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«Nel cinema italiano c’è troppo assistenzialismo»

Manager di lungo corso e da vent’anni vicepresidente e amministratore delegato di Medusa Film, Giampaolo Letta è apprezzato a 180 gradi nel mondo del cinema anche per il suo equilibrio.
Giampaolo Letta, ci sarà mai pace per il cinema italiano?
«Spero di sì, ma da quando ci lavoro, ormai 26 anni, non c’è mai stata tregua. Anche guardando più indietro, constato che l’espressione “crisi del cinema italiano” ha mezzo secolo di vita. Poi, però, il nostro cinema è sempre vivo e vegeto».
Eppure inquietudine e conflittualità lo attraversano: per quali motivi?
«Uno è molto semplice: quando usciamo dalle sale, qualcuno ha visto un capolavoro, qualcun altro una boiata pazzesca. Il cinema in sé fa discutere. Più in profondità, è un’espressione culturale, che necessita di importanti risorse economiche, che coinvolge nel dibattito chi lo fa, investitori, produttori, artisti. E, ovviamente, la politica; perché, in particolare negli ultimi decenni, i contributi di denaro pubblico sono spesso determinanti per la realizzazione delle opere».
Negli anni di Federico Fellini e Vittorio De Sica, di Dino Risi e Mario Monicelli c’era la stessa conflittualità?
« Io non c’ero, quella era un’epoca totalmente diversa, un altro mondo. Si vendevano 800 milioni di biglietti l’anno, c’era un solo canale televisivo e usavamo diversamente il tempo libero».
Oggi quanti biglietti si vendono all’anno?
«Prima della pandemia, circa 100 milioni. Adesso stiamo risalendo, circa 75 milioni».
L’ideologia favorisce la creatività e la produzione artistica?
«Secondo me, assolutamente no. Noi di Medusa lavoriamo per cercare, trovare e realizzare storie che interessino il pubblico in modo che lo spettatore sia motivato a uscire di casa, prendere un mezzo, comprare un biglietto e restare in una sala un paio d’ore. L’ideologia rischia di oscurare le storie. Dopo la pandemia il cinema ha ripreso, ma fatica a raggiungere i livelli di prima. Oggi, la gente per convincersi ad andare al cinema dev’essere fortemente motivata dalla qualità delle storie».
C’è un prima e dopo pandemia del cinema?
«Certo. Il pubblico si era abituato a stare a casa, perciò dobbiamo lavorare molto sulla qualità delle opere. Le aspettative degli spettatori si sono alzate perché in quegli anni hanno visto dal divano prodotti di alto livello. Cercare di non deluderli è una sfida molto impegnativa ma imprescindibile».
Perché il cinema è territorio quasi esclusivo della cultura progressista?
«Siamo sicuri che sia così? Io ne dubito. Bisogna vedere i film, al di là di chi li realizza. Forse questo concetto è inquinato dal fatto che un regista o un produttore sia considerato di sinistra, ma alla prova dei fatti non mi pare di vedere film o serie tv militanti».
È arduo trovare dieci prodotti alternativi al pensiero mainstream, drogato anche dal politicamente corretto.
«Capisco, ma attenzione a non confondere l’appartenenza degli autori con il risultato dell’opera. Per fortuna, in Italia siamo, almeno per ora, meno prigionieri del politically correct rispetto ai Paesi anglosassoni, dove gli algoritmi rischiano di mortificare eccessivamente la creatività».
Carlo Verdone ha parlato anche di recente d’inquisizione del politicamente corretto.
«Nella comicità è ancora più limitante e pericoloso. Con l’invadenza dei social basta niente per scatenare mille leoni da tastiera che possono condizionare la comunicazione più del dovuto, compromettendo il lavoro di tante persone».
Perché in Italia si producono così tanti film?
«I numeri vanno analizzati con precisione. È importante. Recentemente sono stati comunicati in modo superficiale e fuorviante.   Delle famose 354 opere prodotte nel 2023 solo 156 sono film di finzione, mentre 106 sono documentari e 92 coproduzioni con soggetti internazionali. Sul “banco degli imputati” restano 156 film. Anche sul volume di fondi pubblici bisogna precisare: i 700 milioni di tax credit riguardano l’intero comparto audiovisivo, film per le sale e per le piattaforme, serie per la tv e per il web. Se parliamo di costi di produzione, invece, si toccano 1,3 miliardi d’investimenti che danno lavoro a 200.000 persone, tra occupati diretti e indiretti. Poi ci sono le produzioni internazionali realizzate in Italia, altri 700 milioni di investimenti nel settore, per un totale di circa 2 miliardi l’anno. Infine, c’è un altro effetto collaterale».
Quale?
«Le ricadute sui territori, tra cui il cosiddetto cineturismo. Per esempio, il nostro Un mondo a parte, diretto da Riccardo Milani, ha prodotto un forte incremento di turismo nel Parco nazionale d’Abruzzo, con escursioni e turismo gastronomico. Un euro investito nell’audiovisivo genera, a seconda delle analisi indipendenti che sono state fatte negli anni, tra i 2,5 e i 3,5 euro. Tutto questo produce una serie di effetti economici collaterali molto rilevanti. Quando si parla dei contributi pubblici si pensa che siano a fondo perduto, ma non è così».
Nessuno vuol misconoscere il valore economico del cinema, ma ci si chiede se oggi in Italia ci sia più offerta che domanda?
«Premesso che nessuno possiede la sfera di cristallo per prevedere l’andamento di un film, produrne meno non garantisce automaticamente film con più successo. Discriminante è la qualità».
Se la domanda di cinema è inferiore all’offerta significa che c’è una bolla produttiva: su cosa si regge?
«Indubbiamente, negli ultimi anni si è prodotto molto. L’impulso è venuto dalla forte domanda di piattaforme e televisioni. E, non dobbiamo negarlo, anche dal sistema di incentivi fiscali che, in una fase molto critica del mercato, ha consentito importanti volumi di produzione, anche attraendo investimenti dall’estero. Limitandoci al cinema – anche le serie non vanno tutte bene – c’è sempre stato un certo numero di film che va male o malissimo. Ma dobbiamo contestualizzare: quando citiamo titoli rimasti in sala un giorno o due, consideriamo che possono essere stati prodotti per le piattaforme. Non sono tutti film “fantasma”».
Dubito che Accattaroma di Daniele Costantini o L’altra via di Saverio Cappiello si riscatteranno sulle piattaforme.
«Bisogna distinguere le tipologie: non possiamo dire che va tutto bene, ma nemmeno che va tutto male. Il tax credit non è equiparabile al bonus 110 dell’edilizia, come qualcuno ha provato a dire».
La riduzione delle sale cinematografiche complica le strategie produttive?
«Il calo non è così elevato. A fronte di alcune chiusure, abbiamo registrato riaperture e riqualificazioni importanti. Anche in questo segmento della filiera il discrimine è la qualità: oltre al film, il pubblico sceglie anche la sala in cui si trova bene».
Un certo mondo intellettuale, autoriale e artistico, è poco sensibile alle regole del mercato?

