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«La sinistra non propone nulla, sa solo dire no»

Due anni e mezzo fa, dopo un periodo di penombra da pensatoio, Marcello Pera aveva ritrovato visibilità e attenzione dei media. Ma quando lo intervistai chiedendogli se, di fronte allo stato dell’Italia, si sentiva come il poliziotto richiamato dalla pensione per risolvere un caso disperato, abbozzò: «Non sto rientrando in politica», disse. Invece, ora l’ex presidente del Senato, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo, siede a Palazzo Madama nelle file di Fratelli d’Italia. «Sì, ha avuto ragione lei», concede. «Solo sul fatto che fossi in pensione non ce l’aveva. In questi anni mi sono dedicato a studiare la riforma dello Stato, un tema che mi sta a cuore».

Dopo il confronto fra la premier e le opposizioni di qualche giorno fa, come procede la riflessione su presidenzialismo o cancellierato?

«Ho visto che proseguono le audizioni per iniziativa di Giorgia Meloni al fine di trovare un testo condiviso. Mi auguro che quanto prima lo si trovi».

Se oggi dovesse tenere il discorso sullo stato dell’unione dell’Italia che immagine userebbe?

«L’immagine positiva di un Paese che sta crescendo e che ha voglia di lavorare».

Qualcuno ha parlato di un Paese infiammato, in preda a un’infezione.

«Non vedo niente di tutto questo. Vedo invece una presidente del Consiglio sempre più autorevole, in Italia e fuori. Poi c’è la contestazione della sinistra che continuando ad agitare la bandiera scolorita dell’antifascismo si mostra incapace d’immaginare un programma di governo. Perciò cerca ogni occasione per innescare una manifestazione di protesta o l’altra. È la dimostrazione di grande debolezza».

Questa infiammazione viene accesa da chi paventa il pericolo del ritorno del fascismo?

«È un’arma sempre più spuntata. Quando la premier va in giro per il mondo e in Europa nessuno si attarda su questi problemi di retroguardia».

L’ultimo appiglio è la nomina di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione Antimafia perché ritratta in una fotografia con un condannato per la strage di Bologna.

«È il tentativo di trasformare un piccolo caso nella dimostrazione di un teorema. A che serve una polemica che dura un giorno?».

È soprattutto il mondo intellettuale a ribadire queste accuse?

«Trovo che il mondo intellettuale di sinistra sia pigro, incapace di produrre idee nuove e invece molto ripetitivo di formule e parole d’ordine che non hanno seguito nella società civile. Nessuno in Italia si infiamma per la rinascita del fascismo. Ci sono temi ben più concreti. Per esempio, qualche giorno fa al Senato si è parlato del ponte sullo stretto di Messina e mi chiedo come il Pd abbia potuto votare contro una struttura che modernizza e unifica il Paese, liberando la Sicilia dalla condizione insulare».

Qualche esponente istituzionale come il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano o il presidente del Senato Ignazio La Russa potrebbe essere più misurato nelle sue esternazioni?

«Probabilmente sì. È anche vero che, insomma, sono persone sempre attese al varco e qualsiasi espressione usino viene sezionata e utilizzata per altri fini. Nelle sue iniziative, il ministro Sangiuliano si mostra sempre aperto alla discussione e non fazioso».

Sembra anche a lei che il conflitto sia più acceso sul terreno della cultura e dell’antropologia che su quello dell’attività di governo in senso stretto?

«Tra i due schieramenti ci sono differenze culturali e politiche non sanabili in materia di legislazione etica, sulla quale il governo pone giustamente dei confini che non possono essere superati. La ministra Eugenia Roccella fa bene a insistere su questo punto: un governo conservatore non può violare i principi della tradizione. Di più: non usare gli altri come mezzo di soddisfazione dei propri desideri è un principio laico. Che, nel caso della pratica dell’utero in affitto, viene palesemente violato dalla trasformazione delle donne in incubatrici».

Il dibattito non avviene in Parlamento perché la maggioranza è blindata e l’opposizione manca di leader all’altezza?

«L’opposizione mostra di non avere progetti concreti alternativi. Salvo alcuni no pregiudiziali, nulla viene elaborato e portato in Parlamento dalla sinistra. L’esempio più macroscopico è quello delle riforme istituzionali. Sulle quali il Pd è arretrato anche rispetto alle stesse posizioni del suo recente passato. È come se rinnegasse la necessità di fare queste riforme e avesse scelto come unica alternativa il dire no».

Come giudica la novità rappresentata da Elly Schlein?

«Personalmente trovo che questa novità non sia ancora sbocciata. Non si sia palesata. Non ho capito a che tipo di partito Elly Schlein stia lavorando. Ridurlo alle battaglie per i diritti delle minoranze, al gender, le famiglie arcobaleno e la maternità surrogata mi sembra troppo poco per un partito di opposizione di tradizione socialista. Davvero troppo poco».

Le è piaciuto il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni?

«Sì, mi è piaciuto. Ma mi ha anche un po’ stupito perché Mattarella ha parlato di diritti individuali diversi dai diritti delle etnie, cioè comunitari o sociali. Questa è una tipica e classica posizione liberale, che stavolta ho sentito propugnare da un uomo di cultura cattolica».

L’autore dei Promessi sposi era contrario alla difesa delle radici e della nazione?

«Non credo, è uno dei padri del Risorgimento italiano. Quindi, come per Manzoni anche per altre figure dell’epoca, la nazione e la patria erano punti fermi irrinunciabili».

In Marzo 1821 l’Italia è vista «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».

«È l’elogio della patria, madre di tutti gli italiani. L’elogio della nazione italica, un tipico concetto risorgimentale».

La parola tabù è «etnia». Si può difendere la propria identità senza che significhi propugnare «una supremazia basata sulla razza»?

«Sarebbe come dire che una persona che ami la patria e sia perciò un patriota sia necessariamente un suprematista. Non è così. La parola etnia fa riferimento alla storia. Non c’è nulla che riguardi la razza. È come quando, per esempio, si parla, con espressione analoga, di genio italico. È un modo di far riferimento alla caratteristica di un popolo».

Perché parlando di cucina, di ristoranti, di musica, persino di arredamento, l’aggettivo etnico rappresenta un valore aggiunto?

«Perché indica la ricchezza di elementi che qualificano le specificità di un popolo che non hanno nulla di negativo in sé. Tuttavia, come accade, se si parte dal presupposto che una data persona è fascista, qualsiasi espressione usi se ne trova la conferma. Alla fine osservo che la discussione su questi temi è così misera da interessare solo qualche personaggio di bassa levatura».

L’infiammazione diffusa nell’organismo del nostro Paese attraversa le piazze e le istituzioni culturali. Che cosa pensa delle proteste dei giovani di Ultima generazione?

«Sono manifestazioni assai minoritarie che ci sono sempre state ora su un tema ora su un altro. Salvo condannarne le modalità e perseguire i reati quando siano commessi, il resto lo lascerei perdere».

Anche la discussione sulle cause dell’alluvione ha un retroterra ideologico: da una parte ci sarebbe il cambiamento climatico dall’altra l’incuria del territorio.

«È così. In molti dibattiti vedo più ideologia che scienza. Su questi argomenti sappiamo molto poco e tanti scienziati seri come il professor Franco Prodi si affannano a dire che non abbiamo evidenze specifiche forti. Purtroppo questo messaggio di prudenza scientifica non passa perché l’ideologia è prevalente. Oggi l’ecologia è una nuova religione, un atto di fede».

Un altro fronte è la protesta contro il caro affitti condotta dai giovani delle tende. Con i precedenti governi gli affitti erano a buon mercato?

«Non lo erano neanche allora e le famiglie si sono sempre arrangiate. I costi degli affitti per gli studenti sono un oggettivo problema delle nostre università. Occorrerebbero atenei con degli alloggi, ma questo desiderio si scontra con il fatto che le nostre università costano poco e non offrono molto in termini di servizi».

