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«Il governo è solido, ma ora serve uno scatto»

Giovanni Orsina dirige il dipartimento School of government dell’università Luiss Guido Carli. Storico e politologo di area moderata, è apprezzato anche a sinistra, non solo da editorialista della Stampa. L’ultimo suo libro, pubblicato da Rubbettino, si intitola Una democrazia autentica. Partitocrazia, antifascismo, antipolitica.
Professor Orsina, ora che si avvicinano i due anni di governo Meloni affiorano i primi segnali di logoramento?
«Non direi che siano i primi, di tensioni simili ne sono già emerse in passato. Forse dopo due anni di vita, e, superata la svolta delle elezioni europee, alcuni nodi sono più aggrovigliati che in precedenza. In ogni caso, non mi sembrano tali da far parlare di un governo in difficoltà».
Le sembra che alcuni suoi esponenti stiano perdendo la consapevolezza dell’occasione storica per incidere sul sistema di potere vigente nel Paese?
«Forse sì. Mentre non ritengo che le tensioni interne siano nuove, d’altro canto vedo un governo che stenta ancora a trovare una missione. Superata l’inevitabile e giusta euforia per aver conquistato il timone, adesso bisogna decidere dove portare la nave. Ma questo ancora non è chiaro».
Fino a qualche mese fa si sperava di modificare gli equilibri dell’Unione europea per avere più margine di manovra anche in Italia sull’immigrazione, l’ambiente e l’agricoltura. Che cosa è andato storto?
«Innanzitutto, si sapeva che gli equilibri in Europa non sarebbero cambiati radicalmente perché i sondaggi lo indicavano con chiarezza. Ci aspettavamo uno scivolamento verso destra, ma non un rovesciamento radicale. In secondo luogo, poiché quello scivolamento c’è stato, certe decisioni prese dal precedente Parlamento europeo, quello appena insediato non potrà prenderle. Quindi, in un certo senso, l’Europa un po’ è cambiata. Fatte queste premesse, Meloni a mio avviso questa partita avrebbe potuto giocarla meglio».
In che senso?
«Pur essendo il leader politico uscito meglio dalle elezioni, la partita l’ha giocata in difesa. I due perdenti, Emmanuel Macron e Olaf Scholz, hanno preso l’iniziativa, tagliandola fuori. E da quel momento in poi lei ha giocato di rimessa».
L’asse franco-tedesco si è saldato con l’alleanza Ppe-Socialisti escludendo le istanze del nostro Paese?
«Questa è la politica. Cinica e arrogante? Sì, non hanno tenuto gran conto dei risultati elettorali. Pagheranno un prezzo per questa sordità? Probabilmente sì. Ma questo è il gioco del potere, e in quel gioco loro hanno tenuto sempre in mano il pallino e lei è rimasta ai margini».
A cosa serve votare se le scelte degli eletti non sono consequenziali alla volontà degli elettori? E, soprattutto, non lamentiamoci per l’insorgere dell’antipolitica, dei populismi e dell’astensionismo.
«Concordo totalmente. C’è stato un evidente arroccamento dell’establishment».
Arroccamento è la parola chiave.
«Non c’è dubbio. Ma nell’immediato ha avuto successo, perché la von der Leyen l’hanno portata a casa. Se poi Meloni non ci è voluta stare per non partecipare all’arrocco, in linea di principio può pure essere una scelta condivisibile. Che ha comportato un prezzo, però».
Il cambio di scenario non prodotto dal voto europeo potrà venire dalle elezioni americane?
«Se verrà eletto Donald Trump ovviamente lo scenario cambierà. Dopodiché, si fatica a vedere in quale direzione. Perché, da un lato, una vittoria di Trump darebbe fiato alle destre, e Viktor Orbán e Matteo Salvini si stanno preparando. Ma dall’altro lato, The Donald è un pragmatico, un cinico – ricordiamoci il tweet su Giuseppi – non è un politico ideologico che aiuterà quelli che la pensano come lui, a meno che non gli convenga. Infine, Trump costringerà l’Europa a collaborare di più, quanto meno sul tema della difesa. Paradossalmente, l’effetto di un successo repubblicano potrebbe essere <più Europa>, il contrario di ciò che vogliono le destre europee».
Più Europa, ma diversa da quella attuale.
«Questo non sarà Trump a deciderlo. Lui chiederà più denaro per la difesa, ma poi come investirlo sarà una decisione delle cancellerie europee».
Quali sarebbero le conseguenze in Italia?
«Avremmo un Salvini ancora più movimentista, che cercherà di surfare l’onda trumpiana a scopi propagandistici. Però l’Italia è un Paese che deve avere eccellentissimi rapporti con l’America, chiunque la governi».
E se vincessero i democratici?
«Ci sarebbe continuità con gli equilibri attuali. Ma una vittoria dei democratici spingerebbe Meloni verso il centro».
Forza Italia, appartenente al Ppe, ha puntellato l’arrocco: quanto potranno influire sul governo le scelte diverse nei confronti di Ursula von der Leyen?
«Sono tre posizioni oggettivamente differenti, ma non credo che avranno grande impatto in Italia. Le due dimensioni, l’italiana e l’europea, non sono isolate, ma c’è un certo grado di autonomia fra l’una e l’altra. E meno male, perché gli elettori italiani hanno chiesto a quei tre partiti di stare insieme. Se dovessero dividersi per effetto delle scelte europee, si creerebbe una tensione grave fra la dimensione politica continentale e quella nazionale».
Dopo l’iniziativa di Marina e Pier Silvio Berlusconi che scenario si apre per Forza Italia?

