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«L’opulenza non educa, la società austera sì»

Filostar: per Umberto Galimberti si può coniare un vocabolo ad hoc. I suoi video su YouTube contano centinaia di migliaia di visualizzazioni. Come le popstar, il filosofo antropologo piscoanalista va in tournée (in questi giorni Ancona, Montebelluna, Gavazzana, Brà…), riempie teatri, attira giovani e adulti. Ha partecipato alla conversazione con l’insigne psichiatra Eugenio Borgna al Meeting di Rimini intitolata «Le sfide del vivere nell’epoca del nichilismo». Il 15 settembre terrà una lectio su «I Greci, l’anima e l’amore» all’Arena di Verona nell’ambito del Festival della bellezza. «La filosofia non si studia più», osserva anche in questa intervista. Ma il pubblico accorre e forse politici e governanti dovrebbero trarne qualche conseguenza in materia di scuola.

Perché il nemico numero uno di oggi è il nichilismo?

«Il nichilismo è un dato di fatto. Per descriverlo, Friedrich Nietzsche ha usato tre parole fulminanti: “Manca lo scopo”. Manca la risposta al perché, tutti i valori si svalutano. Che i valori si svalutino non è particolarmente interessante perché essi non scendono dal cielo. Sono coefficienti sociali che una comunità adotta per ridurre la conflittualità».

Per esempio?

«Prima della Rivoluzione francese la convivenza era basata su criteri gerarchici, dopo si è strutturata sulla cittadinanza. I valori sono cambiati, ma la storia non è finita».

Se il nichilismo non è figlio della crisi di valori, lo è del pensiero debole o del primato della tecnica, come diceva Emanuele Severino?

«È figlio soprattutto della mancanza di futuro. Un tempo, essendo prevedibile, il futuro conteneva una promessa. Quando mi sono laureato nel 1965 sapevo che mi aspettavano il concorso e l’abilitazione: nell’ottobre dell’anno dopo ero in cattedra. Il futuro prevedibile è motivante, se è incerto demotiva. Questo è il nocciolo del nichilismo».

A soffrirne maggiormente sono i giovani?

«I giovani sono le vittime principali. Ma neppure gli adulti ne sono immuni perché sono diventati dei funzionari di apparato».

Cosa significa?

«Apparato sono i sistemi produttivi. La catena di montaggio, lo studio del notaio, un protocollo sanitario, i programmi ministeriali della scuola. L’adulto deve realizzare gli scopi dell’apparato nel quale opera a prescindere dal fatto che li condivida o no. Se è un funzionario di banca, entro una scadenza deve vendere mille titoli deteriorati. Se ascolta la sua coscienza che si ribella perde il posto di lavoro, se vuole conservarlo la mette a tacere e obbedisce all’apparato. Questo processo è iniziato con il nazismo».

La prevalenza della gerarchia e degli ordini.

«Gitta Sereny, una giornalista ungherese, fece ore di interviste a Franz Stangl, il direttore del campo di concentramento di Treblinka, chiedendogli per 170 volte cosa provasse quando mandava a morte migliaia di ebrei, ma Stangl non rispondeva mai. Finché una volta disse: perché continua a pormi questa domanda? Io non ero incaricato di provare qualcosa. Dovevo eseguire un programma: eliminare 3000 persone entro le undici del mattino e altre 5000 entro le cinque del pomeriggio: “Ero un funzionario, obbedivo agli ordini di un superiore”. Nell’età della tecnica questa è la risposta esatta. Vale per tutti, compresi gli operai delle acciaierie di Brescia che confezionano bombe antiuomo».

Perché sostiene che la tecnica genera nichilismo?