La contestazione di una trentina di attivisti ha impedito di presentare un libro al Salone del libro, il bellissimo Una famiglia radicale di Eugenia Roccella, ma si ripete che il governo non tollera il dissenso.

«Cosa del tutto falsa, perché il ministro Roccella è persona preparata e che merita rispetto soprattutto quando espone le sue idee e chiede un confronto. In quell’occasione un gruppo minoritario e senza particolare valore ha rifiutato di confrontarsi. Ancora una volta mi hanno stupito quelle forze politiche che hanno utilizzato ciò che è avvenuto per dimostrare la natura fascista del governo. Eugenia Roccella porta un messaggio molto semplice e condiviso anche dai laici, e cioè che le donne dovrebbero essere rispettate e non usate».

La mancanza di tolleranza del dissenso da parte del governo sarebbe dimostrata dal tentativo di rimpiazzare l’egemonia culturale della sinistra.

«Se così fosse sarebbe un’operazione legittima, non vedo perché l’egemonia debba essere solo di sinistra. Ma anche in questo caso si ripropone il pregiudizio, ovvero che l’intellighenzia e la cultura siano solo di sinistra. Questo è un paradosso però, perché se sei un uomo di cultura non dovresti sottrarti al dibattito come ha proposto la Roccella».

Si riferisce all’intervento del direttore del Salone Nicola Lagioia?

«Si è comportato in maniera ambigua. Poteva essere più coraggioso e sentire meno il fiato che ha sul collo della cultura di sinistra di riferimento».

Lo spoil system e le nomine in Rai sono un modo per affermare questa nuova egemonia?

«Avevo ancora i pantaloni corti che già si parlava di spoil system».

L’attuale squadra di governo è in grado di reggere culturalmente questo tipo di conflitti?

«Suggerirei all’attuale classe di governo di essere più consapevole di sé e più coraggiosa. Bisogna elaborare posizioni e difenderle. Soprattutto liberarsi dall’idea, che è solo italiana, per cui essere conservatori equivale a essere nostalgici. Talvolta ho l’impressione che anche nell’ambito della destra quando si parla di cultura si individuino figure degne solo tra gli intellettuali di sinistra. E questo è un errore perché è falso».

 

La Verità, 27 maggio 2023

 

 

«I diritti Lgbtq funzionano nel mondo convenzionale»

S’intitola Ancora spero l’autobiografia che Marina Cicogna ha appena pubblicato da Marsilio. È il racconto della vita, che sembra romanzesca, della contessa del cinema italiano, figlia di  Cesare Cicogna Mozzoni (dinastia lombarda dal quattordicesimo secolo) e di Annamaria Volpi di Misurata (altro casato nobile) e nipote di Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, padrone della Compagnia italiana grandi alberghi (Ciga) e fondatore della Mostra del cinema di Venezia a cui sono tuttora intitolati i premi agli attori. È un’autobiografia (scritta con Sara D’Ascenzo) di case, dimore, vacanze, piscine, ricevimenti, party senza partiti, sciate al mattino presto, trasvolate oceaniche e trasgressioni senza pose, amori omosessuali. Di grandi armatori come Aristotele Onassis, di importanti produttori come David O. Selznick (Via col vento, i film di Alfred Hitchcock), di imprenditori visionari come Gianni Agnelli.

Marina Cicogna è una donna da primato, la prima a vincere l’Oscar per il miglior film straniero e la prima ad amare pubblicamente un’altra donna?

«Per quanto riguarda l’Oscar, sì. Il secondo primato non è mio, molte altre donne pubbliche mi hanno preceduto in questo tipo di relazione, soprattutto fuori dall’Italia».

Che cos’è per lei la libertà?

«Non andare controcorrente, perché vorrebbe dire lottare scientemente contro qualcosa o qualcuno. È seguire con una certa tranquillità i propri pensieri e le proprie convinzioni, senza guardarsi troppo in giro. La libertà te la fai tu, è dentro di te…».

Come si sta preparando a ricevere il David di Donatello alla carriera?

«Non faccio molti preparativi, cercherò dei vestiti che mi possano stare bene. Indosserò un abito di Valentino, come faccio nelle occasioni pubbliche. Per la sera è lo stilista più raffinato».

Se avendo lavorato solo dieci anni nel cinema le danno il David alla carriera vuol dire che ha seminato bene.

«Gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo molto felice per il nostro cinema e non certo per merito mio. C’erano tanti talenti con i quali lavorare era gratificante. Se avessi continuato oltre quei dieci anni, considerati i cambiamenti, sarebbe stato diverso. Forse per la forza della televisione e per l’importanza delle nuove piattaforme il cinema ha perso un po’ di fascino».

Suo nonno fondò la Mostra di Venezia, suo padre vinse l’Oscar con Ladri di biciclette, ma la vera amante del cinema fu lei: perché sua madre affidò a suo fratello la direzione della Euro International?

«Mio nonno fondò la Mostra perché voleva attrarre più turisti all’Hotel Excelsior e al Des Bains del Lido. Mio padre produsse Ladri di biciclette perché cedette al fascino di Vittorio De Sica. Quando la acquistarono mia madre e mia zia, la Euro era solo una società di distribuzione, avrebbero ugualmente potuto comprare un’azienda che produceva yogurt. L’unica vera appassionata di quest’arte ero io».

E come mai non le affidarono le redini dell’azienda?

«Io volevo fare dei film, non occuparmi dei conti e mia madre pensò a mio fratello Bino. Mi opposi perché non lo ritenevo adatto. Il cinema era un mondo pericoloso per un ragazzo così giovane. Infatti, dopo un po’ tutto esplose e io me ne andai».

Non prima di conquistare l’Oscar nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Perché era convinta di non vincerlo tanto che nessuno del cast presenziò alla cerimonia?

«Al Festival di Cannes avevamo preso solo il Gran premio speciale della giuria. Elio Petri e Gian Maria Volontè erano stati iscritti al Pci e non potevano ottenere il visto per l’America, Florinda Bolkan era sul set di qualche film e io avevo grossi dubbi che gli americani apprezzassero quel film con problematiche distanti dalla loro sensibilità. Fu un errore non incaricare qualcuno di ritirare la statuetta just in case. Infatti, non l’ho mai vista».

Un vostro legale, Carlo Majno, parlando di suo nonno, «un incrocio tra Giulio Andreotti e John Ford», disse che la sua famiglia era «distaccata dalla realtà in modo esagerato»: un’alterigia che ha contagiato anche lei?

«Majno descriveva l’incapacità di mia madre di affrontare la quotidianità. Non credo ci sia alterigia in me, mi pare che il libro racconti la vita di una donna con i piedi per terra».

Scrive che durante la guerra i suoi genitori «non erano gli unici aristocratici a opporsi al fascismo», eppure suo nonno fu ministro nel governo Mussolini…

«Prima, con Giovanni Giolitti era stato governatore della Libia. Poi fu ministro delle Finanze, ma nutriva una certa antipatia per Mussolini. Mi raccontarono che una volta scomparve a Roma per 48 ore e dissero che era stato preso dai fascisti, che lo restituirono dopo averlo drogato. Mio nonno non fu certo antifascista, mentre lo furono in modo deciso i miei genitori».

Conferma che Gianni Agnelli è stato l’uomo più affascinante che ha conosciuto?

«Confermo. Gli telefonavo spesso al mattino presto per consultarlo su quello che succedeva e lui aveva sempre un’idea precisa e mai banale».

Però una volta, più del suo fascino valse la lealtà verso l’amica Marella, sua moglie… Oppure l’attrazione per gli uomini era già scemata?

«Ci sono uomini che mi hanno sempre interessato molto. Se non fosse stato sposato, un passaggio con lui ci sarebbe stato di sicuro. In quel momento mi era parso inopportuno».

