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«La surrogata altruistica è una trovata mainstream»

Aurelio Mancuso è uno dei leader, oltre che figura storica, del movimento arcobaleno italiano. Giornalista freelance, iscritto al Pd, fondatore e presidente di Equality Italia, associazione che vuole «rendere i diritti civili una proposta trasversale», ha scritto l’appello No Gpa (Gestazione per altri) sottoscritto da oltre 600 tra intellettuali, politici e amministratori locali soprattutto progressisti.

Mancuso, togliere il patrocinio ai pride vuol dire essere omofobi?

«Non significa tout court essere omofobi quanto, nel caso specifico, che la Regione Lazio avrebbe fatto bene a compiere le dovute e preventive verifiche. Ritirare il patrocinio perché non si è letto il documento di convocazione dell’iniziativa è un comportamento poco istituzionale. Ormai i pride sono manifestazioni tradizionali che travalicano chi li convoca e ai quali ragazzi e ragazze vanno come a una festa. Al presidente della Regione Lazio avrei consigliato di dare il patrocinio… Poi, certo, alcune cose contenute nel documento ha difficoltà a sostenerle anche un’istituzione governata dalla sinistra».

Dare il patrocinio vuol dire sostenere quella manifestazione, negarlo vuol dire essere omofobi e fascisti?

«Francesco Rocca è la stessa persona che da presidente della Croce rossa italiana ha cofinanziato una casa rifugio per ragazzi cacciati dalle famiglie perché omosessuali?».

Sì e lo rivendica e il pride si tiene anche senza patrocinio: la comunità arcobaleno non dovrebbe essere orgogliosa di non averlo?

«Esatto, il pride si fa lo stesso. Nelle democrazie europee e americane esponenti di destra e sinistra partecipano pur senza concordare con la totalità dei temi. Non è una manifestazione educata, ma per sua stessa natura maleducata. Mi auguro che oggi tanti ragazzi e ragazze partecipino. Altra cosa è ciò che pensano i suoi organizzatori».

Distinzione complicata: come si può dire viva il popolo del pride e abbasso i vertici?

«Io non dico abbasso i vertici. Chi organizza è colui che fa e, perciò, ha ragione. Non credo che le persone che ci vanno siano lì perché aderiscono integralmente al documento. Sarei curioso di sapere quanti tra i partecipanti l’hanno letto e sono consapevoli di ciò che contiene».

Lei oggi sfilerà?

«Da anni non lo faccio. Per non creare inutili tensioni con la mia presenza e preservare lo spirito di festa della manifestazione. Vorrei soprattutto che questi temi, che sono divisivi, fossero finalmente discussi nella comunità Lgbt».

Invece?

«C’è un rifiuto a confrontarsi. Chi non la pensa esattamente come i promotori viene etichettato come fascista e omofobo. E per me è davvero troppo».

C’è uno stigma anche tra voi?
«Se si eccettua Arcilesbica che è bersagliata tutti i giorni, sono l’unico omosessuale noto e che ha avuto un ruolo nel movimento a esprimere pubblicamente una posizione critica. Però non voglio fare uno contro tutti. Su molte delle questioni c’è accordo, mentre non c’è sull’autodeterminazione di genere, la Gpa e la prostituzione».

Che cosa pensa del linguaggio del documento del pride?

«Ne avrei usato un altro. Alcune questioni marginali venti o trent’anni fa ora sono diventate centrali. Chi un tempo non era protagonista oggi lo è».

Lei come l’avrebbe scritto?

«Mettendo in primo piano i diritti concreti e riconoscibili che vogliamo. Le unioni civili o il matrimonio egualitario, la riforma della legge sulle adozioni e della legge 164/82 sull’attribuzione del sesso, le norme di contrasto all’omofobia e all’omotransfobia. Temi presenti, ma talmente conditi di visioni e distinguo da risultare confusi».

Lo scontro è soprattutto sull’utero in affitto: la comunità Lgbt non vede la violenza di questa pratica?

