò un patriota sia necessariamente un suprematista. Non è così. La parola etnia fa riferimento alla storia. Non c’è nulla che riguardi la razza. È come quando, per esempio, si parla, con espressione analoga, di genio italico. È un modo di far riferimento alla caratteristica di un popolo».

Perché parlando di cucina, di ristoranti, di musica, persino di arredamento, l’aggettivo etnico rappresenta un valore aggiunto?

«Perché indica la ricchezza di elementi che qualificano le specificità di un popolo che non hanno nulla di negativo in sé. Tuttavia, come accade, se si parte dal presupposto che una data persona è fascista, qualsiasi espressione usi se ne trova la conferma. Alla fine osservo che la discussione su questi temi è così misera da interessare solo qualche personaggio di bassa levatura».

L’infiammazione diffusa nell’organismo del nostro Paese attraversa le piazze e le istituzioni culturali. Che cosa pensa delle proteste dei giovani di Ultima generazione?

«Sono manifestazioni assai minoritarie che ci sono sempre state ora su un tema ora su un altro. Salvo condannarne le modalità e perseguire i reati quando siano commessi, il resto lo lascerei perdere».

Anche la discussione sulle cause dell’alluvione ha un retroterra ideologico: da una parte ci sarebbe il cambiamento climatico dall’altra l’incuria del territorio.

«È così. In molti dibattiti vedo più ideologia che scienza. Su questi argomenti sappiamo molto poco e tanti scienziati seri come il professor Franco Prodi si affannano a dire che non abbiamo evidenze specifiche forti. Purtroppo questo messaggio di prudenza scientifica non passa perché l’ideologia è prevalente. Oggi l’ecologia è una nuova religione, un atto di fede».

Un altro fronte è la protesta contro il caro affitti condotta dai giovani delle tende. Con i precedenti governi gli affitti erano a buon mercato?

«Non lo erano neanche allora e le famiglie si sono sempre arrangiate. I costi degli affitti per gli studenti sono un oggettivo problema delle nostre università. Occorrerebbero atenei con degli alloggi, ma questo desiderio si scontra con il fatto che le nostre università costano poco e non offrono molto in termini di servizi».

La contestazione di una trentina di attivisti ha impedito di presentare un libro al Salone del libro, il bellissimo Una famiglia radicale di Eugenia Roccella, ma si ripete che il governo non tollera il dissenso.

«Cosa del tutto falsa, perché il ministro Roccella è persona preparata e che merita rispetto soprattutto quando espone le sue idee e chiede un confronto. In quell’occasione un gruppo minoritario e senza particolare valore ha rifiutato di confrontarsi. Ancora una volta mi hanno stupito quelle forze politiche che hanno utilizzato ciò che è avvenuto per dimostrare la natura fascista del governo. Eugenia Roccella porta un messaggio molto semplice e condiviso anche dai laici, e cioè che le donne dovrebbero essere rispettate e non usate».

La mancanza di tolleranza del dissenso da parte del governo sarebbe dimostrata dal tentativo di rimpiazzare l’egemonia culturale della sinistra.

«Se così fosse sarebbe un’operazione legittima, non vedo perché l’egemonia debba essere solo di sinistra. Ma anche in questo caso si ripropone il pregiudizio, ovvero che l’intellighenzia e la cultura siano solo di sinistra. Questo è un paradosso però, perché se sei un uomo di cultura non dovresti sottrarti al dibattito come ha proposto la Roccella».

Si riferisce all’intervento del direttore del Salone Nicola Lagioia?

«Si è comportato in maniera ambigua. Poteva essere più coraggioso e sentire meno il fiato che ha sul collo della cultura di sinistra di riferimento».

Lo spoil system e le nomine in Rai sono un modo per affermare questa nuova egemonia?

«Avevo ancora i pantaloni corti che già si parlava di spoil system».

L’attuale squadra di governo è in grado di reggere culturalmente questo tipo di conflitti?

«Suggerirei all’attuale classe di governo di essere più consapevole di sé e più coraggiosa. Bisogna elaborare posizioni e difenderle. Soprattutto liberarsi dall’idea, che è solo italiana, per cui essere conservatori equivale a essere nostalgici. Talvolta ho l’impressione che anche nell’ambito della destra quando si parla di cultura si individuino figure degne solo tra gli intellettuali di sinistra. E questo è un errore perché è falso».