Con Alain Delon invece non si ritrasse e anticipò l’amica Ljuba Rosa Rizzoli che condivideva con lei la stanza in hotel, dove spuntò un bigliettino nel quale Delon invitava nella sua camera, ma senza specificare il destinatario.

«Infatti Ljuba ha sempre detto che l’invito era per lei, più affascinante e sexy di me. Ma io allora avevo una passione particolare per Delon. Quando lo vedo ancora oggi penso che all’epoca non ci fosse uomo altrettanto seducente».

Nemmeno il Leone d’oro del 1967 a Bella di giorno convinse sua madre a darle pieni poteri?

«Credo che nemmeno seppe quello che era accaduto. L’espressione di Majno sul distacco di mia madre nacque proprio in quell’occasione».

Sebbene scriva di non aver mai prodotto film «per ragioni vagamente politiche» perché Franco Zeffirelli le rimproverava di fare solo film di sinistra?

«Si riferiva a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uscito due mesi dopo la strage di Piazza Fontana, e a La classe operaia va in Paradiso che vinse a Cannes nel 1972. Zeffirelli era l’unico regista di destra del cinema italiano ed era convinto che chi aveva una certa formazione doveva pensarla come lui».

Oggi il cinema è più libero di allora?

«Allora c’era la censura e dovevamo tagliare delle scene, oggi non c’è. I registi sono davvero liberi se sono anche produttori. Poi molti lavorano con i fondi pubblici».

Prevalgono un certo conformismo e certi clan?

«Esatto. Negli anni Trenta c’era più libertà, la moglie di Franklin Delano Roosevelt frequentava un’amica. Oggi vedo più conformismo: questo non si può dire, questo non si può fare».

Quanto il suicidio di suo fratello in Brasile l’ha cambiata?

«È stata una ferita non rimarginabile, che mi ha cambiato in profondità. Anche la scoperta della malattia mi ha cambiato, perché implica davvero un’altra vita. Fino al giorno prima andavo a sciare, oggi il mio maestro di sci mi ha mandato una foto di qualche anno fa. Con la malattia le giornate sono totalmente diverse».

Se Gianni Agnelli era il più affascinante, come definirebbe Vittorio De Sica?

«Anche De Sica lo era, da napoletano. Gianni era figlio di militari torinesi, Vittorio di una famiglia di attori del Sud. Per lui ogni situazione era motivo di divertimento, di commedia».

Cosa la colpiva di Pier Paolo Pasolini?

«M’intimidiva, unico fra i tanti grandi registi con cui ho lavorato. Era un uomo che non si capiva bene a cosa pensasse. Aveva un fascino silenzioso».

E di Andy Warhol?

«È stato alcune volte mio ospite, ma non mi sono mai fatta ritrarre da lui. Era educato e di ottime maniere, molto diverso dall’immagine dell’artista ribelle che se ne aveva».

Chi è il più grande attore con cui ha lavorato?

«Direi Gian Maria Volontè, mentre con Marcello Mastroianni non ho mai lavorato. Erano di due scuole opposte: Marcello era credibile in qualsiasi ruolo, Gian Maria aveva bisogno di un personaggio in cui affondare i denti».

A quale regista o produttore di oggi si sente affine?

«Forse ad Andrea Occhipinti e Domenico Procacci di Fandango».

Il suo con Florinda Bolkan è stato uno dei primi amori omosessuali senza finzioni: come guarda alle rivendicazioni della comunità arcobaleno?

«Mi sembra che facciano parte di un mondo molto convenzionale nel quale c’è bisogno di definire le situazioni per farle accettare. Non sono a favore di queste posizioni, credo che sia inutile cercare di spiegarsi, di spiegare ogni comportamento. Ognuno di noi vive attrazioni e abitudini diverse. Forse per i trans è più difficile, ma penso che ognuno dovrebbe seguire la propria natura».

Perché anche nella vita privata ha sempre tenuto lontane l’ideologia e la politica?

«Perché non c’entrano. Ognuno può essere libero con sé stesso e vivere in modo spontaneo, senza costruzioni».

Non la pensano così i militanti del Metoo.

«Da sempre i produttori importanti a Hollywood hanno avuto rapporti bizzarri con attrici e attori. Non è un comportamento inventato da Harvey Weinstein, che pure aveva il dono di essere uno tra gli uomini più antipatici del mondo».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«Anche gli amici sono ognuno diverso. Da ragazza c’era Franco Rossellini, poi mia grande amica è stata Jeanne Moreau e ancora Ljuba Rizzoli. Non conoscevo Sara D’Ascenzo che mi ha proposto il libro e così è diventata un’amica. Quando sei nel bisogno, gli amici sanno esserti vicino senza fartelo pesare. Sono anche quelli con i quali condividi le passioni».

Benedetta Gardona con cui convive è cattolica e devota…

«Lo era di più fino a quando una sua amica d’infanzia è morta di tumore, e questo le ha fatto un po’ perdere la fede».

Lei ne è mai stata sfiorata?

«Ho ricevuto un’educazione religiosa non formale. Pensi che quando avevo 15 anni mia madre si accorse che non avevo ancora fatto la prima comunione. Ora che non sono in salute alcune domande me le pongo, ma non sono riuscita a darmi delle risposte».

L’autobiografia s’intitola Ancora spero: in che cosa, signora?

«Non so… Spero che la vita rimanente sia abbastanza accettabile. Che il morire sia dolce e non comporti troppa sofferenza. Spero anche tante cose belle per gli altri. Ho scelto queste parole per il titolo perché sono nel motto di famiglia: mi sembra dicano che uno vuole vivere di speranza più che di certezza».

 

La Verità, 6 maggio 2023

«Mio padre Gaber, uno di sinistra non della sinistra»

Di sinistra, ma coscienza critica della sinistra. Del conformismo e di quello che poi avremmo chiamato pensiero unico. Senza però mai atteggiarsi, né adagiarsi nel ruolo: l’inventore del Teatro canzone era sempre un passo avanti. E, ora che non c’è più da vent’anni, quanto manca, a tutto campo. Basterebbero i titoli delle canzoni e degli spettacoli – Far finta di essere sani, Libertà obbligatoria, E pensare che c’era il pensiero, citando poco e alla rinfusa – per dire quanto Giorgio Gaber è attuale oggi, e precursore era allora. La figlia Dalia Gaberscik ha creato e dirige l’agenzia di comunicazione Goigest (Gianni Morandi, Jovanotti, Laura Pausini ed Eros Ramazzotti tra i suoi artisti) ed è vicepresidente della Fondazione Gaber. Ma soprattutto è la custode dell’opera del padre. Per la conservazione della quale annuncia una collaborazione con la Rai.

Chi era Giorgio Gaber?

«Mio papà, semplicemente. Ho avuto presto la percezione che era un papà fuori dal comune».

Vent’anni senza di lui che mercoledì prossimo di anni ne compirebbe 84: che cosa le manca di più?

«Mi manca il riferimento delle decisioni personali e professionali. Anche sul piano artistico sono orfana, come lo sono tutti quelli che l’hanno stimato. Però abbiamo la fortuna che il suo lavoro è ancora eccezionalmente attuale».

Quanto è stata importante nella sua vita la poliomielite contratta da piccolo?

«Abbastanza, direi. Ha formato il suo temperamento, la serietà nell’affrontare le cose. È stata decisiva nella formazione di musicista, lo ha reso tenace nella costruzione dei suoi spettacoli».

Suo padre gli regalò una chitarra perché esercitandosi sciogliesse la mano colpita dalla malattia. Lui ci prese gusto e una volta disse: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia».

«È andata così».

Chi era l’uomo di spettacolo Giorgio Gaber?

«Una persona semplice e curiosa. Molto ambiziosa nel voler trovare forme d’innovazione e stimoli intellettuali. Quindi, un grande lavoratore».

Cosa significa, concretamente?

«Che non si fermava mai. La sua ricerca di temi da trattare, di cui scrivere o da mettere al centro delle conversazioni con Sandro Luporini non aveva pause. Se a una cena ricorreva un argomento capivo a cosa si stava interessando».