«È un passo avanti che si evitino espressioni come maternità surrogata e utero in affitto. Forse si sta iniziando a riconoscere che sono pratiche disumane, che sfruttano le donne e trattano i bambini come oggetti. Tuttavia, anche parlare di Gpa altruistica e gratuita senza condannare queste pratiche è ultimamente ipocrita. La Gpa altruistica è un’invenzione del mainstream».

In che senso?

«Nel senso che non chiarisce che i bambini non si possono né comprare né vendere, ma nemmeno si possono donare o regalare. Anche la Gpa altruistica tratta il bambino come un oggetto a disposizione degli adulti, mentre è un soggetto».

La comunità Lgbt non si avvede della strumentalità di chiedere prima l’ovocita da una donna e poi di noleggiare l’utero di un’altra a pagamento?

«A me pare che non ci sia nessuna riflessione su questo tema. Prevale la volontà di dare una risposta al desiderio di adulti, trasformato erroneamente in diritto, di avere un bambino. Bisogna essere chiari: stiamo parlando al 90% di coppie etero e al 10% di coppie omosessuali. Ciò significa che parliamo di un tema molto marginale che solleva questioni etiche delicatissime ma che, riguardando persone con buone possibilità economiche per ricorrere a queste pratiche, coinvolge ristrettissime nicchie».

Molte sigle femministe internazionali approvano la proposta di legge italiana appena presentata di rendere l’utero in affitto reato universale.

«Il nostro appello No Gpa ha raccolto oltre 600 firme di intellettuali e personalità pubbliche contro la Gpa. È un reato che dovrebbe essere definito universale per ciò che avviene nel Terzo mondo, per la commercializzazione e lo sfruttamento sia del bambino che delle donne. Appellandoci alla risoluzione del 2015 del Parlamento europeo e ai pronunciamenti dell’Onu pensiamo si debba arrivare al bando internazionale di questa pratica. Molte persone che hanno firmato il nostro appello sostengono la legge in discussione in Parlamento, altre no. Abbiamo ricercato una sintesi, rispettando l’opinione di tutti. Probabilmente la legge sarà approvata, ma io rivolgo altre due richieste a Giorgia Meloni…».

Quali?

«La prima: eliminare le discriminazione dei bambini che non possono essere trattati come un pacco postale; cioè, se arrivano in Italia non si possono rispedire indietro. La seconda: se è d’accordo con la modifica della legge sulle adozioni allo scopo di accelerare i tempi. Qualcosa in questo senso è stato fatto con l’equiparazione delle adozioni speciali a quelle normali, ma si può fare ancora di più».

La prossima settimana l’utero in affitto sarà in discussione a Strasburgo. Visto che il Pd dice che la questione va risolta in Europa, perché questa discussione non l’hanno chiesta i democratici ma i conservatori?

«È evidente un certo imbarazzo da parte del Pd e non solo sul tema. Però quella discussione sarà un banco di prova evidente: la surrogata è una pratica da mettere al bando in tutto il mondo o no? Su questo si dovranno pronunciare. Vedremo come andrà a finire».

Perché su questi temi il Pd è in forte imbarazzo?

«Al netto di ciò che dicono i segretari di turno, non solo Elly Schlein, nel Pd ci sono posizioni differenti. Grazie al nostro documento è finalmente chiaro che tanta parte del Pd è contraria all’utero in affitto. Perciò, se non vuol essere il passacarte del movimento Lgbt, il partito deve aprire quella discussione che finora non ha voluto fare. Chi aveva posizioni critiche non riusciva a farsi ascoltare su questo tema. Negli ultimi anni non ho mai ricevuto un invito da una sezione del Pd, mentre ne ho ricevuti da associazioni esterne al partito».

Come giudica il fatto che nelle interviste Elly Schlein rifiuta le domande sulla surrogata e i diritti Lgbt?

«Una segretaria che si è esposta personalmente sbaglia a eludere le domande sull’argomento. Nel Pd esiste da anni un tavolo permanente di discussione con la comunità Lgbt. Purtroppo, da quando ho messo in discussione il ddl Zan non sono più stato invitato. Mi auguro che Schlein cambi questa pratica antidemocratica dentro un partito che si chiama democratico».

