Articoli

«Con il colore curo l’ostilità tra arte e pop»

Un artigiano che naviga le acque della globalizzazione. Un intellettuale che ama la cultura pop. Un designer che usa la tecnologia con la cura della bottega rinascimentale. Riccardo Falcinelli ha 44 anni, una laurea in letteratura italiana alla Sapienza di Roma, conseguita dopo aver frequentato il Central Saint Martins of Art and Design di Londra, e una lunga esperienza come art director di case editrici (Minimum fax, Einaudi, Laterza, Zanichelli, Carocci) per le quali ha curato la grafica di oltre 5000 libri. Insegna Psicologia della percezione all’Isia (Istituto superiore per le industrie artistiche) di Roma. A fine settembre ha pubblicato per Stile libero di Einaudi Cromorama, 470 pagine su «come il colore ha cambiato il nostro sguardo». Temperamatite, compasso, fiammifero, scotch e altri attrezzi d’antan disposti sull’homepage del sito della Falcinelli & Co esprimono la filosofia della sua attività, «un piccolo studio di quattro persone».

Cromorama ha richiesto dieci anni di ricerche, tre di scrittura e un altro per la ricerca iconografica. Si prefiggeva di compilare un’enciclopedia del colore?

«Non sono partito per scrivere 500 pagine, mi ci sono trovato. Cromorama è il tentativo di raccontare ai non addetti ai lavori come funziona la comunicazione visiva, nell’arte e nel design. Dalla scarpa da ginnastica ai fumetti alla pubblicità, tutto è fatto di segni e colori. Se si cerca di capire il rapporto tra forme e colore si trovano solo manuali di storia dell’arte, mentre gli oggetti con cui abbiamo a che fare tutti i giorni non li racconta nessuno. Insegnando a ragazzi di 19 anni, ho provato a usare Piet Mondrian o Leonardo Da Vinci per spiegare la colla della cartoleria o il giallo dei Simpson».

Il risultato è una storia dell’umanità attraverso il colore. Un po’ come una storia dell’umanità attraverso il suono: vasto programma.

«Ammetto, ma preciso: una storia dell’umanità da quando si è industrializzata. La molla è stata la schizofrenia diffusa tra ciò che si considera arte, perciò di qualità ed elettiva, e tutto ciò che è commerciale e di massa».

La copertina di Cromorama, una sorta di storia dell'umanità recente attraverso il colore

Cromorama, una storia dell’umanità recente attraverso il colore

Ciò che è commerciale è pop.

«E ciò che ha troppo successo è dozzinale per definizione, il che non sempre è vero. Ho tentato di mostrare che dietro a un barattolino di colla o alla striscia di un fumetto ci sono più studio e lavoro di quanto si creda».

Si può guarire da questa schizofrenia?

«Si può guarire diversificando linguaggi e livelli di comunicazione. Un regista come Alfred Hitchcock ha prodotto un cinema sofisticato che influenzò François Truffaut, ma ebbe enorme successo anche in sala. Creare opere che sappiano parlare a un bambino come a una persona colta dovrebbe essere l’obiettivo di chi fa arte».

Perché oggi prediligiamo le tinte unite? È la velocità delle nostre giornate che ce le fa preferire?

«Questo è certamente uno dei motivi. Ma tinta unita vuol dire anche superficie liscia, non usata, propria di un oggetto nuovo, qualcosa che siamo portati a desiderare. Il nuovo è il motore del nostro tempo. L’industrializzazione e la società di massa ci inducono a comprare cose più economiche più spesso. I nostri nonni compravano cose di maggior valore, ma più raramente».

Se le idee vincenti sono la velocità e il nuovo perché va di moda il vintage?

«Negli ultimi trent’anni abbiamo subito un’intossicazione di elettronica e di futuro digitale. Ora sentiamo il bisogno di fermarci a vedere ciò che ci ha preceduto. Prima dell’industrializzazione diffusa il passato era prestigioso. Adesso rincorriamo parossisticamente il cellulare di ultima generazione, come se solo il nuovo garantisse la felicità. Il vintage è rassicurante perché ci tira fuori da questa frenesia. Anche la scorpacciata di progresso e progressismo ci ha indotto in errore. La storia non è fatta solo di progressi, ma di tanti movimenti. Non possiamo applicare quello che avviene nella medicina e nell’elettronica all’arte o alla cucina. Tra vent’anni non mangeremo dei rigatoni al sugo più buoni di quelli che mangiamo adesso».

