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«Che ipocrisia negare il male che c’è in noi»

È uno dei maggiori scrittori italiani viventi. Già docente di Letteratura italiana contemporanea all’università dell’Aquila, critico letterario, curatore delle opere di Pier Paolo Pasolini per la collana dei Meridiani (Mondadori), vincitore del Premio Strega del 2012 con Resistere non serve a niente. Di recente il suo Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli) ha fatto traballare la cattedra di qualche autore da talk show di prima serata.

Quanti nemici si è fatto con il suo ultimo saggio?

Non credo più di quelli che avevo già. Ho fatto il mio mestiere di critico letterario senza coinvolgere minimamente le persone. Ho scritto quello che penso dei testi di alcuni autori e della piega che sta prendendo la letteratura quando si prefigge scopi etici. Non mi pare di essere stato sgradevole, tanto che mi risulta che nessuno si sia offeso.

Il libro è stato strumentalizzato dalla destra, come temeva?

Stranamente, no. Anche le cose scritte su Roberto Saviano non sono state utilizzate da quella parte. E nemmeno quelle riguardanti l’opera di Michela Murgia. Forse perché, in genere, faccio osservazioni sia positive che negative. O perché è più facile utilizzare qualche breve frase sui social di quegli autori che confrontarsi con il saggio di un critico che ha richiesto mesi di lavoro.

Perché secondo lei si moltiplicano gli scrittori pedagoghi?

In passato la letteratura è stata ancella delle ideologie. In epoca di realismo socialista, per esempio, veniva usata per combattere il capitalismo anche sul terreno dell’immaginario. Oggi, in un tempo di grande smarrimento, tutti pensano di dover fare qualcosa. Anche la letteratura si trasforma in un’attività per far prevalere contenuti di amore anziché di odio. Inoltre, le teorie e pratiche soprattutto americane di applicazione del pensiero computazionale, statistica e algoritmi delle digital humanities, per conferire alla letteratura una valenza scientifica, ne studiano le tendenze dei contenuti perché più semplici da cogliere di quelle della forma.

Il politically correct sostituisce l’ideologia tradizionale?

No, gli daremmo troppo valore. L’ideologia contiene anche un metodo d’interpretazione della storia. Il politicamente corretto è soprattutto un modo di non far sentire esclusi gli esclusi. Il presupposto di partenza è giusto. Se l’esclusione di alcune categorie si è incarnata in un linguaggio è bene correggerlo per evitare che si sentano ancora maltrattate.

Tutto bene, dunque?

Due aspetti non mi piacciono. Il più ovvio è che se si pubblica un libro di un secolo fa, quando la parola «negro» era normale, bisogna lasciarla spiegando come veniva usata all’epoca. In Europa lo si sta facendo, mentre in America si tolgono i libri dalle biblioteche. Il secondo aspetto che disapprovo è che, a forza d’inseguire le categorie penalizzate, ce ne sarà sempre una più piccola, diversa dai diversi. Se rincorriamo tutte le micro categorie, da libera come dev’essere, per non pestare nessun callo la letteratura finirà imbrigliata da mille avvertimenti, trasformandosi in qualcosa di comico.

Che vuoto riempie la missione degli scrittori di riparare il mondo?

Innanzitutto quello della scuola, che da trent’anni non ha più una direzione precisa. Anche nelle università si seguono le ultime tendenze, senza sapere come organizzare i programmi, tra contenuti fondanti e accessori. L’agenzia educativa principale è venuta meno. Così come l’altra agenzia, la famiglia. I figli frequentano mondi che padri e nonni ignorano. Da qui la perdita di autorevolezza degli adulti. Con il dominio del consumismo, anche la cultura insegue l’ultimo grido, l’ultimo aggiornamento. Una certa letteratura vorrebbe supplire alla scomparsa delle istituzioni che si occupavano d’insegnare. Una volta si riparava il mondo con la rivoluzione o con le riforme, ma oggi anche la politica gira a vuoto.

Per riparare il mondo bisogna che qualcuno l’abbia rotto, presupporsi nel giusto e possedere gli attrezzi per farlo, cioè la parola?

Il discorso del centrosinistra sostiene che il mondo l’hanno rotto il capitalismo selvaggio e la finanza. E che tocca a noi ripararlo. Per la letteratura lo strumento è la parola. Ma ciò che gli autori impegnati tendono a sottovalutare è che le parole sono viscide e cambiano significato a seconda di come vengono usate. Per questo non stare attenti alla forma può essere dannoso. Se si entra nel campo etico, può accadere che sebbene una parola venga usata per condannare un certo modo di essere, questo divenga un modello per qualcuno. A quel punto come potrò usare quella parola?

C’è un’ambiguità della parola che non controlliamo?

Se lascio l’iniziativa alle parole possono dire una cosa e il loro contrario. Se dico al mio analista che ho sognato una signora che di sicuro non era mia madre, l’analista potrà pensare che era proprio lei. Mettere dei no davanti alle parole può far salire in superficie il sì sottostante.

Un’altra missione degli scrittori impegnati è abbassare la conflittualità attraverso un galateo del linguaggio?

Ridurre la conflittualità è una buona idea, ma alcune volte, nell’ansia di farlo, si tende a negarla. Si evita di dire che nell’uomo esiste il male e che esso si mescola con la passione. La violenza non è amore, si sentenzia. Appena qualcuno fa trapelare una minima forma di violenza lo si rimuove. Invece anche il male e la violenza hanno una loro attrattiva, non a caso esiste il sadomasochismo. L’animalità dell’uomo comporta violenza e oppressione: sarebbe giusto ricordarsi che è ineliminabile. La letteratura frequenta anche le pulsioni distruttive.