 

La Verità, 27 maggio 2023

 

 

«Non azzeriamo, puntiamo sul buono che c’è»

Marco Paolini è cambiato. È difficile dire come, trovare l’aggettivo giusto. Addolcito no, ammorbidito neanche. Mite, forse… Ma resta un cambiamento non definibile. Qualcosa di diverso s’intravede nel modo di fare teatro e televisione. Qualche spigolo si è arrotondato, certi integralismi sono smussati. Cos’è successo? Il 17 luglio 2018, a causa di un attacco di tosse che l’ha distratto mentre guidava in autostrada, con la sua station wagon ha investito la 500 di una donna che viaggiava sull’altra corsia. Dopo due giorni la donna è deceduta. Quasi un anno dopo il drammaturgo di tanti memorabili spettacoli ha parlato di quel tragico accadimento in un’intervista a Gian Antonio Stella del Corriere della Sera: «Tutti sappiamo… che una distrazione, un errore, una svista, possono provocare danni irreparabili. Tutti gli amici hanno provato a tenermi su ripetendomelo. Ma non hai modo di prepararti a questo. Quando succede… Undici mesi dopo quel giorno non è cambiato molto. Posso provare a capire me stesso. Ma non riesco a perdonarmi».

Dopo una lunga assenza dalle scene, lentamente Paolini ha ripreso in mano il suo mestiere di attore. Qualche spettacolo a teatro, spesso con un compagno o una compagna. Ora il ritorno in televisione, insieme con Telmo Pievani, «scienziato evoluzionista», in un programma intitolato La Fabbrica del mondo, di cui stasera Rai 3 manda in onda l’ultima di tre puntate. È un racconto denso e tortuoso che intreccia documenti, ricerca scientifica, performance teatrali, interviste con studiosi, affabulazione, ecologia. Paolini conserva intatte le doti di contastorie, ma ci aggiunge la spezia dell’autoironia. Per esempio, mostra anche i suoi comportamenti ecologicamente scorretti, un’auto alimentata a gasolio, il pane e salame…

Da dove viene il titolo La Fabbrica del mondo?

«Da un’idea che, a sua volta, viene dai piedi».

In che senso?

«Stavamo cercando un posto da dove proporre questo lavoro sull’agenda 2030 dell’Onu. Dopo una lunga ricerca su consiglio di alcuni amici sono arrivato alla fabbrica della Marzotto a Valdagno. Era la metafora perfetta del pianeta».

Perché?

«Quando è nata da un progetto dell’Ottocento era all’avanguardia, ora è obsoleta. Una vecchia fabbrica con le colonne in mezzo e i montacarichi, andrebbe rasa al suolo e rifatta altrove, più moderna. Ma non si può perché è nella città costruita intorno a lei per gli operai».

Dov’è la metafora?

«Dobbiamo partire dall’esistente, dal buono e dal meno buono di quello che abbiamo fatto, provando a migliorare. Non possiamo azzerare tutto e ricominciare. Sarebbe una tentazione nichilista e ideologica».

Ma il titolo?

«Potevamo usare la parola “Casa”, ma in casa si sta più attenti. Invece nel posto di lavoro si sporca, si fa rumore, si rompono le cose. Abbiamo scelto Fabbrica del mondo perché l’uomo e ogni specie vivente con le loro attività modificano il pianeta».

Fabbrica è qualcosa che esclude l’eredità, il dono, la creazione?

«Io non amo la visione progressista dei premi per chi è andato più avanti. Non ho il mito dello sviluppo uguale progresso. La puntata di stasera è tutta dedicata all’eredità».

E poi c’è il suo Noè, il primo manutentore del creato.

«Noè fa e mugugna. Ha diritto al mugugno. Che è diverso dal rutto davanti alla tv. Noè che mugugna mentre fa è nobile. Non giudica il proposito, ma ne verifica la fattibilità».

Il proposito è?

«Consegnare ai nostri figli un mondo accettabile. Ma temo che non sarà così. L’agenda del 2030 è vanagloria? È una somma di buoni propositi? Se guardiamo alla Cop26 (la conferenza delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici del 2021 ndr) dobbiamo dar ragione a Greta Thunberg. Si è fatto molto teatro: l’assenza plateale dei cinesi, il sonno di Joe Biden… Eppure 300.000 ragazzi sono sfilati a Glasgow. L’enciclica Laudato si di Francesco mette sullo stesso piano l’ecologia dell’ambiente e l’ecologia delle reti. Si parla solo del primo, invece sembra che il Papa abbia letto Tim Berners-Lee, il fondatore di Internet».

Greta e papa Francesco sono i suoi nuovi punti cardinali?