«Non so se poco sensibile sia il termine giusto. Nella mia esperienza ho visto che il successo di pubblico piace anche a quelli che potevano sembrare più indifferenti. Per un regista, uno sceneggiatore o un attore la sala piena e l’applauso sono la migliore ricompense».
Da produttore è difficile dire no alle proposte di certi registi?
«È sempre difficile, a volte molto, dire no. Di base, c’è il rispetto per il lavoro altrui. Dietro ogni sceneggiatura c’è un lavoro di persone che merita attenzione, indipendentemente dal fatto che si tratti di un grande autore o di un esordiente».
Che cos’ha pensato quando ha visto le tabelle che documentano i fondi pubblici a film con incassi infinitesimali?
«Ci sono molte sfaccettature. Anzitutto bisogna distinguere le risorse che vengono utilizzate con il tax credit e quelle che vengono assegnate con contributi selettivi deliberate dalla commissione ministeriale. La quale ha molta responsabilità perché si tratta di soldi pubblici. Siccome nella nuova impostazione i contributi selettivi sono raddoppiati rispetto a prima, mi permetto di rimarcare che per scegliere i nuovi commissari, come anticipato dal ministro Alessandro Giuli, serve grande attenzione alla competenza. Infine, non deve valere solo il criterio economico di incasso potenziale di un’opera, ma anche una valutazione culturale e sulle potenzialità dei giovani talenti. Quando erano semi sconosciuti, Medusa ha scommesso sui primi lavori di Paolo Sorrentino, di Matteo Garrone, di Edoardo De Angelis, e ora di Francesco Costabile».
Complimenti. Tuttavia, Sorrentino e Garrone non spuntano tutte le settimane.
«Per questo la commissione dev’essere altamente qualificata».
Ha ragione Gianni Canova quando dice che se vuoi fare un film chi ti sostiene lo trovi?
«Concordo. Ci vuole tempo e perseveranza, ma se il progetto è valido ci si riesce».
L’eccesso di assistenzialismo è sintomo di un sistema cinematografico ancora immaturo?
«Sì. Infatti, sono a favore di misure di mercato, quindi automatiche. Sono convinto che più si basa su strumenti automatici, più un sistema è aderente al mercato. Quest’anno il ministero, nel decreto di riparto, ha diminuito del 40% le risorse del tax credit e aumentato la quota dei contributi selettivi discrezionali. Auspico che l’anno prossimo ci sia un riequilibrio».
La nuova legge sul tax credit varata dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano è pessima?