Che cosa indica il fatto che negli ultimi due anni l’acronimo arcobaleno è raddoppiato, da Lgbt+ è diventato Lgbtqiak+, da quattro lettere a otto?

«Il continuo allungarsi dell’acronimo è indice di confusione culturale e divisione. Non si possono declinare tutte le identità e aspirazioni, mettendole sullo stesso piano. Molte specificità non sono nemmeno rappresentabili in quelle otto lettere. Se si vogliono nominare tutte le identità si finisce per annullare tutte le identità».

Perdoni l’ignoranza, che identità rappresenta la lettera I?

«Le persone Intersex, che nascono con apparati genitali non del tutto definiti. La richiesta è di non essere soggetti già alla nascita alla scelta del sesso, ma aver tempo di decidere. Ovviamente, parliamo di una minuscola minoranza, tuttavia soggetta a grandi sofferenze».

E la lettera A?

«Dovrebbero essere gli asessuali o gli asessuati o gli aromantici, mi sono perso anch’io. Chiunque siano, mi domando quale diritto legislativo chiedano».

Nel documento del Roma pride si parla dei «comportamenti kinky» specificando il rifiuto della contestazione «degli scambi di potere consensuali»: cosa significa?

«Sebbene sia allenatissimo nell’interpretazione di queste formule, questa parte risulta criptica anche a me. Auspico che venga chiarita meglio. Il tema del rapporto di potere tra i sessi è delicatissimo».

È sbagliato pensare che l’espressione «scambi di potere consensuali» celi un’apertura ai rapporti pedofiliaci?

«In un passaggio si parla di bambini arcobaleno che sfilano vicino a coloro che usano strumenti sadomaso. Sono nettamente contrario alla pedofilia. È uno stigma che negli anni è stato erroneamente affibbiato all’omosessualità. Il documento è così nebuloso che attendo chiarimenti. Sono sicuro che nessuno voglia aprire il minimo spiraglio a questo tipo di crimini».

Un altro punto è l’insistenza sulle identità alias che si vorrebbero riconosciute nelle scuole, nei posti di lavoro, nell’esercizio del voto…

«L’autodefinizione di sé è un tema che non riguarda solo l’Italia. In tanti Stati dove si è liberalizzato, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ora si sta tornando indietro perché ci si è accorti dei tanti problemi che comporta, per esempio, nelle competizioni sportive. Mi spiace che anche questo tema venga affrontato con una certa brutalità. Il problema esiste, ma le soluzioni arrivano solo alla fine di un confronto sociale e culturale approfondito. Solo a questo punto si può giungere a una normativa corretta e rispettosa di tutte le componenti».

 

La Verità, 10 giugno 2023

«La 194 va abolita, l’aborto non è un diritto naturale»

Pochi se e pochi ma, Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia e San Remo, è abituato a lanciare il sasso in piccionaia per non lasciar scorrere gli eventi senza far sentire una voce della Chiesa. Lo ha lanciato anche in occasione delle ultime edizioni del Festival della canzone italiana che ha sede nella sua diocesi. Nei giorni scorsi, invece – sempre fedele al consiglio evangelico «il vostro parlare sia “sì, sì, no, no”» – si è pronunciato in favore della sentenza della Corte suprema americana che rimette ai parlamenti dei singoli Stati la decisione circa l’applicazione della legge sull’interruzione della gravidanza.

Eccellenza, perché ha così apprezzato la sentenza dei supremi giudici americani?

«Per tre fondamentali motivi. Il primo risale a quand’ero un giovanissimo seminarista liceale e in Italia si scatenò il dibattito che precedette il referendum che portò all’approvazione della legge sull’aborto. Ricordo i vescovi di allora, il giornale Avvenire, i parroci e la chiarezza di papa San Giovanni Paolo II su questo tema. Perciò è un argomento che giudico di tragica attualità e di una certa decisività, in ordine alla morale cattolica e al contributo che la Chiesa deve dare alla civiltà».

E gli altri motivi?