Chi è un visual designer?

«Chiunque si occupi dell’aspetto visuale di prodotti che verranno visti su larga scala».

Perché oggi il design è così importante?

«Lo era anche prima, ma veniva chiamato in un altro modo. Chi disegnava scarpe era un esperto calzolaio, oggi è un designer. È un cambio di nomenclatura più che di professione. Il designer lavora per l’industria. Artisti e artigiani lavorano su pochi pezzi o pezzi unici».

Che cosa insegna la psicologia della percezione?

«Che le cose possono essere colte da diversi punti di vista. Ciò che m’interessa trasmettere è un punto di vista critico, per arrivare al quale è necessario studiare».

Che tipo di professore è?

«Piuttosto impegnativo, perché tento di far passare la necessità dell’attenzione al particolare. Viviamo in un’epoca in cui i ragazzi vengono portati a credere che i risultati si raggiungono facilmente. Ecco, questa è un’altra cosa che cerco di insegnare: che bisogna faticare. Ma in fondo per passare dalla sciatteria alla qualità lo sforzo è ridotto».

Nel libro racconta che un suo professore vi fece riempire dei quadrati con tanti neri diversi per una settimana.

«Esatto. Riempire delle campiture di un nero brillante o granuloso o setoso serviva a educare l’occhio. Si impara a guardare le cose. Anche lo sguardo, come il gusto e il talento artistico o sportivo, va educato e allenato».

I suoi studenti come prendono queste lezioni?

«Quando uno mi ha accusato di fissarmi sui particolari ho raccontato che una volta ho fatto 54 telefonate in tutta Italia perché cercavo delle borchiette copritermosifone, ma a Roma le avevano solo in pvc, mentre mi servivano in polivinile. Alla fine ho trovato il rappresentante di una marca gemella, il quale se le è fatte mandare dalla Francia e me le ha lasciate dal suo portiere a Frosinone dove sono passato a prenderle».

Cinquantaquattro telefonate: e i suoi studenti?

«Hanno ascoltato la morale. Primo: le cose belle chiedono di saper trasformare le nevrosi in qualità. Secondo: se il mondo ti sta bene così com’è perché dovresti ambire all’eccellenza o fare le cose con cura? Terzo: se non t’interessano i dettagli forse il design non fa per te».

Lei lavora principalmente nel campo dell’editoria: un perfezionista come tollera la mediazione con il committente?

«Mi piace essere al servizio del committente se mi fa lavorare con accuratezza».

Qual è il settore dove il design è più all’avanguardia?

«Non saprei dare una risposta univoca. Se parliamo di avanguardia in senso stretto, probabilmente quello medico. Oggi esistono delle protesi ortopediche molto curate dal punto di vista estetico che vent’anni fa non erano ipotizzabili. Nell’editoria, invece, l’avvento dell’e-book ha accelerato il rinnovamento del libro di carta, innescando una cura dell’oggetto, dalla copertina alla grafica, prima inesistente».

Qual è l’oggetto più moderno e seducente degli ultimi anni?

«Nell’ambito dell’elettronica la Apple ha cambiato il mondo, trasformando oggetti burocratici come i calcolatori in oggetti d’arredamento. Il primo smartphone ha modificato il modo di relazionarci agli altri. Va reso merito a Steve Jobs».

Lei è art director di Pagina 99: che cosa pensa della grafica dei giornali?

«I giornali sono sempre stati al passo. Il progetto del Corriere della Sera, soprattutto l’inserto della Lettura, ha una grafica elegante grazie al carattere solferino. La nuova Repubblica mi ha divertito molto. La scena grafica dei quotidiani è molto vitale».

Come giudica i disegni dei volti dei rubrichisti e delle grandi firme?

«Sono un portato della tradizione anglosassone che avvicina il quotidiano a ciò che erano il magazine e la rivista. Nei quotidiani cerchiamo commenti e opinioni autorevoli perché i fatti ci arrivano sul cellulare, e la firma riconoscibile rafforza l’identificazione».