Perché è liberatorio?

C’è una componente di autodistruzione. Dire che si tratta di patologie come fa la letteratura pedagogica non risolve il problema. Come scrittore devo raccontare come sono fatte, non rifiutarmi di capirle.

Il dibattito pubblico che si svolge attraverso antinomie come patriarcato/femminismo, migranti/razzisti si è riprodotto anche sul Covid?

Nella pandemia c’è la contrapposizione tra sì vax e no vax. Parlando con alcune persone mi sono sentito ripetere: «Io sono più forte del virus». In passato nessuno si era detto più forte del morbillo o dell’Aids. Oggi si è creato un meccanismo antagonista. Il virus è stato subito un nemico da abbattere, poi un nemico subdolo, infine un’entità contro cui si scatenano pulsioni machiste, da combattere a petto in fuori. Si è affermata una convinzione per cui essere contro il vaccino significa essere forti.

Cosa pensa delle posizioni di intellettuali come Massimo Cacciari e Giorgio Agamben?

Non ho approfondito e non sono abituato a basarmi su poche frasi. In generale credo che la situazione mondiale sia diventata tale per cui, per non lasciare che la pandemia si prolunghi, alcune istituzioni normalmente democratiche abbiano accentuato il loro carattere decisionista. Questo per qualcuno può mettere a rischio le forme della democrazia in Occidente. Uno come Cacciari avverte questa situazione.

Che opinione si è fatto del comportamento dell’informazione durante la pandemia?

C’è stata un’esagerazione. È un argomento che ha riempito troppi minuti di palinsesto, trasformandosi in occasione di spettacolo. A volte si parla troppo a lungo dello stesso problema. Altre volte viene enfatizzato il caso singolo perché fa più spettacolo della statistica. Infine, vorrei fare una petizione agli autori tv: smettete di mostrare aghi che entrano nelle braccia, sono immagini che non danno alcuna informazione.

Concorda con Vittorio Sgarbi che, per evitare confusioni e notizie contraddittorie, propone di dare all’informazione sul Covid un’ora al giorno.

Un’ora al giorno mi sembrerebbe un po’ dittatoriale. Però, capisco l’intenzione. Concordo con l’esigenza di spettacolarizzare meno l’argomento, di decidere uno schema per non sentire ripetere le stesse cose… Oggi i nostri telegiornali dedicano una parte alla pandemia e un’altra all’elezione del presidente della Repubblica, come se nel mondo non succedesse altro.

In Italia manca uno scrittore come Michel Houellebecq?

Direi di no. Houellebecq è un bravo autore che non nasconde dentro di sé le sue pulsioni. Ma è accessibile, lo si può leggere in francese o tradotto…

Intendevo dire che manca una coscienza critica come la sua.

In Italia abbiamo una letteratura di forte impatto critico. Per esempio nel 2021 è uscito un libro potente come Le ripetizioni di Giulio Mozzi, ma non è entrato nella cinquina del Premio Strega. I libri troppo disturbanti tendiamo a lasciarli nell’ombra. Houellebecq ha avuto la fortuna che Sottomissione è uscito nel giorno dell’attacco terroristico a Charlie Hebdo. Questo gli ha dato un’aura ancora più profetica. Ricordo che quando segnalavo i suoi primi romanzi mi dicevano: «Lascia perdere quel fascista, quell’antifemminista…».

 

Panorama, 12 gennaio 2022

«Ho bisogno di solitudine, ma voglio essere amato»

Una casa piena di libri e solitudine. Piena di amici che non ci sono più. Goffredo Parise, Giovanni Comisso, il cugino Pier Paolo Pasolini. Nico Naldini abita nella prima periferia di Treviso, dove si ritirò una quarantina d’anni fa per lavorare alla biografia di Comisso, abbandonando le luci di Cinecittà dopo la tragica morte di PPP e scegliendo di proposito le ombre della provincia letteraria.

Vive qui, in compagnia dei suoi 91 anni spericolati e della personalissima ricerca del tempo perduto, in bilico tra autoironia e amarezza. Questa solitudine incolmabile fa venire alla mente «il desiderio di essere amato» di Michel Houellebecq «e la riflessione» che non può «farci niente».

È pronto?

«Non voglio essere pronto».

Come sta Nico Naldini?

«È un argomento che non voglio affrontare. I miei amici sono tutti morti».

Novant’anni in questa casa, tre stanze e un piccolo giardino.

«In questa casa… uguale a tutte le altre case. A ogni anfratto, a ogni cloaca, a ogni caverna del mondo».

Chi è Nico Naldini?

«Non so chi è. Non facciamo diatribe, mi ripugna sapere chi è».

Un poeta, un artista, uno sceneggiatore, uno scrittore, un grande biografo?

«Posso essere classificato in tutti questi modi. Però l’unica mia vera ambizione è scrivere tre versi che siano tre. Come faceva il mio amico Sandro Penna».

La sua vera ambizione è la poesia?

«Non è un’ambizione, è uno stato esistenziale, il fondo di ogni atto e di ogni pensiero. Qualcosa che dovrebbe reagire e sentire che ce l’ha fatta».

Uno stato esistenziale profondo che ce l’ha fatta ad affiorare in versi?

«Non ogni stato esistenziale può essere rappresentato da tre versi».

È soddisfatto della sua produzione poetica?

«Neanche per idea, neanche per sogno. Ogni tanto mi sveglio di notte e dico a me stesso: che cazzate».

Turbe degli artisti sempre insoddisfatti?

«Sono categorie alle quali non appartengo».