«Ho una grande stima del movimento Pro-life americano che con questa sentenza ha ottenuto una importante vittoria. Infine, credo che l’indifferenza in cui è caduto il dramma dell’aborto richieda invece che lo si riproponga e lo si affronti da tutti i punti di vista, compreso quello giuridico».

Con questa sentenza saranno i cittadini dei singoli Stati americani a decidere: non teme che questo creerà nuove disuguaglianze?

«Sì, ma non è l’aspetto principale della sentenza. Il suo valore sta nell’aver cancellato un’acquisizione giuridica indebita e cioè che l’aborto sia un diritto costituzionale».

Si potrà creare un turismo dell’interruzione della gravidanza sostenibile solo dalle famiglie più agiate?

«È un effetto collaterale che a mio parere non influisce sulla portata della sentenza».

Come le pare che la Chiesa italiana l’abbia accolta?

«Penso e spero con grande soddisfazione. Dal mio punto di vista ho ritenuto di manifestare questa soddisfazione per incoraggiare tutte le persone di buona volontà o che militano nei movimenti che promuovono e sostengono la vita, persone che, sia come credenti che anche da non credenti, hanno un giudizio autentico sulla vicenda».

È stato uno dei pochi esponenti della gerarchia a esprimersi pubblicamente o sbaglio?

«A quanto mi risulta non si sbaglia».

Come se lo spiega?

«Molti temono che l’argomento possa essere divisivo. Personalmente penso che di fronte a un valore non negoziabile, come si diceva un tempo, si possa e si debba preferire la chiarezza delle posizioni al pericolo della sua divisività».

Ha auspicato che quella sentenza «faccia scuola anche in Italia»: in che modo?

«Innanzitutto promuovendo una riflessione sempre più approfondita sull’argomento. Una riflessione impegnata e concentrata non tanto sui diritti individuali quanto sulla sacralità e sulla dignità della vita umana. Perché qui sta l’equivoco: l’aborto non è un diritto, ma si configura come un omicidio perché è la soppressione illecita della vita umana. È su questo che bisogna ragionare».

Auspica un approfondimento della riflessione o la realizzazione di atti concreti?

«A partire dalla riflessione stimo e auspico conveniente arrivare a una cancellazione della legge 194.

Addirittura.

«Certamente. È una legge che annuncia finalità tanto buone quanto velleitarie».

Perché velleitarie?

«Perché al dettato legislativo non corrispondono autentiche politiche di tutela della maternità e di promozione della vita».

È un giudizio molto pesante, davvero ci sono solo buone intenzioni?

«È una legge intrinsecamente negativa perché legittima l’uccisione di un essere umano nel grembo della madre».

Lei vuole scatenare un putiferio con i movimenti femministi.

«Con buona pace delle femministe l’aborto è ciò che abbiamo detto. La prima forma di carità, solidarietà e rispetto verso tutti è dire la verità. È di tutta evidenza che l’aborto è la soppressione di un essere umano».

Torniamo al dibattito di quarant’anni fa?

«Lei si riferisce all’aborto che, se non regolato dalla legge, è confinato alla clandestinità?».

Mi riferisco al fatto che lo si ritiene un progresso acquisito, un traguardo raggiunto per sempre.

«I termini che lei usa non li ritengo adeguati. Per me non è né un traguardo né un esempio di progresso. Anzi, lo considero una vergogna rispetto all’umanità».

Fior di biologi, antropologi e giuristi considerano l’aborto un diritto naturale inalienabile.

«È una posizione che non condivido. Per me diritto naturale inalienabile è quello alla vita del concepito e mi domando come si possa ritenere diritto inalienabile la scelta di un individuo che comporti la soppressione di un altro essere umano».

Tornano a contrapporsi un’ideologia in difesa del diritto all’aborto e un’altra in difesa del diritto alla vita del nascituro?

«Diciamo che non si possono considerare due ideologie simmetriche. La difesa del diritto del nascituro a vivere è un’affermazione del diritto naturale antropologicamente corretta. Se si afferma che in una tale situazione l’uomo può essere soppresso, oltre a legittimare un omicidio, si apre una voragine sterminata di abusi contro la dignità dell’uomo. Viceversa considero vera e propria ideologia, talvolta anche espressa in forme violente, quella degli abortisti che non avendo ragioni scientifiche valide ricorrono a pressioni di tipo ideologico».