«L’impressione è che i figli del fondatore abbiano voluto mettere pressione su Forza Italia, spronando Tajani ad approfittare di uno spazio al centro che indiscutibilmente c’è e che Meloni non vuole presidiare. Il problema è capire in che modo il loro intervento, che è un intervento extrapolitico, possa tradursi in una strategia di Forza Italia».
Essere un partito «di sfida», come ha chiesto Pier Silvio, vuol dire paradossalmente allinearsi al mainstream?

«Separerei le due cose. Chiedere un partito con un’iniziativa più forte, che produca più cultura e più pensiero politico, è legittimo. È indubbio che negli ultimi mesi Forza Italia abbia giocato in difesa – pure se è indubbio anche che la strategia abbia funzionato. Detto questo, che il rinnovamento di Forza Italia debba svilupparsi verso il mainstream è tutto da discutere. La mia opinione è che non sia quella la direzione giusta».
Tuttavia, sembra quella la sponda.
«Presidiare il centro rinnovandosi non vuol dire replicare formule di moda. Se si vuol essere un partito che rappresenta il mondo moderato, la strada giusta non è prendere l’agenda degli altri o replicarla meccanicamente».
Quale potrebbe essere la strada giusta?
«Domanda complessa. Forse ripartire dal partito del mondo produttivo e della competitività. Per altro, quello della competitività dell’Ue, e della sua capacità di non subire la pressione degli altri blocchi, è un tema posto anche da Von der Leyen. Il contrasto all’iper-regolamentazione è una battaglia anche di Meloni, oltre che del Ppe. Su questo fronte, che appartiene alla sua tradizione, Forza Italia può prendere l’iniziativa, contrastando l’Europa delle regole a favore di quella dello sviluppo e della crescita».
Ha ragione Giorgia Meloni a preoccuparsi per la compattezza del governo?
«Secondo me, non particolarmente. Certo, meno tensioni ci sono meglio è, ma non vedo possibilità di movimento per Salvini e Tajani oltre un certo limite. Un interrogativo più stringente sull’incisività dell’azione di governo si porrà da settembre. Nei prossimi due anni i vertici di governo devono decidere quali grandi scelte lo caratterizzeranno».
Ha anche lei la sensazione che questo governo provoca reazioni scomposte perché eversivo rispetto a un sistema di potere considerato inattaccabile?
«In realtà, una certa isteria è strutturale. Poi è vero che in alcune centrali mediatiche questa isteria è esasperata dalla speranza che l’anomalia si tolga presto dai piedi».
Eppure proprio queste centrali mediatiche lamentano di continuo la riduzione della libertà di stampa.
«L’Italia ha sempre avuto un giornalismo fortemente intrecciato con la politica e perciò tendenzioso, a destra così come a sinistra. E la Rai è il terreno di caccia prediletto dei partiti da almeno una sessantina d’anni. Queste caratteristiche poco commendevoli non nascono certo col governo Meloni, né mi pare che con Meloni si siano aggravate. Fermo restando che chiunque aggredisca i giornalisti deve essere represso e punito con la massima severità, gli allarmi sulla libertà di stampa appartengono per intero alla polemica politica: un giornalismo politicizzato a sinistra usa questo tema per attaccare un governo di destra. Credo che si possa serenamente passare oltre».
L’assegnazione del ruolo di commissario in Europa a Raffaele Fitto potrebbe rendere necessario un rimpasto: converrebbe allargarlo a qualche altro esponente per tonificare la compagine governativa?
«In astratto, un tagliando non sarebbe male. In concreto, proprio perché gli elementi di instabilità non mancano, credo che Meloni cercherà di evitarlo».
Quanto ci vorrà perché il centrodestra riesca a formare una classe dirigente all’altezza delle sue ambizioni?
«La carenza di classe dirigente del centrodestra è in parte legata al fatto che tutta l’Italia ne è carente e per un’altra parte al fatto che questo governo anomalo è estraneo ai circuiti dove per lo più in Italia si trova la classe dirigente. Poi c’è un’altra osservazione».
Dica.
«Ho l’impressione che questo governo abbia pescato da bacini molto stretti, quelli più prossimi. Invece, magari ci sono altri bacini limitrofi nei quali si può pescare bene. Infine, bisognerebbe pensare anche al futuro, a costruire le classi dirigenti dei prossimi 10-15 anni. Cioè a fare cultura, perché è facendo cultura che si costruiscono le classi dirigenti».
Se dovesse dare un consiglio non richiesto a Giorgia Meloni quale sarebbe?
«Il primo sarebbe di puntare su due o tre grandi provvedimenti che vuole siano caratterizzanti del suo governo o della sua azione politica anche nel partito».
L’autonomia differenziata e il premierato non lo sono?
«Lo sarebbero, ma siamo ancora in alto mare su entrambi. L’autonomia differenziata deve passare dalla carta alla realtà, e non mi pare che le idee siano chiarissime su questo passaggio. La via del premierato è ancora molto lunga e disseminata di trappole. Si tratterebbe di un provvedimento di certo molto qualificante per il governo, basterebbe da solo a giustificare la legislatura, ma per arrivare in fondo Meloni dovrebbe investire, e rischiare, un capitale politico consistente».
E il secondo consiglio?
«Un po’ l’abbiamo accennato: costruire una classe dirigente più ampia, che possa essere quella del centrodestra del futuro».