 A pagina 125 di Il treno del buon appetito (Ronzani Editore, 2017) cita un’espressione di Pasolini a proposito delle sue poesie: «Quel Naldini che pare non osi nemmeno esistere». Che cosa intendeva dire?

«Era un’esagerazione, una cosa provocatoria. Pasolini l’ha detto dopo cinquant’anni che abbiamo vissuto insieme… Improvvisamente si era accorto che ero troppo timido? Lo diceva per polemizzare con altri poeti».

Era una provocazione affettuosa verso di lei?

«Più affettuosa di così. Pensando in quali bolge infernali mi ha fatto entrare era il minimo che doveva dire».

Bolge infernali?

«Le bolge infernali sono bolge infernali. C’è un grande poema che si occupa di loro».

È un po’ reticente, me ne descriva una o teme le vendette di qualche attore o regista?

«Si figuri se mi faccio intimidire dal mondo del cinema. La realtà è il contrario di ciò che diceva Pasolini con quella battuta. Ero io a seguire lui per proteggerlo piuttosto che lui proteggere me».

La sua è una vecchiaia proustiana come fanno intendere L’alfabeto degli amici (L’Ancora del Mediterraneo, 2004) e Il treno del buon appetito?

«Dati i miei novant’anni, la mia generazione non può non essere proustiana se vuol essere qualcosa di diverso dalla volgarità, dall’abitudine a credere che si possa cavarsela facilmente. Aggiungendo una parolina dopo l’altra, ecco, ho fatto tutto. Invece, poi, dalla lettura di Marcel Proust, che è un castigamatti della letteratura, si viene fuori tutti frustati a sangue».

Frustati a sangue?

«Sotto ogni cosa, qualsiasi essa sia, un etto di caramelle o un chilo di patate, uno può sprofondare e ricavare impressioni o dati di fatto. Questo è l’insegnamento di Proust».

È la sua capacità analitica?

«Più che questo, ogni sua frase ti assesta un pugno».

Perché è in gioco quello stato esistenziale, il mistero che abbiamo dentro?

«Perché questo mistero Proust lo sbatte fuori; motivo per cui bisogna leggerlo recitandolo».

Perché un libro come Il treno del buon appetito è rimasto di nicchia?

«A dire il vero è stato recentemente ripubblicato con mia soddisfazione. Comunque sì, non è certo un libro di grande diffusione… perché si scansa dalle soluzioni facili. Ma paradossalmente ne sceglie una ancora più facile, che ha dentro il mistero della sua nascita. Bisogna pensarci molto, perché ogni cosa che dici, anche “buonasera signore”, ha un suo contenuto. A volte ci si adagia su frasi fatte. Ma se io dico “buonasera signore”, può darsi che questa espressione contenga anche la sua contraddizione».

Scrive che non ha «mai appartenuto né al vittimismo né all’orgoglio omosessuale»: che cosa ne pensa?

«Per me l’omosessualità è stata forse soprattutto una facile uscita dalla guerra. Il vittimismo l’ho citato così. Anche la vanità omosessuale per me è incredibile. È qualcosa di spregevole, perché trasforma un problema serio e antico come il mondo in una modernità imbecille».

La messinscena un po’ carnevalesca dei gay pride?

«Massì, anche quel bresciano, Aldo Busi. Tanti hanno un gran successo, ma poi spariscono».

Ce ne fossero come Busi, con il suo travaglio…

«Forse dico cose inesatte a causa della mia ignoranza. Se vogliamo chiudere il discorso sull’omosessualità dobbiamo prendere in esame la produzione di Aldo Palazzeschi e naturalmente Sandro Penna. E anche se vogliamo chiudere il discorso su Proust: è nelle biografie di Giovanni Comisso, Filippo De Pisis, Penna e Pasolini che mi avvicino di più al mondo proustiano».

Che cos’è per lei scrivere?

«Che domanda… Scrivere qualcosa che non sia una lettera alla mia cameriera è il bisogno di raccontare qualcosa di sé stessi che non era noto, non era alla portata di chiunque. Rivelarlo, rivelandosi».

E riguardo a sé?

«È esattamente questo. Degli altri non m’importa niente, son felice se dicono: “Che bello…”. Ma in realtà non m’interessa».

La sua è una solitudine amara?

«È una solitudine nella quale precisare i termini della propria esistenza. Precisare i termini e le possibili fughe dall’esistenza».

È un’espressione un po’ inquietante.

«Siamo qua, mi prenda a schiaffi se vuole. La solitudine è uno stato assolutamente necessario a me stesso. Non potrei convivere con qualcuno, un Adone o un Antinoo… Tornerei a vivere da solo».

Secondo l’insegnamento di Montaigne: «Abbiamo vissuto abbastanza per gli altri, viviamo per noi almeno quest’ultimo resto di vita»?

«Montaigne aveva una biblioteca meravigliosa e ha fatto rinascere molta parte della cultura classica».

Quella citazione significa che anche lei è geloso della sua solitudine?

«Ça va sans dire. La custodisco come qualcosa d’indispensabile».

Una solitudine orgogliosa?

«Una solitudine che qualcuno spero capisca e la concili con me, cioè le dia il senso che voglio io».

Può esistere un nostro simile che la capisca così?

«La solitudine si trova in tantissimi poeti, artisti, scrittori. Pensi a Caravaggio, per me grande come Proust. Anzi no, come Rimbaud. Caravaggio è il mio Rimbaud».

Però la pittura di Caravaggio esprimeva qualcosa di preciso.

«No, per carità. Non entriamo nel merito, lui era un gran teppista, io non sono un teppista come lui. Di fronte a Caravaggio mi metto in ginocchio e sto in silenzio».