C’è chi osserva anche da posizioni cattoliche che la depenalizzazione dell’aborto è stato un diritto fondativo del movimento femminista.

«Purtroppo, storicamente è vero. Ma rimane un dato sbagliato e incompatibile con la fede cattolica».

Lucetta Scaraffia sottolinea che non può essere considerato un diritto naturale perché coinvolge anche un’altra persona, cioè il padre.

«È un’osservazione vera, ma debole e insufficiente in quanto, più che ledere il diritto del padre, lede il diritto fondamentale alla vita del nascituro».

Se lo chiamiamo nascituro vuol dire che non è ancora protagonista di una vita piena?

«No, la vita piena è dal concepimento. Non sono le fasi della vita a determinarne la dignità, ma è la sua dimensione ontologica a farlo. Altrimenti si aprirebbe una gamma infinita di eccezioni».

È proprio la prospettiva verso la quale stiamo andando?

«Purtroppo».

Come per esempio nei casi di suicidio assistito?

«Esattamente».

Come giudica il fatto che quando si torna a parlare di questi argomenti si alza un coro che proclama l’intoccabilità della legge 194?

«Di fatto siamo esposti a una forma di dittatura ideologica».

Le posizioni ideologiche complicano la gestione di un tema delicato. Se lo Stato e i vari corpi intermedi fossero più impegnati nei servizi di accoglienza alla vita molte problematiche si potrebbero risolvere?

«Affermare i principi è necessario e doveroso. Altrettanto importante è che le affermazioni siano accompagnate e sostenute da atti di accoglienza e solidarietà a tutti i livelli dello Stato e dei corpi intermedi. Le iniziative del Movimento per la vita impegnato non solo nelle enunciazioni, ma anche nell’aiuto concreto nelle situazioni di difficoltà di madri e famiglie, sono già un esempio di questa condivisione».

Molti lamentano che in tanti ospedali pubblici troppi medici obiettori di coscienza rendono inapplicabile la 194.

«È uno dei tanti segni che l’aborto non può essere affermato come lecito».

La liceità è affermata da una legge seguita a un referendum.

«Io parlo della liceità morale, che è superiore a quella della legge».

Auspica un maggior protagonismo della gerarchia e dei cattolici su questi temi?

«So che nella Chiesa sono in buona compagnia. Anche di recente papa Francesco ha ribadito il giudizio della Chiesa sull’aborto. Queste riflessioni sono scritte nel catechismo, nella sana teologia e nei pronunciamenti di molti pastori. Poi le modalità dipendono dalla sensibilità e dal discernimento di ciascuno».

Non è una battaglia di retroguardia ridiscutere l’interruzione di gravidanza?

«È una battaglia di fede e di civiltà che dobbiamo combattere pacificamente. Con la buona ragione, con la preghiera, con la testimonianza del vangelo e favorendo una cultura della vita a 360 gradi».

Lei si espone spesso su temi etici e civili come per esempio sul disegno di legge contro l’omotransfobia. Pensa che i cattolici debbano avere una funzione critica della cultura dominante?

«È una questione di responsabilità che personalmente avverto. In proposito cito spesso il profeta Isaia che rimprovera in nome di Dio i pastori del popolo d’Israele chiamandoli “cani muti” quando, di fronte al pericolo e alla menzogna, non lanciano l’allarme».

Dove vede questo pericolo e questa menzogna oggi?

«Nella mentalità dominante che tende a livellare e appiattire tutto in un orizzonte di esasperata libertà individuale».

Perché in occasione del Festival di Sanremo ha a criticato le esibizioni più trasgressive?

«Perché erano irrispettose dei simboli del cristianesimo. L’ho fatto per dare voce a tutte le persone che si sentivano offese da quelle esibizioni, fintamente trasgressive. E per esprimere una parola chiara rivolta soprattutto a persone giovani che possono essere indotte al male da messaggi sbagliati».