«La tecnica non si preoccupa del progresso dell’umanità, ma del suo stesso autopotenziamento. Già nel 1970 Pie Paolo Pasolini distingueva tra sviluppo e progresso. Il frigorifero, il computer, il cellulare sono tecnologia. La tecnica è la forma di razionalità più alta mai raggiunta dall’uomo e consiste nel raggiungere il massimo dei risultati con il minimo di mezzi. Questa razionalità è comune anche al mercato. Che però ha anche un tratto umanistico, la passione per il denaro, dal quale la tecnica è esonerata. Se si impone quest’unica forma di convivenza, l’uomo rischia l’estromissione dalla storia perché è fatto di componenti irrazionali come il dolore, l’amore, l’immaginazione, l’ideazione, il sogno, la fantasia. Per la tecnica questi fattori sono impacci».

Anche l’etica lo è?

«Nell’età della tecnica l’etica è patetica: può solo implorare la tecnica di non fare ciò che può».

Certi esperimenti estremi di laboratorio.

«Non cloniamo gli uomini, non facciamo la fecondazione eterologa… Ma se si può tecnicamente fare, prima o poi si farà».

La tecnica ha l’ultima parola.

«Per Platone era la politica, la “tecnica regia”, il luogo della decisione. Oggi la politica non decide, ma guarda all’economia che a sua volta si basa sulle risorse tecnologiche. La tecnica funziona e basta».

Dobbiamo temerla?

«È inutile temere. L’uomo deve rendersi conto che non è più il soggetto della storia, ma è la tecnica a farlo funzionare con i suoi parametri».

Droni, robot, intelligenza artificiale, transumanesimo.

«Da Oswald Spengler con Il tramonto dell’Occidente fino a Emanuele Severino, i filosofi ripetono queste cose. Ma nessuno ci bada e la filosofia sarà eliminata dai licei. Nel 1966 Martin Heidegger diceva a Der Spiegel: “Tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra”. Si era spaventato vedendo le fotografie della terra scattate dalla luna. “Non c’è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo è già fatto”. Lo diceva senza aver visto cos’è diventata la tecnica oggi».

Lei era l’ottavo di dieci figli, orfano di padre a 14 anni e si è laureato. Che cosa è cambiato rispetto a oggi?

«Niente è cambiato. Allora se volevi laurearti dovevi lavorare per comprarti i libri. Io sono andato in Germania… Allora si faceva oggi non si fa più».

Non è un dettaglio secondario.

«Siamo molto più ricchi, ma l’opulenza corrompe i costumi».

La movida obbligatoria, la cultura dello sballo e le dipendenze derivano da questo vuoto interiore?

«Droga, alcol e annessi sono anestetici contro l’angoscia del futuro. Con la sua essenza anestetica, la droga aiuta i giovani a vivere nell’assoluto presente».

In che cosa mancano gli adulti verso di loro?

«Mi pare che ormai le famiglie siano un disastro. C’è pochissimo dialogo, padri e madri non sanno che parlare serve finché i figli hanno meno di 12 anni. Dopo c’è solo l’esempio».

Padri e madri si vantano di essere loro amici.

«Altro disastro. Perché è una sottrazione di autorità. Gli amici i figli se li trovano da soli».

E la scuola, la formazione: la politica le dà lo spazio che le spetta?

«La politica non ha mai pensato la scuola in termini di educazione dei giovani, ma sempre di occupazione degli insegnanti. Se uno studente trova uno o due professori che sappiano affascinarlo può ritenersi fortunato. Gli altri sette son lì a prendere lo stipendio e a demotivare gli studenti».

Un errore della cultura contemporanea è stato far credere ai giovani che il progresso è illimitato e si è invulnerabili?

«Non abbiamo il senso della misura. I Greci dicevano che chi conosce il proprio limite non teme il destino. Abbiamo vissuto nell’illusione del progresso infinito. Per avere coscienza del limite non basta che i genitori dicano di no, cosa che per altro non fanno più. Il senso del limite deriva dallo stato di necessità, come accadeva negli anni Cinquanta. Non voglio dire che dobbiamo tornare al passato, ma che l’opulenza non educa, mentre una società austera sì. Per questo sono favorevole a reintrodurre il servizio civile obbligatorio: a vent’anni, 12 mesi ben lontano da casa».

La pandemia può essere un avvertimento. C’è sottovalutazione o enfatizzazione del pericolo?