Non vuole seguirmi?

«Non posso seguirla. Uno stronzo come me che parla di Caravaggio…».

Nella letteratura chi apprezza?

«Carlo Emilio Gadda riempie tutto. Poi, senza essere grande come lui, Alberto Moravia. E l’autore del Giardino dei Finzi Contini, come si chiama… Giorgio Bassani. Giovanni Comisso copre tutto».

I contemporanei?

«Non li leggo, sono un vecchio di 91 anni, penso di poterne fare a meno».

Chi è l’intellettuale cui è rimasto più affezionato?

«Sono morti tutti i miei amici, ho poco da scegliere».

Nel ricordo, quello che ritorna nelle sue madeleine?

«Più che un ricordo ammirato, il mio è un ricordo di malinconia e di disperazione. Il vuoto che mi hanno lasciato Goffredo Parise e gli altri mi imprigiona nella sua assolutezza. In questa assolutezza cerco di trovare degli elementi vivi canti».

In un’intervista, a una domanda simile, ha nominato Federico Fellini.

«Forse l’avrò detto come frase fatta. Fellini non lasciava impressioni su nessuno perché se le teneva per sé, quel vecchio porco. Non scriva vecchio porco…».

Detta da lei è un’espressione affettuosa.

«Gli ho fatto da ruffiano per tanto tempo. Giulietta Masina mi voleva bene perché sapeva che quando usciva con me poteva stare tranquilla. Divenne anche madrina del premio Comisso e ci veniva volentieri, con Fellini. No, non era un vecchio porco… Avrebbe desiderato esserlo, si metteva in situazioni in cui il porco si esprime con una pacca sul culo di qualcuna, ma poi le cose finivano così. Non aveva una reale sessualità. In tre o quattro volte che siamo usciti insieme l’ho visto una sola volta scopare… Scopare… Chissà».

Parlando di Parise, cita il suo suggerimento: «Niente eccessi di zelo». Negli ultimi suoi anni abitavate vicini, ma non vi siete frequentati.

«È una storia lunga, che non ho ancora capito. Non ho capito perché a un certo punto ha cominciato ad avercela con me. Saranno state le donne? In realtà, non credo potessero avere così tanta influenza. Parise era così, amava tanto qualcuno e qualcosa per poi improvvisamente rifiutarlo. Si annoiava. Ma non mi sarei aspettato di essere buttato nel cestino. Tanto che un giorno, venne a trovarmi qui a Treviso: “Basta, basta, torniamo amici, vieni a cena a casa mia a Ponte di Piave”. E io, un po’ da checca vendicativa, gli ho risposto di no, “Vengo un’altra volta”. Mi aveva molto turbato il suo cambio di comportamento, perché lui e Dacia Maraini avevano presentato al Premio Strega la mia Vita di Giovanni Comisso con la quale arrivai secondo. Pensavo che quel risultato fosse anche merito suo ed ero pieno di gratitudine. In quel momento scattò in lui il rifiuto».

Il sentimento dominante delle amicizie con Parise, Comisso e lo stesso Pasolini è l’incompiutezza?

«Sarei pronto a dire di sì se ci fosse stata. Sono stati rapporti profondi. Ho reso felice Comisso negli ultimi giorni della sua vita».

Il treno del buon appetito narra numerosi rapporti più o meno passeggeri, ma si legge poco o forse mai la parola amore: sbaglio?

«Non sbaglia. Si può pronunciare la parola amore dopo aver fatto ben altre esperienze che quelle che racconto lì. Soprattutto dopo aver sentito la sofferenza dell’amore. Comunque, per me questo libro è di secondaria importanza, quelli veri sono le biografie di Comisso e di De Pisis».

E di Pasolini.

«Quella non la cito per pudore. Grazia Cherchi mi considerava un grande biografo. Per scrivere una biografia vera bisogna perdere mezza vita. Ora non lo farei più. Farei una biografia di me».

Un’autobiografia, vuol dire?

«No, una biografia di me».

La differenza?

«L’autobiografia è un genere, peraltro di moda, che ha le sue formule e i suoi schemi. Una biografia di me significa che dovrei dire chi cazzo sono io».

Siamo tornati alla domanda di partenza: chi è Nico Naldini?

«Ce ne sono tanti. Ognuno di noi si moltiplica in tanti ego. È anche un fatto di vanità. Per cui è impossibile… Dire chi sono sarebbe un lavoro immane».

Niente autobiografia e biografia di sé a sua firma, ma qualcuno dovrà pur scriverla…

«Quando sono arrivato a Treviso, per documentarmi su Comisso, la prima persona che ho conosciuto è stato Nicola De Cilia. Abbiamo trascorso lunghe serate durante le quali gli ho raccontato quello che potevo».

La scriverà lui?

«No, perché è eterosessuale. L’omosessualità è una cosa che ha un suo intimo labirinto. È essa stessa un labirinto. E non vedo come lui possa essere il mio Teseo».

Non a caso è stato lei a scrivere le biografie di Comisso, Pasolini, De Pisis, Penna, tutti omosessuali. Chi scriverà la sua?

«Nessuno, mi auguro. Perché chiunque volesse provarci, rischierebbe di perdersi nel mio labirinto».

Come trascorre le giornate?

«Guardo documentari della Rai, i testi sono molto belli».

Riesce ancora a leggere?

«Poco, mi stanco presto. Rileggo le Lettere dal Ponto, ma non solo. Ovidio è il mio autore».

In Lettere dal Ponto chiede di essere perdonato e riammesso alla corte di Augusto.