«Le voci di Greta e di Francesco non sono le mie. Serve un linguaggio diverso dalla politica e da quella dei profeti. I profeti a teatro fanno male».

Detto da lei… La seconda puntata s’intitolava «Il peso delle cose»: al fondo c’è un’idea di ragione che vuole perimetrare la realtà anziché porre domande lasciando la possibilità che esista qualcosa di più grande?

«Ho sempre preferito i poeti ai filosofi. Per una ragione: il filosofo inventa una parola nuova per definire una cosa, il poeta scrive libri di parole vecchie per dire la stessa cosa e farcela sentire senza volerla battezzare. Non è detto che un genio sia interessante quando parla di religione. La scienza è un ambito nel quale, se possibile, le cose sono misurabili. E dove non lo sono ancora si presume che lo diventeranno. Fuori da questo non è scienza, ma con tutto il rispetto, saperi, visioni, religioni. L’ambito della Fabbrica è soprattutto quello dei mondi investigati dalla scienza».

Il punto d’arrivo è che «i benesseri sono a scadenza»?

«La sostenibilità non è compatibile con un ritmo di crescita che ogni vent’anni raddoppia il peso sulla terra dei materiali di produzione, utilizzo e smaltimento. Si dice che con la tecnologia e piantando alberi ridurremmo il Co2. Invece alla Fabbrica del mondo osserviamo che le piante sono già il 90% di ciò che respira sulla terra. Se cerchiamo la soluzione senza ridiscutere lo stile di vita secondo me non andiamo lontano».

La soluzione è la decrescita felice?

«No. Non lo chieda a un attore. Tutti noi che abbiamo costruito il benessere attuale l’abbiamo fatto in buona fede, rispettando le leggi. Ma forse senza conoscere i costi nascosti di quello che facevamo. Abbiamo abbandonato il mondo contadino e lavorato per stare meglio dei nostri padri. Ma i nostri figli non staranno bene come noi».

Una certa ecologia incolpa l’essere umano di tutti i mali. Il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani ripete che «il pianeta è progettato per 3 miliardi di persone».

«È un’affermazione che circola nei forum di economia. Il ragionamento sotteso al discorso sul peso delle cose è che noi, 7,8 miliardi di essere umani, pesiamo lo 0,01% della biomassa. Quindi, contesto l’affermazione di Cingolani: non siamo tanti come numero, sono le cose che riteniamo indispensabili a produrre la catasta che ci soffoca».

Quindi la decrescita?

«No. Nella puntata di stasera Loretta Napoleoni fa l’apologia di Elon Musk e Jeff Bezos, mentre Noam Chomsky li stigmatizza come bambini ricchi che giocano con i razzi e dice che quei soldi andrebbero spesi meglio. Anche Cristoforo Colombo fu preso in giro perché voleva scoprire le Indie, ma poi s’imbatté nell’America. L’azzardo di Musk e Bezos può aprire a economie e realtà che non immaginiamo».

Cosa pensa del fatto che si fanno sempre meno figli?

«La stessa cosa che dice papa Francesco. Ho grande rispetto per cani e gatti, ma mi è difficile abiurare alla condizione di adulto, colui che genera o si prende cura di chi non ha famiglia. Non possiamo esimerci dal pensare alla generazione che viene dopo di noi».

Fabbrica del mondo è un programma stimolante, ma con alcune pecette ideologiche?

«Lo so, le vedo anch’io, siamo uomini con un’idea».

L’Agenda 2030 le ispira così tanta fiducia?

«La immagino come la storia della Sagrada Família che Antoni Gaudí progettò sapendo che non ne avrebbe visto la fine. Parlando del pianeta si dice che tocca ai cinesi disinquinare. No, tocca agli americani che sono più ricchi. E l’Europa sta a guardare? Gaudí non si e chiesto a chi toccava, ha cominciato. Il linguaggio dell’architetto è poetico. Se quello della transizione ecologica resterà burocratico non affascinerà nessuno. Credo in un grande complotto positivo che avvii un progetto che altri termineranno».

Lei ha un’auto diesel e ama pane e salame.

«E, d’istinto, spero di morire prima di doverci rinunciare. Alex Langer al posto di rivoluzione e transizione preferiva parlare di conversione ecologica. Un processo che implica un atto di fede, ma in Italia, se parli in modo ispirato ti prendono in giro, perciò meglio dire le cose a mezza voce. Non ho ricette, i miei punti di riferimento non sono Serge Latouche o Thomas Piketty. Semmai Gael Giraud, il gesuita ispiratore della Laudato si. I beni essenziali non devono essere per forza o pubblici o privati. Possono essere amministrati dalle comunità».