Un uomo di sinistra mal tollerato dalla sinistra?

«Un uomo di sinistra, non della sinistra».

Cosa vuol dire?

«Che nasce di sinistra e ha un’attitudine artistica e comportamentale che richiama i valori della sinistra, senza una necessaria appartenenza alla partitica della sinistra».

Ebbe una prima stagione artistica, quella di Torpedo blu, Il Riccardo… che cosa lo fece virare verso la canzone impegnata?

«Credo che l’incontro decisivo fu con Paolo Grassi quand’era sovrintendente del Piccolo teatro di Milano. Fino a quel momento mio padre apriva gli spettacoli di Mina, un’esperienza non semplicissima perché il pubblico aspettava Mina. Ma lui ci è stato e, sera dopo sera, ha instaurato una relazione artistica prioritaria e unica con il pubblico. Fino a iniziare a pensare, con l’incoraggiamento di Paolo Grassi, di poter chiudere con la tv. Quel rapporto lo incoraggiò a rinunciare a tutto, a fronte di un mestiere difficile come il teatro. All’inizio, non sempre agli spettacoli del Signor G c’era il pienone».

L’hanno influenzato anche la canzone francese e Jacques Brel?

«Lo affascinavano molto e sicuramente hanno influito, ma la passione per il teatro nasce con Mina».

Però non indossò mai il sussiego esistenzialista.

«No. Il teatro era solo il posto dove avevano maggiore capacità di penetrazione le cose che voleva dire».

Che rapporto aveva con le donne?

«Erano anni abbastanza affollati, per usare un suo paradigma. C’era la rivoluzione femminista e mia mamma era molto impegnata. Ma loro si fidanzarono da piccolini, 19 anni lei 24 lui. L’ho sempre visto follemente innamorato. Il rapporto con il mondo femminile è sempre transitato da una donna molto diversa dall’universo tradizionale, impegnata per il divorzio e l’aborto in anni molto caldi».

In Chiedo scusa se parlo di Maria canta: «La libertà, Maria, la rivoluzione, Maria, il Vietnam la Cambogia, Maria, la realtà». Le donne interrompono le astrattezze ideologiche e riportano alla realtà?

«Direi di sì. Mentre il mondo parlava della rivoluzione pensava fosse altrettanto importante parlare del rapporto tra un uomo e una donna».

In un altro brano canta: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione».

«Era un invito a essere concreti perché troppa ideologia finiva in chiacchiere da bar. Chiacchieriamo e pontifichiamo pure, ma se non siamo concreti rischiamo di essere dei ciarlatani, nel senso di ciarlare e basta».

In che cosa può essere considerato un precursore?

«Basta rileggere i temi affrontati con Luporini, temi dai quali per tanti anni i cantautori si sono tenuti lontano. Come le riflessioni sul rapporto di coppia, di un’attualità sconvolgente».

«Al bar Casablanca con una gauloise, la nikon, gli occhiali. E sopra una sedia i titoli rossi dei nostri giornali»: anno 1974, vide già la nascita dei radical chic?

«Potrebbe essere senz’altro così. Era un bar di Viareggio, frequentato da intellettuali».

In Io come persona, 1995, descrive «un tempo indaffarato e inconcludente», ma evoca la reazione e la responsabilità dell’io.

«La maggior contemporaneità è quando si addentra nell’analisi della persona. Abbiamo molte testimonianze di giovani che ce lo confermano. Mentre quando affronta la politica anche con pezzi ironici a volte cita figure che i miei figli ignorano, nelle questioni che riguardano l’animo umano mi sembra non ci siano rivali. S’inoltrava in un territorio unico».

È qualcosa che andrebbe protetta e tramandata ai giovani?

«Ci stiamo lavorando, raccogliendo tutti i materiali che in questi vent’anni abbiamo trovato. In collaborazione con la Rai stiamo definendo un progetto di organizzazione di tutto questo materiale».

Vedremo dei programmi tv?

«Per ora è un progetto finalizzato al recupero e alla conservazione».

Come lavoravano lui e Luporini?

«Facevano lunghissime chiacchierate. Mio padre andava in tour durante l’inverno, poi all’inizio dell’estate si ritrovavano a Viareggio, prima all’hotel Maestoso, poi al Plaza e negli anni Ottanta a casa nostra. Erano chiacchierate su tutto, che duravano dal primo pomeriggio fino a dopo cena».

Destra-sinistra è un brano del 1994: aveva già capito che erano categorie che non coglievano più l’essenza delle cose?

«Direi proprio di sì».

Non era una riflessione indotta dalla scelta di Ombretta Colli di candidarsi in Forza Italia?

«È un pezzo nato ben prima. Penso che in teatro l’avesse proposta già nel 1992-’93. Registrava le canzoni quando gli pareva. Al contrario di quello che succede oggi, lui usava il disco per fermare quello che aveva già avuto una vita a teatro».

Però tornò a votare per lei dopo anni che non lo faceva…

«È vero. Disse che il voto va dato alle brave persone e siccome pensava che sua moglie lo fosse, decise di votarla: “Non mi perdonerei mai se non fosse eletta per un voto”».

Fu criticato?

«Moltissimo. L’hanno messo in croce. Molti dei suoi ex amici della sinistra gli hanno anche chiesto di separarsi; perché qualcuno che ti chiede una cosa del genere non penso sia un tuo vero amico».

C’era qualche intellettuale in cui si riconosceva? Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco…

«Direi di no. La loro ricerca scandagliava tutti, da Borges a Pessoa a Rilke, per rubare anche a mani basse, ma dichiarando sempre il debito dalle fonti. Di italiani non ricordo di aver mai visto citato nessuno».

Il potere dei più buoni, 1998, fu un’altra profezia del buonismo terzomondista ecologista a caccia di visibilità?

«Era un sentimento omologato che faceva nascere dei sospetti sull’originalità del sentimento stesso».

Sembrano profili cuciti da un sarto, come in Si può e Il conformista.

«Non c’era un destinatario singolo. Fotografava una tendenza, un sistema di pensiero».

Per che cosa perdeva la pazienza?

«Detestava la superficialità, il tirar via le cose, il fatto di non esser seri. Diceva che voleva essere ricordato come una persona seria, la poliomielite l’aveva formato. Una cosa che diceva sempre della tv, anche a Celentano: tu provi due ore una cosa che vedranno 13 milioni di persone, io tre mesi una cosa che vedranno 300.000 persone».

Era una provocazione?

«Certo, erano grandi amici. Volle tornare in tv proprio ospite di Celentano con il quale si volevano bene».

Ha mai fatto una litigata furiosa?

«Non era un litigatore, uno che si metteva a urlare. I suoi silenzi erano punitivi e più che sufficienti, lo dico da figlia».

C’è qualcosa o qualcuno che non gli piacerebbe dell’Italia di oggi e qualcosa o qualcuno che apprezzerebbe?

«Domanda difficile. Non so cosa penserebbe degli influencer… L’approccio del successo facile non gli piacerebbe. È morto nel 2003, ma per ciò che è successo nell’intrattenimento e nella comunicazione son passati tre secoli».

Vuole raccontarci qualcosa di poco conosciuto della sua vita?

«Quando, a causa dei problemi di salute, non poteva più esibirsi a teatro, io e Paolo Dal Bon, ora presidente della fondazione, lo convincemmo a incidere un disco. Il successo di La mia generazione ha perso, che fu primo in classifica, lo spiazzò perché si accorse che il lavoro destinato al teatro lo aveva fatto arrivare a un numero limitato di persone».

Ho letto su .Con un articolo di Enzo Manes che racconta la sua partecipazione al Meeting di Rimini e l’inizio di un carteggio con don Luigi Giussani.

«Avvenne a fine anni Novanta. A proposito di persone serie, era incuriosito da gente che aveva voglia di riflettere e pensare. Confrontava quel mondo con la deriva del movimento studentesco che l’aveva affascinato ai suoi tempi».