«Non si può dire per cosa chiede perdono perché non si capisce il motivo per cui è stato mandato in esilio. Si sa che cos’è il carmen, ma l’error no: perché ha avuto varie interpretazioni nel corso dei secoli».

Ma lei per che cosa vorrebbe essere perdonato e da chi?

«La mia ammirazione per Ovidio è estetica e basta. Personalmente, non ho niente da farmi perdonare. E da chi? Sì, qualche volta penso a mia mamma e vorrei che me lo chiedesse lei».

Vorrebbe essere perdonato da lei?

«Vorrei che me lo chiedesse lei, solo a lei avrei permesso una simile domanda. Le avrei risposto che non ho nulla di cui discolparmi. Non sto rispondendo a lei, è sempre un colloquio con mia madre».

Qualche giorno fa ho pensato a lei quando ho letto questa riflessione di Michel Houellebecq: «Mi riesce penoso ammettere che ho provato sempre più spesso il desiderio di essere amato. Un minimo di riflessione mi convinceva naturalmente ogni volta dell’assurdità di tale sogno: la vita è limitata e il perdono impossibile. Ma la riflessione non poteva farci niente, il desiderio persisteva e devo confessare che persiste tuttora».

«Condivido totalmente. È un discorso lungo e complicato, che però non voglio fare. Anch’io ho il desiderio di essere amato».

Nico Naldini è morto il 9 settembre scorso. Questa intervista inedita è contenuta in Fabula veneta (Apogeo editore), dal 14 settembre in libreria

«Con app e droni saremo come formicai cinesi»

Ha previsto il dominio della finanza e la crisi dei subprime (L’elenco telefonico di Atlantide, Sironi, 2003). Ha anticipato la dipendenza dalla tecnologia e dal Web (Lo stato dell’unione, Sironi, 2005). Ha preconizzato l’ascesa della destra (La ragazza di Vajont, Einaudi, 2008). Tra gli autori apocalittici, Tullio Avoledo è quello che ci prende di più quando ci sono da tratteggiare mondi futuri, minacciati da rigurgiti nazisti o soggiogati da dittature cupe. L’ultimo suo romanzo, Nero come la notte (Marsilio), è la storia di un ex poliziotto rozzo e fascista che rinasce in una comunità di accoglienza nella periferia di una città immaginaria del Nordest. Friulano, 63 anni, nel 2018 ha aderito al Patto per l’Autonomia, formazione nelle cui liste si è candidato al Consiglio regionale non risultando eletto per una manciata di voti. Vive e lavora a Pordenone. La critica lo definisce «scrittore di genere» perché si muove fra noir, thriller, horror e distopie varie. Stavolta però, come ha confessato a una recente presentazione online, la pandemia lo ha colto a metà del romanzo. Bel paradosso per uno abituato a prevedere il domani.

Impossibile tirare dritto e far finta di niente?

«Impossibile. Come si fa a scrivere una storia ambientata nel 2021 in una stazione balneare dell’alto Adriatico senza tener conto del Covid-19?».

Ha dovuto ricominciare da capo?

«Un po’ sì. Ho immaginato la nuova logistica facendomi venire delle idee, non le barriere in plexiglass di cui si parla. In questa situazione depressa è difficile immaginare la gente in vacanza».

Cos’è più facile immaginare?

«Una presenza invasiva della Cina, non lo dico necessariamente in senso negativo. I cinesi sono gli unici che hanno una politica estera con gli attributi».

Il morbo ci ha preso in contropiede nonostante gli allarmi di scrittori, di miliardari dell’hi tech, di alcuni scienziati?

«Siamo dentro un’epidemia annunciata. Bastava leggere Spillover di David Quammen, uscito nel 2012. Se fossimo stati preparati non sarebbe andata così. Non dico che ci sarebbe già il vaccino, ma non avremmo avuto tutti questi morti. Il vero virus è l’impreparazione».

Che deriva da?

«Dalla cultura manageriale sconfinata in politica. Il manager fa carriera perché sa ruffianarsi i potenti giusti, le chiamano pubbliche relazioni. In politica si diventa sottosegretari con 20 preferenze sul web».

Lei ha sempre anticipato le crisi, stavolta deve rincorrerla?

«È più scomodo, ma più divertente. Quando si anticipa si ha più libertà, anche se poi ti chiedono conto di qualcosa che non hai azzeccato. Spero che la pandemia non renda obsoleto il nuovo romanzo».

Nel quale andrà tutto bene?

«Mica tanto. Finita l’epidemia temo si affaccerà un governo di destra».

Previsione o pericolo?

«Entrambi. Non è difficile immaginare che, dopo questo governo che ha limitato la libertà individuale, gli elettori preferiranno chi promette la fine della prigionia».

La destra al potere per reazione alla reclusione?

«Credo di sì. Potrebbero farsi strada anche soluzioni autonomistiche che rimettano in discussione l’unità d’Italia. Lo dico da esponente del Patto per l’Autonomia».

Ma l’autonomia non era una battaglia di destra?

«E chi l’ha detto? Catalogna e Scozia dimostrano che non è così. Si cerca identità in un mondo che non ne ha più».

E la radiosa globalizzazione?

«Se siamo a questo punto è per causa sua. Fortuna che in queste settimane le regioni hanno fatto il controcanto al governo centrale. L’Europa, invece, non credo possa essere rifondata. È una burocrazia che si autoalimenta, come ci ha dimostrato Christine Lagarde. Americani, russi e cinesi sono quello che sono, ma almeno hanno l’orgoglio della madre patria e il senso del futuro».

E noi europei?