«No, è buona e molte misure sono condivisibili, altre potranno essere migliorate dai decreti direttoriali. Come le associazioni, Anica in testa, hanno chiesto al ministro e al sottosegretario Lucia Borgonzoni era giusto fare un tagliando alla legge Franceschini. Dopo parecchi mesi di incertezza e di stallo, si è finalmente ristabilito un quadro normativo certo, chiaro e stabile. Valuto molto positivamente aver introdotto requisiti più precisi di accesso agli incentivi fiscali. Anche la partecipazione al budget di un terzo soggetto, coproduttore o distributore, è una garanzia che il film abbia adeguata promozione e programmazione per essere visto dal pubblico che non significa che avrà successo, ovviamente. I limiti, invece, riguardano la mancata semplificazione burocratica delle regole e la parziale preclusione  delle società non indipendenti all’utilizzo degli incentivi fiscali. Auspico anche che il ministero si doti di un’adeguata struttura amministrativa in grado di gestire i processi in tempi rapidi e certi ».
La precedente legge com’era?
«La legge cosiddetta Franceschini è servita a far crescere le imprese e a far nascere un vero e proprio comparto industriale. Ora, dopo 7 o 8 anni, era giusto capire cosa poteva funzionare meglio. Un impegno che ha portato al nuovo decreto».

 

La Verità, 21 settembre

Il 2022 sarà l’anno della fine dei cinema?

Anno 2022, fuga dai cinema. Potrebbe intitolarsi così il film apocalittico sul declino delle sale cinematografiche. La fantascienza ci ha abituato a cupi scenari, ma stavolta, per fortuna, non si sta preconizzando la morte della settima arte. Il cinema è rinato da crisi peggiori della pandemia da coronavirus. E film se ne continueranno a produrre, magari in numero inferiore o destinati alla visione in streaming come già avviene per le serie. Però, coccolato dalle piattaforme, lo spettatore si sta impigrendo e il binomio divano-telecomando batte sempre più spesso la combinazione auto-parcheggio-coda alla biglietteria. A rischiare l’estinzione sono soprattutto certe scomode sale cittadine. O quelle che non riescono a sedurre il pubblico con programmazioni creative e scontate, o con servizi accessori, librerie, ristoranti…