Fu contestato dalla Pantera?

«Non ricordo. Ricordo uno scontro nel camerino del teatro Lirico con gli autoriduttori che volevano imporre esibizioni di persone qualsiasi».

Era incuriosito dalla gente del Meeting pur da posizioni diverse?

«Più di una semplice curiosità era un interesse sincero verso il mondo dei cattolici, interlocutori che lo soddisfacevano sul piano intellettuale e della passione per il ragionamento. Certo, con posizioni diverse, come sull’aborto e il divorzio».

Chi era suo padre?

«Un grande. Da ragazzina non capivo i contenuti degli spettacoli, ma vedevo la faccia delle persone quando uscivano dai teatri e capivo che era un’artista e una persona speciale. Sulla sua tomba abbiamo scritto “Artista”. Anche se lui forse avrebbe preferito “Una persona per bene”».

 

La Verità, 21 gennaio 2023

La sofisticatezza di Guadagnino sa d’ideologia

Spiace, ma tocca dissentire. Dagli osanna diffusi, dai cori entusiastici, dagli ooohh di meraviglia. I media si sono sperticati: «Una serie mozzafiato» (Vanity Fair), «Un affresco vivente e finemente dettagliato» (The New York Times), «Sbalorditiva, a dir poco bellissima» (Rolling Stone), tanto per citare qui e là. Purtroppo no, non condivido tanta esaltazione. We are who we are – Siamo ciò che siamo di Luca Guadagnino l’ho trovata irritante e indisponente. Non solo per ciò che racconta. Soprattutto per l’operazione ideologica che contiene. Per il modo di fare cinema e televisione. Scientificamente intellettuale, astratto, programmaticamente altero. Un modo che, intervistato da Marco Giusti per Dagospia, il regista di Chiamami col tuo nome ha spiegato citando Bernardo Bertolucci: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Tutto chiaro, no? Lo spunto dell’opera non è la vita, ma la nostra idea, la nostra pensata per il cinema. Che, attraverso esercizi di stile più o meno riusciti, porta a narrare qualcosa che ci sta a cuore.

Una coppia di lesbiche con figlio al seguito precipitata dentro una base militare: non è una bella pensata? Non è un’idea pittoresca? Che dà la sveglia a un ambiente retrogrado come quello dell’esercito, sebbene americano. Credevate che i battaglioni dei marines fossero uno degli ultimi posti dove il bianco e nero sono ancora tali senza troppe sfumature e distinguo? Vi sbagliate. Ecco una bella centrifuga di opposti che fa saltare il banco delle convenzioni e dimostra che il mondo gender è avanti e i militari sono indietro. Che la fluidità e la scelta di genere sono il futuro e la famiglia tradizionale opprime le libertà ancor più delle gerarchie dell’esercito. È la trovata di Guadagnino per We are who we are, otto episodi in onda su Sky Atlantic (coprodotti da Sky e Hbo con The Apartment di Wildside, entrambe del gruppo Fremantle, e Small Forward) tra gli applausi generali della critica mainstream.

Unghie smaltate, capelli ossigenati, abbigliamento queer e auricolari perennemente innestati nelle orecchie, il protagonista Frazer (Jack Dylan Grazer) si aggira irrequieto tra gli edifici dell’enclave militare citando poeti sparsi. Siamo nel 2016, durante la campagna per le presidenziali americane, e la di lui madre (precedente matrimonio, inseminazione artificiale o maternità surrogata?), interpretata da Chloë Sevigny, è il nuovo capo della base, accolto con evidente disappunto dall’ufficiale nero e trumpiano (Kid Kuli), uso a tirare di boxe con la figlia Caitlin (Jordan Kristine Seamon), coetanea di Frazer.

La pensata è astrusa e artificiale, ma la trama è costruita ad arte. Con simili genitori, infatti, non è difficile immaginare che Frazer e Caitlin abbiano qualche problema di identità e finiscano per familiarizzare, scambiandosi vestiti, confidenze sulla loro irresolutezza, condividendo il rasoio per tagliare la prima peluria sopra le labbra. È questa indeterminatezza sessuale con le sue sfumature miste tra mascolinità e femminilità il centro della storia. Una volubilità per la quale, tanto per rendere la complicazione della vicenda, si è coniato l’ossimoro «normalità trasgressiva».

Nell’intervista citata Guadagnino ricorre spesso all’aggettivo sofisticato e precisa che la sua «arte è far sembrare improvvisata una serie ultra-scritta». Stia tranquillo, nessuno l’aveva sospettato. E non solo perché, tra gli sceneggiatori, oltre a Francesca Manieri c’è il premio Strega Paolo Giordano. Ma perché tutto, dall’idea di partenza fino all’ultima ripresa, è evidentemente studiato. In una scena del terzo episodio, la madre-comandante flirta con il suo attendente sul quale ha poco prima riflettuto a voce alta: «È il mio tipo, ma non il mio genere». Stupito, Fraser osserva poco distante insieme a Caitlin, tagliata a metà dall’inquadratura. Chi è davvero colpito dalla stranezza della madre è lui. We are who we are è questo esercizio di ambiguità e doppiezza, reso anche dai movimenti della cinepresa, senza mai un centro riconoscibile. Provvisorie e oblique le riprese, sfalsate le voci rispetto ai volti. Spesso qualcuno parla, pensa a voce alta senza comparire. L’effetto è un senso d’instabilità, volubilità, fuggevolezza. Oltre che nell’abbigliamento e nel minimalismo da bidet, la fluidità è resa dall’assenza di un fulcro visivo. L’occhio del regista rallenta sugli indumenti raggrumati a bordo piscina, sulle bottiglie di birra e di whisky vuote e sui posaceneri pieni dopo lo sballo post matrimonio improvviso e improvvisato tra il milite in partenza per la missione e la bella del posto. Quella parte di Laguna popolare che rimane sullo sfondo della storia. E dove, volendo fare un bagno di realtà, la sofisticatezza di Guadagnino probabilmente risulterebbe in tutta la sua artificiosità. Chissà che cosa direbbero gli avventori di un’osteria di Chioggia o i pescatori del porto di una coppia di lesbiche con figlio in una base militare americana.

 

La Verità, 20 ottobre 2020

«La scuola che preparano ci porterà in una distopia»

Gli uomini di potere lo sanno: quando si mettono le mani sull’educazione, ci si appropria del futuro». Elisabetta Frezza non ci mette molto ad andare al sodo. Cinque figli, solidi studi giuridici e inguaribile tendenza all’approfondimento, autrice dell’introvabile MalaScuola. Gender, affettività, emozioni: il sistema “educativo” per abolire la ragione e manipolare i nostri figli (Leonardo Da Vinci), questa elegante signora di Padova intervistata spesso da Byoblu.com di Claudio Messora, nasconde dietro occhi azzurri una lucidità metallica. Al recente appello contro la scuola che sta trasformando lo studente in «paziente», scritto sotto l’egida del Ciatdm (Coordinamento internazionale associazioni per la tutela dei diritti dei minori), sottoscritto da associazioni, politici, presidi e professionisti, e indirizzato al premier, ai ministri dell’Istruzione e della Salute e ai presidenti di Camera e Senato, nei giorni scorsi è seguita una comunicazione nella quale si chiede «al presidente del Consiglio pro tempore l’immediato scioglimento del Comitato tecnico scientifico» e, tra le altre cose, si diffidano le autorità scolastiche dall’assumere qualsiasi iniziativa sanitaria in assenza del consenso della famiglia.

Iniziative durissime, signora Frezza.

«Sì, non è il momento delle sfumature. Ma mi conforta il fatto che abbiano trovato larga adesione. Stiamo ottenendo grandi riscontri, centinaia di mail di genitori e professionisti della scuola».

Che cosa l’ha spinta a scrivere questi appelli?