«Il testo più distopico che mi è capitato di leggere è stato una direttiva europea del 1991. Fissava le misure di un bullone di un trattore e contemporaneamente definiva l’Europa come un’unione di 300 milioni di consumatori. Come si fa a sperare in un modello così? Paradossalmente ci sono più motivi per sognare qualcosa di positivo adesso che allora».

La realtà supera l’immaginazione?

«Finora ognuno la interpretava a modo suo. La pandemia è una vicenda drammatica e condivisa come le trincee della Grande guerra. Ci sta costringendo a pensare insieme. Resta da vedere se riusciremo anche a sviluppare una visione condivisa del futuro. Una delle tante cose su cui concordo con Michel Houellebecq è la convinzione che questa disgrazia, per qualcuno, sia un’occasione ghiotta».

Per i colossi dell’economia digitale?

«Quando le risorse si esauriscono si possono fare le prove di controllo della popolazione. Per esempio, portandoci a votare per via telematica. Questo è il paradiso dei 5 stelle. Che le anime candide della sinistra da apericena avallano. Mentre gli Stati sono impreparati i big della new technology si fregano le mani. Amazon non è stata certo penalizzata. Nel terziario la modalità di lavoro a distanza era già in atto».

La vita è sempre più digitalizzata.

«Nell’Ombra dello scorpione, Stephen King narrava un mondo nel quale il virus si trasmetteva attraverso le banconote. Io pago tutto con il bancomat o la carta di credito e provo fastidio se dal panettiere devo usare i contanti perché non gli funziona il pos. I rapporti a distanza prevalgono sul contatto umano. Ci stiamo abituando al fatto che se il governo ci controlla che male c’è».

Piattaforme, droni e app facilitano la quotidianità e garantiscono sicurezza.

«Mi son venuti i brividi quando ho sentito un ministro dire che lo Stato è benevolo. Siccome alla nostra privacy abbiamo già rinunciato andando su Facebook, allora…».

Il futuro sarà questo tanto più se i pericoli per la sopravvivenza aumenteranno?

«Nel novembre scorso sono stato una settimana a Pechino, megalopoli di 36 milioni di abitanti in cui tutto bene o male funziona. Il prezzo è un controllo totale. A me pare un passo indietro, mimetizzato con l’illusione di entrare nel futuro. Il modello è il formicaio? So che molti risponderebbero affermativamente a un questionario che prospettasse questo scenario. Per me è spaventoso».

Anche lei come Houellebecq dubita che da questa esperienza nasceranno libri interessanti?

«Sì, totale sintonia. Per quanto mi sforzi non riesco a vedere qualcuno che abbia colto la straordinarietà della situazione. Sulla Sars non ricordo un titolo significativo, solo instant book e affini».

Come giudica il fatto che Stephen King ha retrodatato il nuovo romanzo?

«Mi sembra una furbata per aggirare l’ostacolo. È difficile immaginare il futuro dopo la pandemia, il binario è ostruito da una montagna. Non basta scrivere di auto elettriche dovunque e di cellulari portentosi. Penso che ci si rifugerà nel passato. Vedremo film e leggeremo libri ambientati negli anni Ottanta o Novanta, perderemo contemporaneità».

Oppure la pandemia potrebbe essere una fonte ispirativa.

«Dopo la pandemia la gente avrà voglia di leggere storie sulla pandemia?».

Preferirà evadere?

«Penso di sì. Anche perché sento sempre di più parlare di privilegi. Si dice che per gli scrittori, che hanno la casa grande, è facile esercitarsi sul lockdown».

Non è vero?

«Qualcosa di vero c’è. Ma ognuno pensa di soffrire più degli altri. O di avere la trovata più geniale degli altri».

Tipo?

«La giunta regionale del Friuli Venezia Giulia sta pensando di trasformare una nave da crociera in ricovero per gli anziani malati di Covid-19, dismettendola finita l’emergenza. Il modello è la nave ospedale ormeggiata davanti a New York. Solo che quella è nata come ospedale, la nostra no. È la mentalità dei manager».

Ancora lei.

«Ha presente I viaggiatori della sera di Umberto Simonetta? I figli li accompagnavano sulla nave da crociera che poi tornava vuota. Una società che ammette il sacrificio dei più deboli perché non più idonei al lavoro è mostruosa. Come chi dice: riprendiamo a lavorare tanto muoiono solo i vecchi».

Più che essere narrata in modo esplicito, la convivenza con il virus diventerà una sensibilità, un contesto?

«Sono pessimista. Tra un anno nella top ten ci sarà un romanzo con la storia di una coppia durante la pandemia: lei bloccata a New York e lui a Bergamo fanno sesso in chat. E uno su come si sopravvive in montagna al tempo del coronavirus».

Alcuni suoi colleghi hanno scritto che stanno imparando l’attenzione agli altri. Lei?

«Io tendo ad avere più paura degli altri. Voglio dire: non sei sicuro se gli altri non hanno la tua stessa cautela. La sicurezza è una catena di responsabilità, bastano gli aperitivi sui Navigli a rovinare tutto. Imparare a essere responsabili è positivo. Come anche che possiamo essere più che semplici consumatori».

Come?

«Ho imparato a fare il pane in casa e ne vado fiero. Oppure si possono leggere o rileggere i libri che abbiamo già, senza comprarne compulsivamente di nuovi».

In molti romanzi distopici incombe il ritorno del nazismo. È una minaccia reale o un artificio narrativo?

«Credo sia un pericolo reale. Credo ci siano in giro soldi che non sappiamo dove sono finiti. Il nazismo conserva un fascino iconico, come per altro l’ideologia sovietica. Sono miti fondativi forti, che potrebbero tornare anche in forme sincretiche, come auspicava quel pazzo di Eduard Limonov».