I media e il mondo dello spettacolo parlano un’altra lingua: è ottimista riguardo all’efficacia dei suoi pronunciamenti?

«Sono assolutamente ottimista perché i pensieri che cerco di dire a voce alta sono radicati nel cuore di tante persone, molte più di quelle che le statistiche della cultura dominante registrano. Ma soprattutto sono ottimista perché credo nella bellezza e nella forza della verità e nella potenza salvifica di Dio».

 

La Verità, 2 luglio 2022

«Il politicamente corretto? Mi faccio una bella risata»

Mercoledì 23 giugno, ore 16,30.

Buonasera, signora Aspesi. Stamattina le ho mandato un messaggio…

«Sì, ha ragione. Ma non capisco perché vogliate intervistare una citrulla ex comunista come me».

Perché abbiamo stima dell’intelligenza e della curiosità.

«O perché volete farmi dire qualcosa contro i vostri avversari?».

Dirà quello che vuole.

«Ma il vostro giornale a dispetto della testata scrive solo bugie».

Tipo?

«Non starò a fare l’elenco. E poi si sa che i giornalisti inventano. Solo noi bacucchi fedeli al giornalismo ci atteniamo ai fatti».

Lei è la Regina madre del giornalismo. Se si fida di un semplice suddito, l’accompagnerò per mano e credo che alla fine si divertirà.

«Non sarà mica una cosa a sfondo erotico».

Si sa dove si comincia non dove si finisce.

«Adesso non posso perché sto scrivendo la rubrica per il Venerdì di Repubblica».

Imprescindibile.

«Mi chiami domani».

Giovedì, 24 giugno, ore 12.

Buongiorno signora, avevamo un appuntamento.

«Ha ragione, ma oggi è il mio compleanno, sono subissata…».

Allora auguri. Come festeggerà?

«In casa di amici. Faremo festa in terrazza, sono piena di fiori, ma non ho più vasi dove metterli».

Quale desiderio esprimerebbe in questo giorno?

«Vorrei andare alla Rinascente a comprarmi delle mutande, molto caste. E cose per la cucina, piatti, posate. La casa mi piace moltissimo».

Aveva detto che ci sarebbe andata finito il lockdown.

«Non ce l’ho ancora fatta perché mi stanca stare in piedi. Però adesso, tra molti regali, ne ho ricevuto uno bellissimo dal mio ex direttore Mario Calabresi. È un oggetto che si usa come un bastone e si tramuta in un seggiolino. Lo usano i giocatori di golf. Fantastico».

Le sono pesate le restrizioni?

«No, esco comunque pochissimo. Ricevo i film sul computer, volendo potrei non uscire mai. Ho sperimentato che stare sola alla mia età è bellissimo. Mi occupo solo di me, se non mi rompono le scatole i giornalisti».

Preferirebbe andare a cena con Mario Draghi, Al Pacino o Papa Francesco?

«Ovviamente con Draghi, un uomo meraviglioso da vedere».

Perché lo apprezza tanto?

«Mi piace che parli il necessario, come la Merkel. E che, sconvolgendo tutti, pur essendo considerato di destra, faccia politiche di sinistra. Se durasse potrebbe essere la salvezza del Paese, lo dico da ex comunista».

Da quando lo è?

«Da quando il comunismo non c’è più. In Cina, a Cuba… E neanche nello Stato di Kerala, in India».

Segno dei tempi?

«Nulla avviene per caso. Forse è il segno che la gente è diventata più egoista. Siamo disposti a fare la qualunque per un nuovo cellulare. Il mondo è peggiorato e quindi non si può più pensare al comunismo».

Che qualche danno l’ha fatto, da parte sua.

«Da noi no. Dobbiamo distinguere tra tirannia e comunismo. In Italia c’è stato un po’ di comunismo negli anni Settanta, che grazie a Dio ci ha portato lo statuto dei lavoratori. Della Russia non m’importa. Quella era una dittatura, tant’è che non c’era libertà di parola. Anche adesso, che non c’è il comunismo ma è al potere un ex dirigente del Kgb, i russi se non sono mafiosi stanno male».