«Prima di tutto le misure annunciate per il ritorno a scuola: l’obbligo a tenere comportamenti conformi, il distanziamento, l’uso delle mascherine, i corridoi a senso unico alternato, che costringeranno gli scolari a seguire regole demenziali».

Per esempio?

«Ne ho avuto un assaggio con l’iscrizione di mio figlio al ginnasio, in occasione del sorteggio per smistare i ragazzi nelle classi. Una lunga fila di genitori in attesa della misurazione della temperatura, poi il lavaggio delle mani con il gel, l’autocertificazione sanitaria, la firma con penna personale per non veicolare il contagio. Ho visto questa gente docile e assoggettata, come fossimo improvvisamente precipitati in una distopia. Paradossalmente, se le autorità scolastico-sanitarie avessero chiesto di fare 10 flessioni, una piroetta e cantare Bella ciao nessuno avrebbe eccepito».

Perché da avvocato è da tempo in prima linea sui temi della scuola?

«Qualche anno fa mi sono cancellata dall’albo degli avvocati. Da madre di cinque figli ho assistito al degrado progressivo dell’istituzione scolastica e la mia formazione giuridica mi ha portato a guardarci dentro».

Che scuole hanno frequentato?

«Una piccola materna ed elementare privata che ora sta per chiudere. Poi scuole medie e liceo classico statali».

Il degrado di cui parla in cosa consiste?

«Fino a qualche anno fa, un po’ per inerzia del sistema un po’ perché resistevano alcuni bravi insegnanti, la struttura reggeva. Poi, gradualmente ma scientificamente, è stato smantellato pezzo per pezzo quell’impianto gentiliano che ha fatto della scuola italiana un modello di eccellenza sulla scena mondiale, per sostituirlo con una scuola ad impostazione spiccatamente aziendalista e mercatista».

Questo degrado si sta accentuando con l’emergenza sanitaria?

«L’epidemia è il pretesto che arriva al momento giusto. È l’ultimo ordigno che dà il colpo di grazia a un edificio già diroccato, permettendo di introdurre maggiore controllo sanitario e sociale. E di realizzare il definitivo annichilimento culturale».

Addirittura?

«Stiamo assistendo a un’evidente sostituzione dei contenuti: via le materie fondamentali, avanti l’ideologia. E poi l’ipertrofia digitale. L’abbiamo sperimentato già durante la quarantena con la didattica a distanza. In casa, con cinque figli connessi davanti allo schermo e muniti di cuffie sembrava di essere in una stazione spaziale. Si rende lo scolaro dipendente dalla protesi tecnologica, destinata alla fine a prendere su di lui il sopravvento. Pensiamo solo all’atrofia di tante attività manuali ed espressive a partire dalla scrittura. La navigazione ha sostituito la consultazione. Tutto viene smaterializzato».

È un processo irreversibile?

«Temo di sì. Anche l’introduzione dei nuovi banchi-autoscontri è funzionale. Il tavolo è scomparso e quel piccolo appoggio che lo sostituisce non può certo ospitare un quadernone, un libro di testo, magari il vocabolario. Sono fatti apposta per rendere definitiva la didattica 2.0 o 3.0 con la lavagna interattiva multimediale e il tablet. E non è l’unica conseguenza».

Le altre?

«Isolano ulteriormente lo scolaro. La figura del compagno di banco scompare, con tutto quello che significa anche dal punto di vista psicologico oltre che didattico».

Questa modifica dell’apprendimento si estende anche ai contenuti?

«Vedremo come sarà la nuova educazione civica che, approvata nell’agosto scorso, entrerà in vigore da quest’anno».

Un’idea non ce l’ha?

«Il nome della materia ci è familiare. Ma finora era una materia ancillare della storia, con l’obiettivo di fornire i rudimenti del diritto costituzionale. La nuova educazione civica sarà invece un contenitore di mainstream e comprenderà l’insegnamento di varie “educazioni”, tra cui l’immancabile educazione alla legalità o alla cittadinanza globale – e pazienza se si tratta di un meraviglioso ossimoro – e allo sviluppo sostenibile. In definitiva sarà un altro strumento volto a formare una massa di cittadini standardizzati e obbedienti».

Chi non concorda con l’educazione alla legalità?

«A dirla così nessuno. Ma da che mondo è mondo ci sono leggi ingiuste. Basti pensare a quelle razziali, per fare un esempio. Nella formula “educazione alla legalità” viene oscurata e assorbita l’idea di giustizia e il suo valore oggettivo che trascende la legge positiva. È un altro stratagemma per inculcare l’obbedienza all’autorità costituita, a prescindere da qualsiasi vaglio di ragione. Invece, se la storia ci ha insegnato qualcosa, a partire da Antigone, la legge ingiusta non va ciecamente obbedita, anzi, va combattuta proprio in nome di un principio superiore di giustizia».

Non sta disegnando uno scenario troppo cupo?

«Questo processo viene da lontano e ora sta solo accelerando. L’introduzione del modello aziendalista ha trasformato la scuola delle conoscenze in scuola delle competenze. Oggi non bisogna sapere, ma saper fare. Tutto ciò che non è utile può essere eliminato, a partire dalla storia o dalla filosofia».

Com’è avvenuta questa trasformazione?

«Con la buona scuola sono stati introdotti criteri di valutazione arbitrari, disancorati dalle materie di insegnamento. Si parla di soft skills, o competenze trasversali che riguardano le relazioni, il “benessere gruppale”, il “problem solving”, attitudini interdisciplinari che scardinano la centralità della didattica e dello studio».

Un altro spiraglio aperto all’ideologia?

«Al monopensiero obbligatorio. Quello che poi si articola in varie aree tematiche ed è improntato all’ambientalismo spinto, al genderismo, al pansessualismo, allo scientismo, all’omofilia, all’eurofilia, all’inclusività e chi più ne ha più ne metta. Tutti contenuti veicolati attraverso programmi e libri di testo aggiornati, progetti assortiti che spesso e volentieri entrano nelle scuole in groppa a esperti esterni, estranei al corpo docente, anche all’insaputa dei genitori».

Il suo libro intitolato MalaScuola è nato come critica alla «buona scuola» del governo Renzi?

«Fu un docente di teologia a incuriosirmi sul fenomeno gender, quando questo era ancora fuori dai radar, ben prima della epifania della legge renziana. Ben presto ho constatato quanto e come nella scuola si diffondevano i corsi di educazione alla sessualità e all’affettività. Quando poi ho letto il testo della legge 107 nell’estate del 2015, insieme a una collega, ho smontato il marchingegno introdotto con il comma 16».

Che sarebbe?

«Attraverso una sorta di matrioska normativa, cioè con un doppio rinvio, concatenato e permanente, la norma è di fatto soggetta a un periodico aggiornamento, realizzato attraverso semplici atti amministrativi che sfuggono a ogni controllo parlamentare perché elaborati da funzionari incardinati nel Dipartimento delle Pari Opportunità, in ossequio alla normativa europea».

Una cosa che porta lontano.

«Tutto è cominciato alle conferenze Onu del Cairo e di Pechino del 1994 e 1995. Nelle quali, come ha documentato Dale O’Leary nel suo The Gender Agenda, sono state pianificate scientificamente, con mezzi e risorse potentissime, la diffusione dell’ideologia gender, la decostruzione della famiglia e la promozione della cultura omosessualista».

Tornando alla scuola?

«Con il progetto Polite (Pari opportunità nei libri di testo ndr), l’accordo siglato tra l’Associazione italiana editori e il dipartimento delle Pari opportunità, si punta a correggere tutti i libri di testo secondo i dettami della teoria di genere, eliminando da antologie e sussidiari i contenuti politicamente scorretti in favore di altri allineati alle nuove ideologie».

La sua analisi non è esattamente un’iniezione di speranza: non sarà un tantino complottista?