Enfatizzarne la possibilità è un modo per sentirsi dalla parte giusta?

«Mai pensato di essere dalla parte giusta. Qualche giorno fa ho visto in Parlamento il leader della Lega con una mascherina nera e il tricolore. I richiami ci sono. Fascismo e nazismo propongono formule che in tempi di carestia possono essere vincenti. Nel mondo animale quando la pozza dell’acqua si restringe, scatta la solidarietà tra gli animali feroci contro quelli più deboli».

Grazie a Dio siamo esseri umani.

«Ma dopo questa pandemia dobbiamo ripensare il mondo. Per la prima volta, dopo tanto tempo, abbiamo vissuto qualcosa che ci accomuna a livello mondiale».

 

La Verità, 9 maggio 2020

«La globalizzazione è l’era della solitudine»

Ho preso casa qui, nel quartiere di mia madre e dei miei nonni. È quasi un paese, un villaggio. Vede quel negozio? Può esistere solo a Fiera». A Treviso, Fiera è il posto dei bambini perché tutti gli anni, in ottobre, arrivano le giostre, si chiamano ancora così. Il «negozio» che indica Francesco Targhetta è una stanza spoglia davanti a una parete con qualche pacchetto di sigarette, nient’altro. Accendini, sigari, tabacco, caramelle, fazzoletti di carta, giornali, bibite, quaderni, penne neanche l’ombra. Un angolo di dopoguerra sopravvissuto finora. Trentanove anni, insegnante di liceo, esordio come poeta, Targhetta ha una predilezione per i contrasti, le sacche di desolazione del turbocapitalismo, la solitudine in piena globalizzazione. Nel romanzo Le vite potenziali (Mondadori), premio Giuseppe Berto e secondo classificato al Campiello, narra di tre amici, protagonisti di una piccola epopea nel mondo dell’informatica. Ma ciò che spicca sono gli stati d’animo, certe atmosfere umbratili rese con intuizioni fulminanti. Come quella usata per descrivere un senso di smarrimento dopo una domanda rimasta in sospeso: provocò «la stessa sensazione che si prova dopo aver lanciato un boomerang e averlo perso di vista».

A fine marzo Mondadori ripubblicherà Perciò veniamo bene nelle fotografie, insolito romanzo in versi di qualche anno fa.

Come si diventa poeti nella periferia di Treviso?

«Credo sia più facile scrivere versi da posti magari non belli, ma vivi. È più difficile scrivere in contesti da cartolina o di armonia sociale. La poesia nasce da una forma di ribellione e indignazione, un po’ come tutta l’arte».

Perché è passato al romanzo?

«Avevo scritto un romanzo in versi, forma abbastanza insolita, su un gruppo di studenti fuori sede a Padova. Il romanzo è più adatto a raccontare una storia complessa e articolata».

Come mai un insegnante ambienta un romanzo nel mondo dell’informatica?

«Ritengo interessante che gli scrittori raccontino mondi altri, che non scrivano sempre di sé».

Gli scrittori non scrivono sempre di sé anche sotto mentite spoglie?

«Un po’ è inevitabile. Anzi, quando ci si maschera è più facile lasciarsi intravedere».

È la cosiddetta autofiction?

«Un tempo non era così, ma oggi le vite degli scrittori sono particolarmente noiose, la mia di sicuro. Perciò devo andare per forza alla ricerca di qualcos’altro. Ho voluto conoscere un mondo diversissimo dal mio».

Esiste la Silicon Valley del Nordest?

«È una sintesi giornalistica. Non mi sembra che il polo scientifico e tecnologico di Marghera, possa definirsi tale. Ci sono alcune aziende disseminate che però non formano un distretto compatto».

È un Nordest compiuto, ma sempre dipendente da altri centri?

«I clienti dell’azienda, i grandi marchi sono altrove. I personaggi sono costretti a spostarsi, com’è naturale per qualsiasi consulente».

La periferia consente di godere di una migliore qualità della vita attingendo al centro quando è necessario, senza subirne i condizionamenti?

«Io non riuscirei a vivere altrove. La provincia dà il tempo e lo spazio che mancano nelle grandi città. Ne ho bisogno per vivere e anche per scrivere. Poi, certo, ha i suoi abissi, l’inquietudine di un luogo dove succedono meno cose. Però questo stimola la creatività; se succedono meno cose forse puoi farle succedere tu».

Cita le vie, le piazze: perché tanta attenzione alla toponomastica?

«Ho la passione per i nomi dei luoghi. Ce ne sono di poetici, a Marghera Via dell’Elettrotecnica o Via dell’Azoto, che costeggia il canale industriale ovest, sono già poesia, non serve metterla in versi. Oppure la tautologia del paese che si chiama Paese fuori Treviso, o del lago che si chiama Lago».

Quella che racconta è una storia di tradimento di un’amicizia?

«È il motore narrativo del libro».

Il tradimento dell’amicizia è più grave di quello dell’amore? L’amore ha a che fare con un sentimento primordiale che si confronta con la tentazione, nell’amicizia la tentazione non c’è.

«Non ci avevo pensato. Nel contesto di competizione esasperata attuale le tentazioni sono altre. La fedeltà dell’amicizia non è più scontata. Viviamo vite schizofreniche, continuamente rivoluzionate: mantenere qualcosa che duri è complicato».

Parlando di Luciano, la persona in cui più si riconosce, scrive: «Ci sono persone a cui neanche una volta capita nella vita di essere amate».

«L’esclusione dall’amore è un tema che mi sta molto a cuore. È una condizione che riguarda un numero crescente di persone. Di cui però non si parla mai, perché sono vite che hanno poco di romanzesco, in cui non succede niente. È un’esclusione subita, non scelta. Una manifestazione del processo di atomizzazione in atto».