I Simpson. Falcinelli ha provato a spiegare quanto studio ci sia dietro la scelta di un colore

I Simpson. Falcinelli ha provato a spiegare quanto studio ci sia dietro la scelta dei colori

Che rapporto ha con il cinema e la televisione?

«Ringrazio il computer che mi permette di guardare la televisione quando decido io. Penso che parte del successo delle serie tv sia dovuto alla visione in streaming sui computer».

Quali sono i prodotti tv che hanno determinato una svolta significativa dal punto di vista del design?

«A livello internazionale con Lost e Desperate housewives il telefilm è diventato cinema a tutti gli effetti. In Italia il cambio di paradigma è avvenuto qualche anno dopo con Romanzo criminale, che ha mostrato una cura del colore, della fotografia e del design inediti».

Ho letto sul suo profilo Facebook un dialogo in cui confidava a un collega di accingersi a modificare a mano 350 immagini per portarle da una definizione del 99.97% al 100%. Un lavoro immane per una differenza impercettibile. Che cos’è per lei la perfezione?

«È un’ideale rassicurante, è l’amore per le cose fatte bene. Nel lavoro si cerca di fare bene le cose come compensazione o risarcimento del fatto che la vita ha troppi problemi per essere perfetta».

C’è qualcosa o qualcuno, un autore, un artista anche del passato a cui si ispira o a cui attinge per la sua professione?

«Niente di particolare. Le fonti d’ispirazione sono quotidiane e molteplici. Ciò che conta è la mia, la nostra, predisposizione: la curiosità con cui entriamo al supermercato o in un museo, ascoltiamo un’opera lirica o guardiamo uno spot, studiamo la grafica di una bottiglia di un succo di frutta o visitiamo una mostra ecologica. Il segreto è in noi, nella nostra passione».

 

La Verità, 26 novembre 2017

Trevisan: «Il potere è in mano agli infottenitori»

Niente da fare, non c’è verso di fargli togliere gli occhiali da sole nemmeno quando gli scatto qualche foto con il cellulare. «Gli occhi non si devono vedere», dice. Vitaliano Trevisan li ha azzurri chiarissimi, come quelli di certi husky siberiani. Nelle rare foto in cui si vedono, velati di tristezza, sembrano contraddire il piglio che promana dalla pelata, dalla basettona, dalla mimetica. Attore, drammaturgo, sceneggiatore, scrittore radicato nella periferia vicentina, Trevisan ha raccontato i suoi 57 anni molto irregolari nell’ultimo libro, Works (Einaudi, 2016): praticamente un’autobiografia. «È un mémoire centrato sul tema del lavoro», precisa. «Su consiglio di un amico ho aspettato di superare i 50 per scriverlo». L’amico è uno dei pochi che resiste alla sua misantropia e anche nel libro vi compare come «l’Eccezione», figlio di un vecchio assistente di Mariano Rumor, già potente ministro e presidente del consiglio democristiano, l’unico a non aver fatto carriera per l’assoluta incapacità a trarre vantaggio dalle sue frequentazioni. Tale padre, tale figlio.

In Works, Trevisan racconta quarant’anni di lavori sempre diversi e quasi mai soddisfacenti. Manovale, lattoniere, muratore, cameriere, costruttore di barche a vela, gelataio in Germania, geometra, venditore di mobili, portiere di notte, fino al raggiungimento di una certa stabilità come scrittore e drammaturgo, sua vera ambizione. Sempre con un’attività di spacciatore sottotraccia. Sempre nella provincia veneta, martoriata da uno sviluppo urbano selvaggio. Sempre dentro un conflitto irrisolto col mondo attorno. Deragliamenti, ricoveri in psichiatria, matrimonio scoppiato. Da qualche anno vive a Crespadoro, paesino di 1300 abitanti sotto le Prealpi, dove si arriva risalendo la valle del Chiampo, quella delle concerie.

Capannoni tra le villette. Paesaggio devastato, senza logica e desolato come la tua scrittura.

«Vero: paesaggio devastato. Ma l’assenza di logica mi piace, dà l’idea di una forza naturale. Se ce l’avesse, una logica, m’infastidirebbe di più. L’anarchia ha un certo fascino».

Come hai scelto di venire quassù?

«Non mi piaceva più stare in periferia e il centro mi ha sempre fatto schifo. Qui siamo vicini alle montagne e l’aria è buona».

È il posto giusto dove ambientare la tua misantropia?