«Vorrei fosse così. Purtroppo la documentazione che abbiamo a disposizione è così chiara ed esplicita da impedire ogni fantasia complottista. Lo dimostra l’impegno delle tecnocrazie internazionali come la nostra Fondazione Agnelli, dove – guarda caso – l’ex ministro Valeria Fedeli siede nel Cda. Queste centrali sono già sintonizzate sull’Agenda Onu 2030, un concentrato di filosofie mondialiste. Di cui il Global compact on education, il grande evento che si svolgerà in Vaticano il prossimo 15 ottobre sarà la summa teologica. In quell’occasione verrà sottoscritto un patto educativo globale in vista di un nuovo umanesimo. Non a caso la stessa identica espressione usata da Conte nel discorso d’insediamento del governo giallorosso».

 

La Verità, 1 agosto 2020

«Trovo intollerabile l’intolleranza dei buoni»

L’ultimo libro di Giuseppe Culicchia, E finsero felici e contenti. Dizionario delle nostre ipocrisie (Feltrinelli), è un saggio talmente lucido e godibile che andrebbe letto nelle scuole, corso di educazione civica, oppure adottato nelle facoltà di Scienze politiche e Scienze della comunicazione. Cinquantacinque anni, torinese, autore di Tutti giù per terra, da cui è stato tratto l’omonimo film con Valerio Mastandrea, da libraio Culicchia è diventato scrittore, saggista, traduttore dall’inglese e dal francese. La sua satira demolisce uno a uno i luoghi comuni dello storytelling da salotto, non necessariamente televisivo.

Cominciamo da lei, Culicchia: genitori?

«Mio padre, nato a Marsala, arrivò ventenne a Torino nel 1946. Essendosi innamorato della fidanzata di un suo amico, volle allontanarsi da quella storia. Mia madre era un’operaia tessile piemontese, figlia di un’operaia tessile. Si conobbero a metà degli anni Cinquanta e si sposarono».

Infanzia dura?

«Ero il figlio del barbiere meridionale. Diciamo che ho sperimentato sulla mia pelle una forma di razzismo senza peli sulla lingua. Ma ho avuto la possibilità di gustare gli agnolotti e il cous cous».

È vero che ha fatto il libraio prima di diventare scrittore?

«Per dieci anni. Ho scritto Tutti giù per terra nel 1994, ma fino al ’97 ho continuato a stare in libreria. Non ero sicuro di riuscire a mantenermi con le parole».

Era partito piuttosto bene.

«Sì, ma avrei potuto gestire meglio la situazione. A 28 anni ero già felice di aver pubblicato il mio primo libro. Non avevo un agente e non ce l’ho tuttora».

Formazione?

«Sono stato ventenne nel 1985, l’epoca dei paninari. Doveva ancora arrivare la prima ondata migratoria di nordafricani. Torino era molto diversa, c’era stata la marcia del 40.000 e si avvertivano i primi effetti della crisi».

Amici, politica?

«Frequentavo gli ambienti punk e i tifosi del Toro. Ascoltavo i Clash, i Sex pistols, creste verdi o rosso ciliegia».

Che cosa le ha ispirato questo libro?

«Ero in vacanza in Baviera nel 2005 e iniziavano a infastidirmi certi vocaboli che leggevo sui giornali. Le riforme del lavoro che in realtà erano controriforme. Le bombe intelligenti e le vittime civili chiamate danni collaterali. In alcune università americane fu bandito Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain».

Che lei aveva tradotto.

«La censura di Twain scattata per l’uso della parola “negro” era una follia. Twain era un abolizionista, si era arruolato nell’esercito sudista, disertando dopo due settimane. Mi tornò alla mente la profezia di George Orwell sulla neolingua».

Da allora, anni di raccolta di storpiature linguistiche e doppiopesismi?

«Adesso il tema è molto sentito. Quando Feltrinelli ha deciso di pubblicare il dizionario non erano accaduti fatti che l’hanno reso ancora più attuale».

Che cos’è l’ipocrisia?

«C’entra con il mestiere di attore, con la recita che inizia dopo che ci siamo guardati allo specchio e andiamo in ufficio. Per di più ora, ciò che un tempo si diceva al bar diventa di dominio pubblico tramite i social, che trovo molto antisocial. La signora che ha postato un vecchio scatto alle Maldive la incontriamo sotto casa; per cercare lavoro miglioriamo il curriculum. Tutti vogliamo mostrarci meglio di ciò che siamo».

È una maschera che riguarda anche il pensiero?

«Ci si uniforma alle mode e ci si astiene da esprimere il proprio per non essere criticati».

L’omologazione è frutto di superficialità o del potere del pensiero unico?

«Il condizionamento è forte. Qualche anno fa nel quartiere Aurora di Torino alcuni cittadini pakistani si organizzarono in ronde per fronteggiare lo spaccio degli africani. Se fossero stati italiani, avremmo letto titoli sbrigativi. Invece, siccome erano pakistani si scriveva: poveracci, non possono avere gli spacciatori sotto casa. Un caro amico che vive in piazza Vittorio a Roma, modello d’integrazione, mi ha raccontato che poco alla volta la convivenza si è complicata e ora c’è un comitato antidegrado: “Mia moglie, appena vede qualcosa che non va, chiama la polizia: sarà mica diventata improvvisamente fascista?”. Ecco, mi sembra che gli slogan prevalgano sul tentativo di capire».

Di fronte a certi argomenti scatta il riflesso condizionato.

«Un gigantesco cane di Pavlov. Se Dolce e Gabbana, di sicuro non due omofobi, si dichiarano contrari all’utero in affitto cadono sotto la pubblica esecrazione. Chi non si allinea è fascista. Lo sarà anche Marco Rizzo, uno degli ultimi orgogliosi comunisti, per aver detto che la maternità surrogata è mercificazione del corpo della donna?».

Il personaggio meno ipocrita e quello più ipocrita di oggi.

«Il più ipocrita è sicuramente il premier olandese Mark Rutte che dice peste e corna dell’Italia e condona le tasse ai grandi marchi della new economy. Uno che non si è mai preoccupato di essere politicamente corretto è Sinisa Mihajlovic. Ha riscosso unanime solidarietà quando si è saputo che aveva la leucemia, ma appena ha detto che in Emilia romagna avrebbe appoggiato la candidata di Matteo Salvini è stato sommerso di critiche».

Un altro capolavoro è stata l’idea di Michela Murgia di sostituire patria con matria?

«E pazienza se esisteva già madrepatria. A volte l’ideologia ci fa coprire di ridicolo. Se dobbiamo chiamare assessora una donna, il mio dentista uomo devo chiamarlo dentisto?».

Per l’omicidio delle donne si parla di femminicidio perché è un fenomeno diffuso?

«Il trattamento linguistico specifico non è una questione di quantità. A questo punto adottiamolo per tutte le minoranze: migranticidio, gaycidio, lgbtqicidio, diversamentabilicido. Nelle intestazioni delle lettere tipo cari/e compagni/e c’è chi comincia a usare l’asterisco car* compagn*. Ma un conto è leggerlo, un altro pronunciarlo».

Per il sesso valgono mille sfumature.

«Una docente inglese ha raccontato sul Guardian di esser stata rimproverata da una sua apparente studentessa perché le si è rivolta con il pronome femminile “she”, mentre, siccome ha una personalità multipla, avrebbe dovuto usare il plurale, “them”. Alla fine ha dovuto scusarsi e spiegare che non voleva mancarle di rispetto. Ormai si cammina sulle uova… Ma c’è una cosa che mi preme dire…».

Prego.

«Non vedo nella sinistra lo stesso impegno per difendere i diritti civili anche nel promuovere i diritti del lavoro. Oggi, per un figlio che si è laureato si spera in uno stage da 400 euro al mese, 3 euro all’ora. Poi ci lamentiamo se i migliori se ne vanno all’estero. Su questi temi la sinistra è scomparsa. Anzi, sei contestato se ricordi che la legge che ha introdotto il precariato l’ha fatta il primo governo Prodi. L’Italia ha compromesso il futuro delle giovani generazioni, che cosa ne sarà tra vent’anni? In Germania lo Stato rimborsa alle famiglie tutto quello che hanno speso per la formazione dei giovani perché la loro istruzione riguarda il futuro del Paese».