«Direi sottovalutazione. Abbiamo centri di eccellenza sanitaria, ma abbiamo smantellato la medicina territoriale. Basta vedere le sorti toccate in questo periodo ai malati di diabete e di tumore».

Discoteche chiuse o aperte?

«Aprirle è stata un’imprudenza. È ovvio che quando si balla si sta uno addosso all’altro. E poi basta con questi giovani “poverini, hanno sofferto il lockdown”… Chi è morto l’ha sofferto di più. Qualche sacrificio possono farlo anche loro. Balli e danze torneranno quando il contagio sarà superato».

Ci sono i primi suicidi. Quanto possiamo resistere nel clima di emergenza senza che influisca sulla nostra psiche?

«Che la vita sia precaria non lo scopriamo adesso. Noi occidentali siamo la parte più rassicurata del pianeta. Ma non viviamo certo in stato di denutrizione, assediati da malattie inguaribili, privi di farmaci. Ci farebbe bene confrontarci di più con chi vive in condizioni davvero precarie».

L’assenza di senso oggi può essere colmata dall’ambientalismo, l’antirazzismo, l’antifascismo?

«Se sono espressioni individuali sì, meno se sono un fenomeno collettivo. Il Sessantotto, il Risorgimento, l’Illuminismo, anche l’attuale movimento di protesta in Bielorussia, danno un senso finché si raggiunge lo scopo. Negli anni Settanta i pazienti mi sottoponevano problemi sentimentali, affettivi, sessuali. Oggi nessuno mi parla di questo. Le persone si chiedono che senso ha la propria vita: è questa mancanza il vero disagio odierno. Che senso ha la mia esistenza se dal lunedì al venerdì sono un funzionario di apparato?».

Parteciperà al Festival della bellezza. Dove cercare una bellezza che aiuti ad affrontare la crisi nella quale ci troviamo?

«La bellezza vera è coniugata con la bontà, ha una valenza etica. I Greci abbinavano sempre bello e buono. È un concetto che si capisce bene osservando il suo contrario, cioè la mancanza di etica. Non è bello vedere gente che non paga le tasse, che inquina, che maltratta i più deboli. Una bellezza non coniugata con la bontà è evanescente come una nuvola che sparisce».

Cosa vuol dire che una società cambia a colpi di amore come ha detto al Meeting di Rimini?

«La vita avanza in forza dell’amore, non c’è altro motore. Le vite si spengono quando non sono più amate. Chi è innamorato ha una forza, una potenza maggiore. Si sta al mondo finché qualcuno ci ama».

 

La Verità, 29 agosto 2020

«Così la paura può aiutarci a essere migliori»

Che situazione». In due parole il professor Eugenio Borgna condensa stupore, tenerezza, partecipazione al dramma che stiamo vivendo. Lo si avverte nella vibrazione della voce. Nella preoccupazione paterna. Psichiatra e primario emerito di Psichiatria all’ospedale di Novara, nonché libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali all’università di Milano, prossimo ai novanta, Borgna mi ha sempre colpito per la sua profondità. L’ho intervistato altre volte. Una, nella casa di Novara, dove accettò di vedermi con brevissimo preavviso, spostando altri appuntamenti. Un’altra a Borgomanero, nella «casa dal grande giardino», come la descrive nell’autobiografia Il fiume della vita (Feltrinelli), l’abitazione storica, dove avremmo dovuto incontrarci anche stavolta, se le direttive del governo non l’avessero sconsigliato. È a persone come lui che ci si rivolge in momenti come questi.

Qual è il primo sentimento che le provoca questa situazione?

È un sentimento legato al fatto che non conosciamo ciò che sta avvenendo. Un moto dell’anima che deriva dall’improvvisa immersione in una vita sconosciuta, causata dal virus portatore di conseguenze imprevedibili. È il confronto con l’ignoto. Camminavamo su autostrade rettilinee e senza ostacoli, ora ci troviamo in un percorso oscuro.