È contenta che possiamo togliere la mascherina?

«Per me cambia poco perché esco raramente, data la decrepitezza. Alla mia età la mascherina dà fastidio.  Si sono sentite previsioni disperate di povertà. Invece, martedì volevo andare al ristorante con degli amici, ma non siamo riusciti a trovare un posto. Spero che i ristoratori paghino le tasse… A questo punto, i suoi lettori saranno disperati».

Sono opinioni sue. Si aspettava di finire nel mirino delle neofemministe?

«Direi di no, visto che sono più femminista di loro».

Che cosa le rimproverano esattamente?

«La mia generazione ha combattuto battaglie autentiche come la patria potestà, il divorzio, l’interruzione della gravidanza. E, con l’aiuto del Parlamento perciò anche degli uomini, le abbiamo vinte. Le femministe di oggi dovrebbero continuare, mentre vedo che si perdono sull’essere fluidi o binari, cose così».

Le rimproverano di aver scritto che è colpa anche dell’intransigenza islamica se Saman è finita male?

«La parola corretta non è colpa, ma responsabilità. Conosco l’islam solo in generale. So che in Pakistan il matrimonio forzato è reato. Perciò penso che questo delitto non sia dettato dalla religione ma da un clan. In Italia ci sono 150.000 pakistani e questa è la prima volta che accade. Mentre nelle famiglie italiane ammazzare le donne è normale».

Tra i pakistani non mi risulta sia la prima volta, quanto all’Italia è un crimine.

«Il delitto d’onore che consentiva ai mariti di ammazzare le mogli se traditi è stato cancellato solo nel 1981. In ogni Paese meraviglioso, compreso il nostro, resistono comportamenti orribili. Siamo troppo ignoranti per parlare di cattolicesimo e islamismo».

Le femministe le rimproverano di aver scritto che anche le mamme a volte uccidono?

«Ci sono processi e condanne. La madre di Cogne, la madre di Loris, in provincia di Ragusa, quella di Cosenza… L’infanticidio c’è sempre stato e c’era ancora di più finché non è arrivato l’aborto».

Resta da vedere se sia anch’esso soppressione di una vita umana.

«L’aborto è legge dello Stato, non riapriamo questa discussione».

Il femminismo storico mirava all’emancipazione della donna mentre quello di oggi si occupa soprattutto di questioni linguistiche?

«Penso che le donne abbiano ancora battaglie importanti da fare. È sbagliato limitarsi a protestare perché un uomo ci ha detto: “Stai zitta”. Basta replicare: “Stai zitto tu”. Non c’è più questa disparità. Quando avevo vent’anni e qualche maschione m’importunava per strada, mi arrestavo: “Lei ce l’ha troppo piccolo per infastidirmi”. Restavano terrorizzati e non mi seccavano più».

Ci si occupa di desinenze e di linguaggio schwa.

«Sono amenità. Amo l’italiano, che è una lingua meravigliosa da scrivere e da leggere. Dante non si occupava di queste cose. E anche oggi non lo fa nessuno, tranne due o tre invasati».

Però nei documenti pubblici si scrive genitore 1 e genitore 2.

«Abbiamo appena finito di dire che madri e padri uccidono i loro figli. Guardi anche quel bambino ritrovato in una scarpata del Mugello: voglio proprio vedere cosa viene fuori… Magari se aveva due papà o due mamme non capitava. Io sono cresciuta senza padre, tirata su da una madre e una zia, e sono cresciuta credo normale, per lo meno non infelice».

Perché scrivere padre e madre è discriminatorio?

«Sono sottigliezze inutili. Conta che ci siano buoni genitori. Se uno adotta un bambino è genitore di uno che non ha fatto lui. Se conta l’amore un bambino può essere cresciuto da tre zie o quattro fratelli».

Meglio da un padre e una madre. Secondo lei c’è troppo antagonismo tra i sessi?