Speranze smontate dalla globalizzazione?

«Con la pandemia anche i globalizzatori si stanno rendendo conto che quel mercato è troppo fisso. La dimensione della comunità è quella dei nostri padri, che hanno fatto la ricostruzione nel dopo guerra e il boom economico. Se continuiamo a ragionare come albergatori, artisti, artigiani, ristoratori, operatori del turismo, insegnanti facciamo poca strada».

In questo programma usa di più il linguaggio dell’autoironia?

«Non è certo un’orazione civile. Sono argomenti che implicano scenari distopici. Non voglio puntare il dito contro qualcuno se non anche contro me stesso. Non ho preso la patente ecologista per farlo, non mi sento “ista” di niente».

Prevale l’affabulazione sulla denuncia?

«Sono stanco delle immagini di ghiacciai che si sciolgono e di mammiferi marini spiaggiati. Quest’estate torrenti e fiumi della Carnia e del Veneto sono stati invasi da migliaia di topi morti. Ma non li abbiamo mostrati perché non c’interessa spaventare. La narrazione si appoggia su dati scientifici, sapendo che gli scienziati non sono uomini migliori dei politici e degli artisti».

Qualcosa l’ha cambiato?

«Sono stato zitto a lungo. Non ho scritto. Ho fatto esercizio di silenzio. Poi è arrivato il Covid che per me fa piazza pulita di quello che ho fatto prima. Nello spettacolo che si chiama Sani! racconto la storia di Rosina che dopo il terremoto del Friuli fa ricostruire la casa uguale a quella di prima. Però l’interruttore delle scale è finito su un’altra parete e lei, d’istinto, continua a cercarlo sul solito muro. Dopo il Covid non si può continuare come prima perché il mondo si è spostato. Vale anche per il teatro. Il Covid ci mette davanti a una nuova sfida, a un adattamento, a qualcosa che non si capisce, ma è oltre la nostra vita».

Il suo Covid è cominciato con quell’incidente?

«Devo sopportarmi a parlare e solo così ci riesco».

È riuscito a perdonarsi?

«Istintivamente, devo dire di no. Cerco di vivere senza darmi una risposta definitiva».

 

La Verità, 22 gennaio 2022

Anche nella Chiesa c’è chi si oppone alla serrata

Anche nella Chiesa c’è chi dice no. Anche nelle gerarchie qualcuno non si conforma, alza il ditino e fa sentire la sua voce dissonante. Era ora. Sono tre vescovi poco celebrati dai media smaltati del pensiero unico. In rapida successione, Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, Massimo Camisasca, presule di Reggio Emilia-Guastalla, e Corrado Sanguineti, capo della diocesi di Pavia, hanno incrinato la lastra di cristallo calata sulle nostre teste dalla comunicazione globale. Ognuno con il proprio stile, tutti con un certo coraggio. «Non conformatevi»: bastano le due parole-manifesto della Lettera di San Paolo ai Romani (12, 2) a spiegare perché era ora che qualcuno lo facesse.

Da mesi stiamo vivendo una situazione inedita, pervasiva e apocalittica. Nonostante gli annunci della Pfizer, non riusciamo ancora a intravederne la conclusione e a immaginare come saremo, se ci saremo, quando tutto finirà. Siamo ostaggi di un microrganismo invisibile. I virologi, di cui pochi mesi fa nemmeno conoscevamo l’esistenza, sono diventati gli oracoli delle nostre serate, sebbene si contraddicano di frequente. Su qualsiasi canale radiotelevisivo ci si sintonizzi si sente parlare solo di Covid e di contagi, spesso in dibattiti infuocati da dissensi e scomuniche politiche, culturali, scientifiche. E la Chiesa? Come si è comportata la Chiesa in questa congiuntura tanto drammatica? Quali parole ha pronunciato per confortare i fedeli e suggerire una traiettoria al mondo? Si è uniformata o ha rappresentato una differenza? Si può dire che dopo la Preghiera di papa Francesco nella piazza San Pietro deserta del 27 marzo scorso ha subito il lockdown religioso senza eccepire (chi l’ha fatto, da monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, a don Lino Viola, parroco di Soncino, è stato sconfessato)? Si può dire che, salvo qualche esibizione di buonismo religioso (forse neanche un redivivo Norberto Bobbio saprebbe condurre alla «mitezza» i ristoratori poco ristorati), è stata passiva anche in termini di giudizio?