«Non sono misantropo. Frequento il mondo. È il posto dove compensare queste frequentazioni».

Come trascorri le giornate?

«Adesso sto scrivendo una pièce teatrale. Una cosa per me. S’intitolerà Il delirio del particolare. È la storia di una vedova che torna nella sua vecchia casa disegnata, dal grande architetto Carlo Scarpa. Per venderla deve fare l’inventario. Così, inizia il recupero della memoria. Quando l’avrò finita la manderò in lettura a un po’ di persone che mi leggono volentieri».

A differenza di Goffredo Fofi che si rifiutò di farlo, consigliandoti di lasciar perdere il teatro di parola che considerava morto?

«Se è per questo, non ho mai ascoltato i consigli di nessuno. Quei testi sono stati miracolosamente portati a teatro da Toni Servillo e Anna Bonaiuto, da Ugo Pagliai e Paola Gassman».

Per Goffredo Fofi «il teatro di parola è morto»

Per Goffredo Fofi «il teatro di parola è morto»

Tornando alle tue giornate?

«Scrivo un paio d’ore al mattino e un altro paio al pomeriggio. Poi vado a far legna. In casa ho delle stufe. Facendo legna da alberi morti mi scaldo e mi tengo in esercizio».

Il boscaiolo è un lavoro che ti mancava. La frase finale del libro – «Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione» – serve a pararti il culo?

«L’ufficio legale dell’Einaudi mi ha detto che per questo basta che sia un racconto autobiografico. Quella frase mi piaceva. È l’opposto di quella che si legge abitualmente all’inizio delle opere di fiction, dove ogni “riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale”».

O causale?

«Appunto. È un gioco, una cosa per divertirsi, quando si può».

Quassù la tua miglior compagnia è la solitudine?

«Ho un cane, un fox terrier tedesco. Si chiama Dean, da Dean Martin, in omaggio a un amico nato nel giorno del suo compleanno, mentre io sono nato nel giorno del compleanno di Frank Sinatra».

Con Servillo e Matteo Garrone, per il quale hai scritto e recitato in Primo amore, i rapporti sono proseguiti?

«No. Avevano degli ego troppo grandi per me».

Toni Servillo ha portato in scena alcuni testi di Vitaliano Trevisan

Toni Servillo ha portato in scena alcuni testi di Vitaliano Trevisan

Cos’è successo?

«Basta così».

Con chi mantieni buoni rapporti?

«Con Alessandro Haber e Andrée Ruth Shammah. Al Franco Parenti abbiamo fatto Una notte in Tunisia, poi l’adattamento de Gli innamorati di Carlo Goldoni».

Vivi di questo?

«Sì. Faccio anche degli spettacoli, come lettore e attore. Serate con musicisti. C’è una drammaturgia, non si tratta solo di alternare un brano di lettura a un brano musicale».

Leggi, guardi la televisione?

«Leggo La Gazzetta dello Sport e ascolto Radio 24».

Spiega.

«Sulla Gazzetta scrivono bene di cose futili. Ed è sempre meglio che scrivere male di cose serie».

E Radio 24?

«Mi dà la prospettiva sul mondo degli industriali. Siccome il mondo è dominato dall’economia, conoscere la lingua dei dominatori aiuta a difendersi. I dominatori sono grandi comunicatori, quelli che Jeremy Rifkin chiamava gli insaporitori, esaltatori di sapidità. Oggi la radice dell’economia è nella comunicazione. È la comunicazione, e la pubblicità, a produrre posti di lavoro attraverso la profusione di parole. Gli infottenitori comandano».

Infottenitori?

«Loro. Esiste l’infotainment, crasi di information e entertainment. In italiano si dice informazione e intrattenimento, da cui deriva infottenimento. Chi lo pratica è un infottenitore. Non è una semplice traduzione dall’inglese. In italiano l’espressione rimanda al verbo fottere. Questo per dire come la penso. E anche per dire come lavoro sul linguaggio, rispetto a chi conia calembour facili e molto gettonati nei social».

Con i quali che rapporto hai?

«Normale. Senza allergie e senza euforie. Ho una pagina Facebook, dove pubblico foto, citazioni da letture, qualche raro intervento sull’attualità che quasi mai viene colto».

Televisione?