 

La Verità, 27 luglio 2024

Elly, Mattia e Greta a caccia del riflettore giusto

E tre. Dopo Greta e Mattia, ecco Elly. C’è una nuova icona dell’establishment di sinistra. Un nuovo astro. Un altro leader destinato a stregare la parte sana dell’opinione pubblica. La società civile, le piazze dei migliori e l’ecologismo mainstream ne sfornano uno ogni tre-sei mesi, secondo il bisogno. Elly Schlein arriva dopo Greta Thunberg e Mattia Santori ed è l’anello di congiunzione tra le sardine e il Pd, oltre che la più votata alle recenti consultazioni emiliano romagnole. Non ha fatto quasi in tempo a essere eletta con 22.000 preferenze per aver chiesto conto a Matteo Salvini dell’assenza della Lega ai tavoli europei sull’immigrazione, che è già vicepresidente regionale e in tutti i talk show radiotelevisivi. La sera del 28 gennaio, due giorni dopo il successo di Stefano Bonaccini, Lilli Gruber le ha tempestivamente regalato la ribalta di Otto e mezzo. Da lì non si è più fermata, rimbalzando, come un Santori qualunque, dall’Aria che tira a Omnibus e dovunque si parli di politica, in particolare su La7 che è sempre più l’organo ufficiale dell’ortodossia giallorossa. Del resto, la televisione, anzi, la visibilità, è la vera terra promessa dei nuovi puledri della sinistra di piazza e di palazzo (la medesima). Greta, Mattia ed Elly sono attratti dai riflettori dei media come dirigenti Rai dalla platea del teatro Ariston. E a loro volta sono un boccone prelibato dei conduttori all’ansiosa ricerca di testimonial e contenuti antisalviniani. L’attrazione è reciproca.