Le è mai capitato di vivere un momento paragonabile a questo?

Avevo 13 anni quando fummo costretti a lasciare questa casa per fuggire in montagna, inseguiti dai tedeschi che avevano minacciato di sequestrarci. Mia madre guidava il gruppo di sei figli, l’ultimo di un anno. Mio padre, che non aveva aderito al partito fascista, era entrato nella Resistenza. Fino a quel momento il sentiero dell’adolescenza mi appariva rettilineo. Improvvisamente, era divenuto buio e tortuoso. Non capivo cosa ci stesse opprimendo. I militari tedeschi erano un nemico oscuro. Tutto poteva concludersi da un momento all’altro. Infine, eravamo soli, perché aiutarci significava esporsi alle minacce dei tedeschi.

C’è analogia con la situazione di oggi?

L’analogia è nell’inconoscibilità delle circostanze. Oggi nulla sappiamo del coronavirus e nulla sapevamo allora di quel nemico comparso, scomparso, incombente. Sono entrambe esperienze d’incertezza profonda, relativamente a ciò che può accadere nelle ore successive. Anche allora, come oggi, fede e speranza si alleavano per offrirci la possibilità di un cammino più sereno. E anche allora le campane della chiesa suonavano per offrire un rifugio alla paura.

La paura è causata dall’avvento dell’ignoto?

È un sentimento ineliminabile. Se non lo avvertissimo saremmo dei robot. Pensare di non provare paura o ansia non è giusto e nemmeno umano. La paura ha un oggetto identificato anche se non lo controlliamo. La proviamo dinanzi a un’entità oscura come questo virus, al quale non sappiamo dare una fisionomia scientifica sufficientemente precisa.

Il sociologo Zygmunt Bauman scrive che la paura più terribile è quella «diffusa, sparsa, indistinta», determinata dalla «minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente». Come si convive con questa paura?

Va rimodulata in un contesto più ampio, anche grazie a un’attività interiore che riconosca le risorse di cui disponiamo. La principale delle quali è la speranza per la vita. Senza speranza la paura ci condurrebbe a reazioni psicologiche e psicosomatiche negative. Non si può cancellare la paura, ma con la ragione si può svuotarla dei suoi eccessi e ricondurla in una dimensione più tollerabile. Per esempio, abbiamo ragione di aver paura quando scaliamo una montagna. Ma la gestiamo entro limiti razionali.

Quando non ci si riesce sfocia in angoscia?

L’angoscia è di qualcosa che non si conosce, mentre la paura riconosce la sua causa anche se non sempre ne controlla le dinamiche. È una distinzione sottile. L’angoscia è dentro di noi, come il timore della morte che non sappiamo quando arriva.

Stiamo vivendo un tempo sospeso, in cui non possiamo e non dobbiamo uscire di casa, non possiamo e non dobbiamo stare in gruppo. È anche un tempo in cui si può rientrare in sé stessi?

Nella vita di tutti i giorni siamo ostaggi del presente, privi di memoria e di speranza. Tutti concentrati sul qui e ora. Questa situazione, paradossalmente, ci permette di perdere tempo e di acquistare tempo, per cogliere ciò che avviene dentro di noi, per esempio incontrando gli altri, chi ci aiuta a conoscere noi stessi. Una improvvisa tempesta ci fa comprendere quanto siamo fragili, invitandoci a guardare non solo al nostro piccolo o grande interesse personale, ma a riflettere sul senso della vita. Per cercare di capire la nostra indole profonda, quali sono le nostre speranze e le nostre attese che abitualmente vengono bruciate nell’impulso del tutto e subito.

Di colpo siamo ricchi di tempo?

Queste restrizioni ne cambiano la percezione. È la geniale intuizione di Sant’Agostino, che supera la circolarità di passato presente e futuro, convertendo il tempo dell’orologio nel tempo interiore. In cui in apparenza non facciamo nulla di concreto o immediatamente produttivo, ma in cui possiamo andare al fondo di noi stessi. Inoltrandoci in un sentiero nuovo, sconosciuto come gli effetti della pandemia, ma che ci porta a scoprire il risvolto interiore di ciò che siamo e facciamo.