«Non la possiedo. La guardo quando sono in trasferta, in qualche hotel. Non mi manca».

C’è qualche autore o scrittore che segui con più assiduità?

«Sto leggendo delle interviste a David Mamet. E poi seguo Eyal Weizman, un architetto israeliano che vive a Londra e si occupa di architettura forense, di edifici danneggiati nelle guerre».

Che cosa t’interessa?

«Trovo stimolante la sua analisi, e quella di Hannah Arendt, dei limiti del male minore, la filosofia adottata da molti governi europei o dalle Ong per applicare le leggi sull’asilo politico. Ci vorrà tempo, probabilmente, ma prima o poi capiremo che, alla fine, l’umanitarismo del male minore avrà aumentato il numero dei morti».

Cosa te lo fa dire?

«Esemplifico. Più le imbarcazioni delle Ong si avvicinano alle coste libiche, più favoriscono le partenze. Se devono percorrere 100 miglia dalla riva, i profughi si procurano un certo tipo di barca. Se devono percorrerne solo 10 si butteranno sopra il primo gommone che trovano. È una questione di metodo e l’informazione è decisiva. Il male minore ci spinge a salvare quelli che stanno morendo in quell’istante, dimenticando che in questo modo, in tempi lunghi, ne moriranno di più».

Hai una soluzione?

«Non è compito mio, ci dovrebbe essere la politica. In più vedo un’altra cosa».

Sentiamo.

«Nei Paesi occidentali la disoccupazione giovanile continua a crescere, mentre i lavori più duri e malpagati li fanno i profughi che riescono ad arrivarci. Questo significa che la nostra società ha bisogno di quelle persone che fuggono».

L’immigrazione è un disegno del capitalismo?

«Non dico questo. Sono due fatti che esistono e interagiscono, anche senza che ci sia nulla di organizzato a priori».

Segui la politica?

«Perché dovrei se non voto?».

Tra Thomas Bernhard, Giacomo Leopardi e Charles Bukowski in chi ti riconosci di più?

«Bukowski no. Gli altri due li sento più vicini. Se vuoi un autore americano, potrei dire William Burroughs».

Hai visto quanto ha venduto il libro di Alessandro D’Avenia su Leopardi?

«Ho visto. Ma un libro che inizia con “Caro Giacomo” m’induce a non proseguire».

È un libro rivolto ai giovani che a migliaia seguono i suoi spettacoli teatrali.

«A migliaia vanno anche agli incontri con Mauro Corona».

C’è una bella differenza. In Works scrivi: «Non credo in dio, ma credo nel peccato, imperdonabile, di essere venuto al mondo». Hai fastidio di vivere?

«Sì».

Andrée Ruth Shammah ha prodotto alcuni spettacoli di Vitaliano Trevisan

Andrée Ruth Shammah ha prodotto alcuni spettacoli di Vitaliano Trevisan

Non hai rimpianti per qualche occasione perduta?

«Avrei potuto fare il medico o l’infermiere, visto che il sangue non m’impressiona. O l’attore».

Hai rifiutato qualche invito?

«Non ho intrapreso quelle strade quando avrei potuto».

La politica avrebbe potuto dare un senso?

«È un mondo lontano dalle mie possibilità».

E il cristianesimo?

«Anche il cristianesimo lo è. Non sento in me la possibilità di credere in qualcosa. Fede, scienza, psicanalisi».

Però credi nel destino sciagurato di esser nato. Un evento di cui non siamo noi a decidere né il dove né il quando. Tutto per caso?

«Esiste il caso. Ed esiste il modo di reagire di fronte alle questioni che il caso ci pone. Questo, a lungo andare, forma un destino».

Che però, non derivando da un dio, è caotico, giusto?

«Giusto: c’è il caos. Tutto il resto è un tentativo umano di dare una parvenza di ordine. Se devo pensare a un disegno lo vedo nello sviluppo della specie che potrà portare all’autoestinzione. Le premesse ci sono. Oppure all’espansione senza fine. Negli anni Sessanta si facevano viaggi spaziali per trovare nuovi mondi dove vivere in futuro. Oggi non se ne parla più. Ma magari si ricomincerà a farlo».

Che cosa ti tiene lontano dal suicidio?

«I farmaci, nel senso ampio del termine».

 

La Verità, 14 maggio 2017