L’altra sera la capolista di «Emilia Romagna coraggiosa» ha sconfinato su Nove, ospite dell’Assedio di Daria Bignardi che l’ha accolta più garrula che mai. 34 anni (il doppio di Greta), nata a Lugano e trasferita a Bologna dove si è laureata con il massimo dei voti in giurisprudenza («Sono insicura e curiosa più che secchiona»), bisex («Ho amato molti uomini e molte donne, adesso sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta», ha rivelato tra gli applausi del pubblico assediato), una militanza più a sinistra che a destra del Pd, la dolce Elly non gradisce la definizione di «miss preferenze» e infarcisce la parlata di «innovazione», «complessità», «transizione», «sessismo», accompagnando il suo argomentare con una mimica manuale piuttosto assertiva. Qualche sera fa, guarda caso chez Gruber, tra una lamentela e l’altra per il maschilismo dell’ultimo Sanremo, Massimo Giannini ha detto che vorrebbe vedere Elly Schlein più protagonista nei media. Non ha fatto in tempo a finire la frase che il giorno dopo la vice di Bonaccini era già ospite del suo Circo Massimo, il programma che Giannini conduce su Radio Capital, l’emittente da lui diretta (non male come testata per un giornalista di sinistra). Anche lì Schlein ha ribadito il suo mantra – «Coniugare la lotta alle disuguaglianze con la transizione ecologica» – nel linguaggio prediletto dalle élite Ztl, sempre intercalato da un virile richiamo al «coraggio». Qualche giorno fa, Marianna Madia, altra ex enfant prodige della sinistra chic, l’aveva candidata alla presidenza del Pd, sarà contento Paolo Gentiloni.

Presidenza piddina a parte, prepariamoci a vederla e rivederla in tutte le posture possibili e immaginabili. Come insegnano le altre creature dell’establishment, la politica narcisistica dei millennials, partorita e incubata nei social media e nella cultura dei selfie, confina e sconfina ripetutamente nella società dello spettacolo come in un gioco di specchi che si autoalimenta continuamente. Ospite di Fabio Fazio che l’aveva invitato appena due mesi prima, Santori aveva appena finito di dire «abbiamo cercato di scomparire, ma non ci siamo riusciti», che è stato subito convocato da Myrta Merlino all’Aria che tira. Il titolo che ne esaltava la radiosa presenza era «Parla Mattia Santori». Quando mai ha taciuto?

Sembra una forma di teledipendenza. La politica coincide con la comunicazione, a prescindere dal fatto che si abbia qualcosa da comunicare. Il giorno prima, non si era capito a quale titolo, il capo sardina aveva incontrato il ministro per il Sud Giuseppe Provenzano, suggerendo di creare un Erasmus tra Nord e Sud. È così: la gente non arriva a fine mese, perde il lavoro e non mette al mondo figli perché teme di non farcela a mantenerli, ma le sardine propongono l’Erasmus verticale. Santa pazienza. Del resto, non è neanche tutta colpa loro. Finché il mondo adulto li accredita come nuovi oracoli del cambiamento e di un armonico futuro è difficile tenerli con i piedi per terra. Mettici poi l’attrazione dei riflettori e il disastro è completo.

È di questi giorni la notizia che la Thunberg, la ragazza che Time ha eletto personaggio dell’anno 2019 e che è già stata ricandidata al Nobel per il 2020, dedicherà la parte rimanente del suo anno sabbatico alla realizzazione di una serie tv. La simpatica Greta interpreterà sé stessa in una via di mezzo tra un documentario e un reality, nel quale la si vedrà mentre prepara discorsi da pronunciare nei consessi internazionali, incontra leader mondiali, verifica dati climatici. Lo ha annunciato il produttore esecutivo della Bbc, Rob Liddell, esultante per il «privilegio straordinario» di approfondire l’emergenza climatica potendo «avere una visione interna di come sia un’icona globale e una delle facce più famose del pianeta».

Bingo. Il passo successivo è l’approdo nel cinema, ma diamole tempo. Non si è «un’icona globale» per niente. La narrazione ha le sue leggi e le sue esigenze. E l’attrazione tra i nuovi astri del pensiero unico e i media mainstream è reciproca e totale. Speriamo solo che, vista la dipendenza, non sia un’attrazione fatale.

 

La Verità, 14 febbraio 2020