I dati Cinetel del 2021 sono impietosi. Rispetto al triennio 2017-2019, annate da oltre 100 milioni di biglietti venduti, il calo è stato del 71% negli incassi e del 73% nelle presenze. Tuttavia, considerando che nell’anno appena concluso i cinema sono rimasti chiusi per 4 mesi, riaprendo poi con presenze contingentate, non c’è da meravigliarsi. A preoccupare sono soprattutto i numeri di dicembre e gennaio, con le sale a pieno regime. In autunno si era registrata una ripresa, favorita dal ritorno alla capienza al 100%, ma inferiore alle attese. Dopo il rallentamento produttivo dei mesi precedenti e l’uscita diretta nelle piattaforme di molte opere, i cinema avevano riaperto, ma non c’erano i film. Almeno, non i grandi film. Molte aspettative si appuntavano, perciò, sul periodo natalizio. Che invece, con l’arrivo della variante Omicron, sono andate deluse. L’unico a salvarsi è stato Spider-Man: No Way Home che, potendo contare sul pubblico adolescente meno timoroso dei contagi, ha mietuto record in tutto il mondo. Restando nei confini nazionali, se la sono cavata Pio e Amedeo, protagonisti di Belli ciao, prodotto da Fremantle e Vision Distribution, anche loro forti di un target giovane e consolidato. Tutti gli altri titoli, anche se di qualità (da Supereroi di Paolo Genovese a West Side Story diretto da Steven Spielberg, da Illusioni perdute a House of Gucci) hanno dovuto accontentarsi delle briciole. Il fatto poi che ad alimentare il dibattito sui media sia stato Don’t look up, ma solo dopo la programmazione sulla piattaforma streaming, ha fatto sentenziare qualche sacerdote della critica che ormai l’algoritmo sta vincendo.

«Certamente la pandemia ha accelerato di qualche anno un processo in atto», ammette Giampaolo Letta, amministratore delegato di Medusa. «Con il lockdown molti hanno rotto gli indugi, decidendo di abbonarsi alle piattaforme over the top. La comodità del divano si è aggiunta al freno psicologico di dover indossare le mascherine ed esibire il green pass per andare al cinema». Resta da chiedersi se queste nuove abitudini dureranno anche quando la pandemia sarà finita. «Non credo sarà così», è sicuro Paolo Del Brocco, gran capo di Rai Cinema. «L’esperienza di visione che si fa in sala non è riproducibile altrove. Piuttosto, dobbiamo trarre una piccola lezione da questi mesi. Sono andati bene i film che si rivolgono a una fan base, una comunità di appassionati, come Spider-Man o Diabolik. Mentre hanno sofferto parecchio quelli rivolti al pubblico adulto e maturo, il più impaurito, e proprio quello che in prevalenza riempie le sale cittadine. Perciò, anche noi produttori dobbiamo imparare a targettizzare meglio le nostre proposte». Per Massimiliano Orfei, dal maggio scorso amministratore delegato di Vision Distribution, quella in atto è «una crisi transitoria. Nella sua storia il cinema ha superato altre situazioni di pandemia. Un secolo fa, con la spagnola, tutte le sale chiusero e fallirono. Ma poi riaprirono tornando a essere il luogo centrale dello spettacolo cinematografico, un’esperienza non replicabile dalle piattaforme».