Le vite potenziali sono quelle permesse dalla rivoluzione digitale e dalla realtà virtuale?

«Sono le vite che si sovrappongono a quella presente. Internet ci fa essere qui e ora, ma al contempo altrove in un altro momento. Non sono le vite alternative delle sliding doors, ma le vite che si sommano a quella che stai conducendo. Ora sono qui, ma prima ho inviato una mail alla quale intanto mi hanno risposto, quindi sono anche lì».

Sono potenziali anche le vite di una generazione che stenta a rischiare fino in fondo?

«Direi di no. Le vite potenziali sono transgenerazionali. Un mio amico che lavora in Confindustria mi diceva che oggi vengono considerati più positivamente i curriculum con tante esperienze lavorative brevi piuttosto che quelli con poche e di lunga durata. Uno che ha cambiato più lavori ha visto più cose, fatto più esperienze, è più elastico».

Anche se a volte, come scrivi, avendo marce in più le ingranano a caso?

«Esatto».

Anche quella dei figli nella pancia delle due ragazze sono vite potenziali?

«Rappresentano l’unico spiraglio di speranza del libro».

Fuori dalla casa di famiglia di Alberto un cartello recita: «La vita è di Dio, l’aborto è contro Dio». Anche gli aborti sono vite potenziali?

«Da ricercatore universitario ho curato un libro del poeta Corrado Govoni intitolato Gli aborti. È una parola che m’insegue… Da ipotetico padre non saprei quali reazioni avrei. Ho una posizione libertaria, che difende la libertà di scelta».

Se non sono vite potenziali quelle dei feti abortiti…

«Sicuramente lo sono, non c’è dubbio. Abbiamo scelto questo titolo perché in sociologia l’aggettivo potenziali descrive l’evoluzione della contemporaneità, il cambiamento».

Vede solo lati positivi nella globalizzazione?

«No. Gli aspetti negativi sono l’aziendalizzazione delle nostre vite e il consumismo dilagante. Certe formule applicate alla sfera privata. Basta pensare alle app di appuntamenti in cui esaltiamo le nostre caratteristiche e qualità come fossimo merce in vendita».

Scrivendo un romanzo su un’azienda informatica ha dovuto misurarsi con l’anglo-italiano.

«Alla fine è un gergo, come ce l’ha ogni mestiere. L’informatica è zeppa di anglismi, ho cercato di limitarli. Mi sembrava una bella forma di attrito quello fra la lingua della letteratura e questo gergo».

Oggi i trentenni dicono «un giorno spot» anziché «qualsiasi», e «scegliamo random» anziché «a caso». Stiamo perdendo l’italiano?

«Anche “spoilerare” anziché “rovinare il finale”. Le peggiori sono le espressioni adattate in italiano. Negli ultimi anni la nostra struttura lessicale si sta restringendo, mentre la nostra lingua è molto più ricca di vocaboli. Ma per esempio gli studenti ne usano sempre meno. Per una sorta di compensazione ho voluto inserire parole desuete e da cercare nel vocabolario, per mostrare le potenzialità dell’italiano».

Appunto. Un’altra particolarità sono i periodi fluviali, un rischio se non sono ad altissima definizione.

«Questo è un aspetto a cui tengo molto. È un’altra compensazione rispetto alla frammentazione del mondo che racconto. La mia risposta è questo periodare lungo ed esteso: voi avete i codici e i numeri, io ho le subordinate. Nelle scelte linguistiche e sintattiche c’è il mio stile, la mia risposta polemica alla tecnica».

Ha avuto dei maestri locali?

«Maestri è una parola che non mi piace. Modelli invece sì. Per la poesia Guido Gozzano e Elio Pagliarani. Per la prosa Luciano Bianciardi».

L’ultimo libro letto?

«Turbulence, un libro di racconti a partire da voli aerei, di David Szalay, uno degli scrittori più talentuosi delle nuove generazioni. Uscirà in ottobre da Adelphi».

L’ultimo film?

«Suntan, un film greco con un personaggio houellebecqiano».

Houellebecqiano.

«Michel Houellebecq è uno dei miei autori preferiti. Per me il suo libro migliore è il primo, Estensione del dominio della lotta, protagonista un informatico».

Se Houellbecq fosse italiano come lo tratteremmo?

«Continuerebbe a vendere bene, come già accade. Forse s’imbatterebbe in forme di ostracismo e di pregiudizio ideologico nella stampa e tra i colleghi. È un tipo di intellettuale dissidente, anarchico e conservatore, cui la Francia è più abituata. Da noi questi autori hanno sempre faticato a emergere. Basta pensare a Curzio Malaparte».

Il politicamente corretto influenza la nostra letteratura e la nostra editoria?

«Influenza le vendite e le classifiche più che la letteratura. I veri scrittori continuano a scrivere quello che vogliono, anche se hanno poca visibilità e facilità di vendita».

Il prossimo libro?

«Ci vorranno quattro o cinque anni, sono lento. Con la scuola, scrivo solo d’estate. L’idea è chiara in testa, sto iniziando a documentarmi. Come dice Ian McEwan, tra un libro e l’altro si deve diventare persone leggermente diverse. Quindi val la pena aspettare».

Che cosa le preme maggiormente trasmettere ai suoi studenti?

«Credo che dobbiamo imparare a non reagire al dominio della tecnologia solo con le emozioni. Ma dobbiamo cercare di recuperare il pensiero critico e la capacità di riflessione e di analisi».

 

La Verità, 26 febbraio 2019