Che cosa direbbe ai giovani che faticano a rinunciare alle loro abitudini e ad accettare l’isolamento?

Questa «metànoia», questa conversione, mi sembra più difficile negli adulti, nelle persone cristallizzate in un modello di comportamento fatto di lavoro, denaro, lusso. Ci vorranno sforzi inauditi. Mi pare che i giovani possiedano maggiore creatività, generosità e capacità di cogliere l’essenza delle cose. È una convinzione che traggo da tanti incontri con gli studenti nelle scuole superiori. Senza generalizzare, mi pare che spesso rovesciamo sui giovani responsabilità che sono nostre.

Prima che ci fosse l’ultima ordinanza del governo abbiamo visto le foto degli aperitivi affollati. Nei suoi saggi cita Blaise Pascal: «Togliete ai giovani il divertimento e li vedrete inaridirsi di noia».

È vero, ma le faccio due controrepliche. La prima: che responsabilità hanno le famiglie, i genitori, i fratelli maggiori? In che misura incidono su questi comportamenti? Quali attenzioni trasmettono, che parole usano? La seconda obiezione riguarda la comunicazione tardiva della gravità di ciò che stava accadendo. E qui c’entrano i politici e i media. All’inizio si è minimizzato, si sono fatti i paragoni con l’influenza…

Ancora Pascal: «Tutta la infelicità degli uomini viene da una sola cosa che è quella di non saper rimanere in riposo in una stanza». Come possiamo trarre il meglio da questa situazione?

Pascal descrive in modo cinematografico quello che abbiamo provato a dire parlando del tempo interiore. Lui parla del divertimento come distrazione dall’io profondo. Lo stordirsi nelle piazze e nei locali… Fermarci può essere una opportunità anche per il dialogo con gli altri, vincendo l’indifferenza che può bruciare i cuori senza che ce ne accorgiamo.

Questa situazione così drammatica può diventare paradossalmente un’opportunità di crescita?

Crescita è una parola da pronunciare con il cuore in gola quando ci sono persone che muoiono. Oggi siamo tutti un po’ più soli e la solitudine ci obbliga a conoscerci meglio. Dunque ci può aiutare a crescere, se sapremo cercare quel significato che, nelle giornate affannate, è sempre rimosso, dimenticato. In quelle giornate, la stanza di Pascal rimane sguarnita, anonima, senza porte e finestre. Ora possiamo riempirla di silenzio, di ascolto, di dialogo vero. Anche di preghiera, che i credenti possono recitare in sostituzione della messa che non viene celebrata. Di letture, facendosi guidare da Simone Weil, da Rainer Maria Rilke, da Teresa d’Avila che osserva che «coloro che Dio ama molto, li conduce per sentieri di angoscia».

Che libri sta leggendo o rileggendo?

Mi rifugio nelle poesie. Rileggo Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, lo Zibaldone e le pagine sulla malinconia, Carlo Maria Martini. Sto leggendo anche Guarire le malattie del cuore, bellissime meditazioni dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi.

Lei che è autore di Saggezza, nella collana Parole controtempo del Mulino, può dirci che cosa vuol dire essere saggi oggi?

Essere consapevoli dei propri limiti. Sapere ciò che possiamo raggiungere e ciò che non possiamo raggiungere. Significa non farci stordire dalle apparenze, cercando di cogliere la sostanza più vera della realtà. Infine, guardare alla speranza come alla stella del mattino. La speranza è anche una medicina. Perché fa sgorgare risorse interiori addormentate.

La percezione della nostra provvisorietà può essere una risorsa anche per il dopo?

Certo, perché ci aiuta a guardare ai nostri giorni, alla nostra quotidianità, muovendo dall’idea che siamo parte di una comunità di destini che lega chi è ricco e chi non lo è, chi è sano e chi è malato.

 

Panorama, 18 marzo 2020