Tuttavia, la sensazione che la fetta di consumo domestico tenda a crescere rimane. Il destino delle sale assomiglia a quello delle videoteche e dei distributori di dvd, completamente scomparsi? A quello delle cabine telefoniche che sopravvivono come residuati di un mondo vintage? O a quello delle edicole che si arrendono malinconicamente una alla volta, soprattutto se non riescono a sostenersi con altri servizi che, spesso, da secondari diventano primari? «A differenza delle edicole che devono competere con le edizioni digitali dei giornali, le sale hanno il vantaggio dell’esclusiva», sottolinea Letta. «È un privilegio che gli esercenti devono tenersi stretto, migliorando la qualità dei servizi, dalla grandezza dello schermo al comfort delle poltrone». Con l’esplosione della pandemia la finestra di esclusiva in sala prima del passaggio in tv, si è ridotta a 30 giorni (da 105 che era). Finché l’emergenza sanitaria non sarà superata i produttori potranno scegliere se sfidare il mercato complicato, se preservare qualche titolo aspettando tempi migliori o atterrare direttamente sulle piattaforme. «Si valuta film per film», sintetizza Orfei. «Quel che è certo è che in futuro sale e streaming convivranno e noi produrremo di più, non di meno. Diversificando l’offerta con film più targettizzati, più verticali e sostenuti da campagne di marketing mirate».

Produttori ed esercenti, tutti devono fare lo sforzo di raffinare la proposta e venire incontro al pubblico per farlo alzare dal divano. Qualcuno lo sta facendo da tempo. Il palazzo del cinema dell’Anteo di Milano ha ammortizzato il calo di questi mesi registrando una riduzione di presenze del 50%, sensibilmente inferiore alla media nazionale. «Il pubblico è fatto di tanti pubblici», dettaglia Lionello Cerri, produttore cinematografico, fondatore e amministratore delegato di Anteo Spazio cinema. «Di conseguenza le nostre dieci sale diversificano l’offerta in un ventaglio che comprende le proiezioni al mattino, le visioni per gruppi ristretti, quelle in lingua originale non solo in inglese, le presentazioni e l’arena estiva, oltre alla possibilità di accedere al ristorante e alla libreria. Così si crea fidelizzazione nel pubblico, chi viene qui sa di trovare qualcosa in più. Come imprenditore sono più che mai convinto che il cinema abbia una funzione sociale e culturale pubblica. Sono ottimista per la ripresa, vedremo che cosa succederà a pandemia finita. Intanto posso dire che cinema e teatri sono luoghi sicuri dove non si è mai verificato alcun contagio». Anche Del Brocco sottolinea «la valenza culturale e identitaria del cinema. Le piattaforme tendono a standardizzare il prodotto. Dobbiamo difendere con le unghie e con i denti i diversi modi di raccontare dei vari Paesi». Per questo, aggiunge Letta, «è molto importante che lo Stato, che già ci è venuto incontro in questi mesi con incentivi fiscali alla produzione e alla distribuzione favorendo l’arrivo in sala delle pellicole, proroghi queste norme per tutto il 2022». Per evitare che diventi l’anno della fuga dai cinema.

 

Carmen Llera Moravia, talebana delle sale

Carmen Llera Moravia è «una talebana della sala». Ride: «Sì, può definirmi così. Tutti i giorni, o quasi, vedo un film rigorosamente al cinema. Per me è impensabile vederlo in tv. È come paragonare un concerto di Claudio Abbado al conservatorio con un cd ascoltato a casa». Come ha fatto durante il lockdown? «Ho patito. Ero felice del silenzio che ci avvolgeva, riuscivo ad andare a camminare al mattino presto. Mi mancava il rito pomeridiano di uscire di casa, andare in una delle tante sale di Roma dove ritrovo amici che condividono questa felice abitudine». Ce l’ha da molto? «Da sempre. Ho fatto la tesi di laurea sul rapporto tra cinema e letteratura. Ho conosciuto Alberto Moravia parlando di cinema. Il mio attaccamento ha basi forti. Ho amici registi e attori che mi dicono: ho visto in streaming… Un’aberrazione». E se le sale dovessero chiudere? «Spero di morire prima», conclude ridendo.

 

Panorama, 9 febbraio 2022