Ora però, sembra che finalmente qualcosa inizi a muoversi. Qualche giorno fa, in una lettera al Corriere della sera, monsignor Sanguineti, ha parlato di «morte sociale». Tornare a un nuovo lockdown totale «sarebbe un colpo terribile e insostenibile per la nostra economia e per la tenuta psicologica e sociale del Paese», ha messo in guardia il vescovo di Pavia. «Non si muore solo di Covid o di altre malattie, esiste anche una morte sociale e culturale che fa le sue vittime nelle famiglie e nelle persone più fragili». Bisogna tenere aperte le scuole, come stanno facendo Francia e Germania che pur avendo chiuso tutto non hanno interrotto le lezioni in presenza. «Un Paese vive non solo di salute e lavoro, ma anche di cultura e spiritualità: per questo motivo occorre, appena possibile, dare spazio alle attività di teatri e di cinema, così come alla coltivazione delle arti e della musica», ha caldeggiato Sanguineti.

«La salvezza è stata spesso ridotta alla salute e il bene comune è stato fatto coincidere con l’applicazione delle restrizioni del governo», ha denunciato monsignor Crepaldi nella Lectio magistralis tenuta il 17 ottobre in occasione della Terza giornata della dottrina sociale della Chiesa, organizzata con l’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuân. Ancora più forte la preoccupazione espressa in una lettera di monsignor Camisasca ai preti della diocesi: «Il nostro popolo, già provato dalla pandemia nei mesi del lockdown, può correre il rischio di entrare in una visione paranoica della realtà, distaccata cioè dalle vere dimensioni del pericolo». Intervistato da Nicola Porro a Quarta Repubblica, il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla ha spiegato che ha voluto invitare la popolazione a «non chiudersi in casa», a non ripiegarsi su sé stessa nel tentativo di superare questo momento difficile. Causato da un’informazione ansiogena e deformata che ha «accentuato gli aspetti polarizzanti della situazione»; «dal dissidio fra gli scienziati», i quali non possiedono dogmi, ma fanno delle ricerche e come tali devono presentarle; infine, dalla difficoltà della politica nel «dare chiarezza sul futuro alle persone».

Insomma, qualcuno nelle gerarchie comincia a chiedersi, con circospezione per non provocare reazioni in Vaticano, se le misure adottate dalle istituzioni siano proporzionate alla reale gravità del momento. E se invece, approfittando della pandemia si stiano insinuando nuove ideologie e nuove convenienze. «Ci sono molti centri di potere politico e finanziario», ha detto monsignor Crepaldi, «che intendono usufruire della pandemia per riorganizzare, in un senso che non può lasciarci tranquilli, l’economia mondiale». Nei primi sei mesi dell’anno, per esempio, mentre si è registrato un crollo della produzione mondiale del 10%, le 90 aziende top dell’informatica hanno aumentato il fatturato di 800 miliardi. «L’economia viene così colonizzata da un lato da un nuovo statalismo e dall’altro da un nuovo mondialismo, due coltri ideologiche che la trasformano in diseconomia», osserva l’arcivescovo. E sulla spinta della pandemia si richiede alla popolazione di cambiare stili di vita. Ma se questo può avere un senso, non dobbiamo farlo «assumendo quelli imposti da un supposto nuovo ordine mondiale, bensì quelli collegati con la natura dell’uomo, la famiglia, la vita. Come mai tra i cambiamenti di vita proposti non c’è mai la riscoperta della famiglia, del matrimonio, della procreazione secondo modalità umane, dell’importanza anche economica ed ecologica della natalità?». Se si basa il concetto di fratellanza tra i popoli «su ragioni riconducibili all’economia, allora si deforma anche l’economia. Mi sembra essere questa la situazione dell’Unione europea… Infatti in Europa sembrerebbe nata la nuova religione ecologista», alla quale acriticamente si accodano settori importanti della Chiesa e del mondo cattolico. «Si spendono somme enormi per difendere la natura più che per difendere l’uomo», ammonisce l’arcivescovo di Trieste. Ma «se impostiamo l’economia sui consumi individuali e prevalentemente voluttuari, una società senza figli, senza famiglia, fatta di individui asessuati o dalla sessualità polivalente che lavorano per consumare e consumano per lavorare è senz’altro attraente per gli operatori economici senza scrupoli», conclude Crepaldi la sua Lectio che andrebbe letta integralmente.

«Non conformatevi alla mentalità di questo secolo (mondo ndr)», conclude Paolo rivolto ai cristiani di Roma, «ma trasformatevi, rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto». È un’esortazione utile anche oggi.

 

La Verità, 11 novembre 2020