«A volte manca la capacità di condividere le ragioni per essere una famiglia. Dopo un po’ la passione può diminuire, ma si continua ad amare quella persona perché è il padre dei tuoi figli, perché insieme si è costruito qualcosa di grande. Nel tempo, queste motivazioni contano più dell’essere innamorati. A volte mi sembra che questa responsabilità difetti e gli uomini vadano avanti per la loro strada».

Parlando del suo ruolo nel prossimo 007, l’attrice inglese Lashana Lynch ha detto che stiamo superando la mascolinità tossica.

«Cosa ce ne frega di un’attrice inglese, non stiamo mica parlando di Freud».

Anche Michela Murgia la usa spesso.

«Che brutte cose legge. I mariti che ammazzano figli e mogli non esprimono una mascolinità tossica?».

Cosa c’entra? Quelli sono squilibrati arrestati e condannati. Mascolinità tossica riguarda l’intero sesso maschile.

«È un discorso che non m’interessa, voglio parlare di argomenti importanti non di queste cagate».

Ha ripreso ad andare al cinema?

«Non me la sento ancora. Sono stata in Salento a riposare. Non so se ci andrò più, preferisco leggere i classici».

Gabriele Salvatores dice che il politicamente corretto ingabbia la libertà d’espressione.

«Non ci vuole Salvatores per dirlo. Il politicamente corretto mi fa ridere, io sono scorrettissima. In America c’è il puritanesimo, mentre in Italia per fortuna siamo cattolici e i peccati ci vengono perdonati».

Le tante minoranze stanno diventando troppo intransigenti?

«Basta non ascoltarle. Io sono molto insultata nei social, ma me ne frego e continuo a scrivere quello che voglio, nei limiti della legge».

Cosa pensa del fatto che Franco Nero ha chiamato Kevin Spacey nel film che sta girando a Torino?

«Penso che Spacey sia un bravissimo attore».

Discriminato dal #metoo?

«Non m’interessa. Rivederlo in un film, sia pure di Franco Nero, mi farà piacere».

Cosa l’aiuta a mantenere questa vivacità intellettuale?

«La curiosità mi ha consentito di lavorare pur non avendo studiato. Anche da bambina acquistavo le riviste femminili e collezionavo le foto delle attrici. La mamma mi accompagnava al cinema. Ho sempre desiderato uscire dalla mia vita e occuparmi della realtà. Leggo ancora quotidiani e settimanali stranieri, libri americani e inglesi. Da ragazza, facendo la cameriera a Losanna e a Londra ho imparato il francese e l’inglese, e la sera andavo a scuola. È stato un periodo divertente, con molti fidanzati».

Quando è scoccata la scintilla del giornalismo?

«Tornata a Milano, un ex fidanzato che lavorava alla Notte, ricordando le mie lettere, mi suggerì di provare a scrivere e mi mandò a una mostra di cani a Bellagio: “Tanto alla Notte pubblicano tutto”».

E da lì…

«Ho capito che scrivere mi piaceva. Provenendo da una famiglia miserevole il massimo dei miei sogni era lo stipendio per potermi comprare le calze anziché usare quelle smesse da mia sorella. Ho iniziato a scrivere per scherzo».

E ha proseguito sul serio. Le dispiace non aver avuto figli?

«Tutt’altro. Non li ho voluti. Intanto, non mi piacciono i bambini. Poi non so se sarei stata una buona madre e se avrei amato talmente i figli da non lavorare più. Ma lei deve riempire tutto il giornale?».

Siamo alla fine, le piace Enrico Letta?

«Mmmh, non posso dire che lo adoro. È una brava persona, ma sono stanca delle brave persone. Preferisco persone che incidano, anche se oggi la politica non conta nulla. Contano solo Amazon e queste cose qui. La grandiosità dei consumi decide tutto. È anche inutile dirsi di destra o di sinistra».

Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?

«Purtroppo nulla perché la sinistra non c’è più. È stato un bel sogno, il sogno di aiutare la gente, di essere insieme, un po’ come il cristianesimo. Era una forma laica di religione. Oggi siamo sotterrati dalla finanza e dal consumismo. E ci dobbiamo barcamenare tra centro, centrodestra e destra estrema… Basta, sono stanca».

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La Verità, 26 giugno 2021