Perché se si promuovono tutti, la scuola non deve lasciare indietro nessuno e i genitori 1 e 2 spianano la strada ai ragazzi aumenta il disagio adolescenziale?

«Forse sarebbe stato meglio pensarci prima di abolire il voto di condotta. Quando s’inizia ad andare a scuola si entra in un’istituzione pubblica e si compie il primo passo da cittadino. La messa in discussione del principio di autorità ha portato alla deriva attuale dell’uno vale uno. Ma qui ci vorrebbe un altro libro».

È davvero convinto che quando Martina Navratilova si dichiarò omosessuale c’era più tolleranza di oggi?

«Fu molto coraggiosa a esporsi, ma aveva vinto nove volte Wimbledon ed era una figura di riferimento. A confronto con l’ossessione attuale per la correttezza gli anni Settanta erano più liberi. C’era un giornale come Il Male che faceva vignette con il Papa in piscina. La satira era accettata. Di recente quando la Navratilova ha detto che le tenniste transgender sono avvantaggiate rispetto alle donne, una cosa scontata, è stata espulsa dalle associazioni Lgbt».

Con la cancel culture siamo oltre il politicamente corretto: cosa pensa del manifesto dei 150 intellettuali di Harper’s Magazine?

«Penso che ci voleva una presa di posizione così in America. E forse non solo lì. Cosa significa che chi non è di colore non può scrivere un romanzo sul razzismo? Se è esistito, di sicuro Omero non ha partecipato alla guerra di Troia. Isaac Asimov era un robot anche lui? Se la letteratura fosse solamente scrivere di sé sarebbe davvero triste, non tutti gli scrittori hanno la vita di Ernest Hemingway. Però Halle Berry non ha potuto interpretare il ruolo di un trans perché non appartiene a quella minoranza. E all’ultima Festa del cinema di Roma Martin Scorsese è stato accolto dalle proteste delle femministe perché nei suoi film non ci sono donne protagoniste. Trovo intollerabile l’intolleranza di chi si professa tollerante».

Nel suo libro nota che dire «ho anche amici gay» vuol dire essere omofobi: è indispensabile il ddl Zan per tutelare le persone omosessuali?

«Di sicuro l’Italia, paese mediterraneo, cattolico e legato a una certa idea di famiglia, non è tra i più tolleranti nei loro confronti. Non conosco il decreto nel dettaglio, ma una legge non può risolvere la questione alla radice perché chi si esprime in modo irrispettoso, certo non cambia modo di pensare perché sanzionato».

La parola chiave del nuovo conformismo è inclusività?

«Il paradosso sta nel fatto che da un lato si rivendicano le differenze delle minoranze, dall’altro, se dici che le differenze esistono vieni attaccato perché dobbiamo essere tutti uguali».

Com’è stata accolta dagli editori l’idea di questo dizionario?

«Senza problemi. Non hanno eccepito su nulla, ma si sono augurati che i lettori fossero dotati di autoironia. È un libro divertente, ma non accomodante. Credo che alcuni possano essere in disaccordo, ma anche che il confronto sia un’occasione di arricchimento. Vale al di là del mio libro».

Non sarà troppo ottimista?

«Forse sì, il mio è un auspicio».

 

La Verità, 26 luglio 2020

 

«Racconto donne anarchiche oltre i cliché»

S’intitola femm., scritto senza maiuscole e con il punto abbreviativo, il nuovo libro di Paola Rivolta che si presenta come una grande alternativa. Questa: la possibilità di parlare di donne senza appiattirsi sull’ideologia, senza doversi necessariamente schierare con gli uomini che odiano le donne o viceversa. Un libro rarefatto e profondo, con una copertina minimal, controcorrente anche nella scelta narrativa, diciotto racconti brevi che hanno per protagoniste figure femminili del presente e del passato, donne controverse, malinconiche, prevalentemente sole, tutte figure di fantasia con la sola eccezione di quella del primo ritratto, autobiografico. Paola Rivolta, dunque: nata a Milano 62 anni fa, già autrice di Scarfiotti. Dalla Fiat a Rossfeld (Liberilibri come femm.), madre di due figlie, residente a Potenza Picena.

Come mai è finita sulle colline marchigiane?

«È stata una scelta di vita e d’amore. Qui avevamo una casa di famiglia dove venivo d’estate fin da ragazza. Poi mi sono innamorata di un uomo di queste parti. Non mi sono mai sentita una vera cittadina, anche se ho vissuto pienamente gli anni Settanta milanesi, facendo politica da cane sciolto».

Cioè?

«Alle superiori davo fastidio sia a sinistra che a destra. Ero tendenzialmente anarchica e recalcitrante alle regole. Stavo ormai finendo il liceo, quando qualcuno mi disse che certi studenti di prima e seconda venivano a scuola con la curiosità di vedere cosa m’inventavo fuori dalle lezioni».

Dopo i Settanta?

«Siccome sembravo portata per le materie letterarie e artistiche mi sono laureata in agraria, facendo la pendolare dalle Marche. Niente di più lontano dallo scrivere di oggi. Poi ho avuto la fortuna di trovare lavoro in un grande allevamento di cavalli da corsa, qui, nella valle dell’Asola. Pensavo che avrei fatto l’agronomo, invece il primo giorno, prima di partire per i campionati europei, il capitano Ermanno Mori mi mostrò un grande casolare: “Voglio creare un grande museo del cavallo, ci pensi. Quando torno, tra una settimana, ne parliamo”. C’erano libri, fotografie, stampe, dipinti».

Era cominciato l’avvicinamento alla scrittura?

«In un certo senso sì, una scrittura applicata al mondo dell’ippica nel quale m’immersi. Era una scuderia all’avanguardia, ci venivano allevatori dal Nord Europa. C’erano decine di puledri, le competizioni, io aiutavo i cavalli e i padroni problematici… Sa, spesso sono i padroni che complicano la vita agli animali. Sono stati anni splendidi, ma dopo la morte del titolare, tutto si è ridimensionato».

Tornare a Milano?

«Mai pensato, la mia casa si affaccia sulla campagna, ho il mare vicino, amo questi odori. E ora ho più tempo per scrivere».

femm. per cosa sta esattamente? Femmine, femminile, femminista?

«Sta per femmine e io sono una femminista, ma il libro non è portatore di messaggi. Non credo che la letteratura – forse sarebbe meglio dire narrativa o scrittura – serva a diffondere messaggi. È un libro femminista perché dà voce alle donne, ma non lo è nel senso politico del termine».

Non crede che proprio la possibilità di parlare di donne in modo non ideologico sia il pregio maggiore del libro?

«È una scelta. L’ideologia non appartiene alla narrativa. I miei racconti lasciano molto di non detto. Al centro ci sono individui, persone, quasi a prescindere dal fatto che siano donne. Il libro precedente era molto maschile, questo ha per protagoniste figure femminili, ma credo possa interessare molto anche gli uomini. Personalmente, non credo alle differenze tra scrittura maschile e femminile».

Perché in queste donne ritorna un senso di malinconia e solitudine?

«La parola giusta credo sia incompiutezza. La mia esperienza è questa, non vedo tanti cavalieri senza macchia e senza paura, avvolti nella piena e costante felicità. Anche le persone di successo vivono alti e bassi».

Sono storie irregolari, anarchiche come lei da giovane?

«Sono donne normali, persone fragili, attraversate da dubbi e debolezze».

Anche donne che sbagliano, peccatrici: si può dire?

«Si può, non esistono termini vietati, ognuno è responsabile delle parole che usa. Personalmente, non do un giudizio morale. Quando l’editore ha letto i primi racconti e mi ha chiesto di scriverne altri mi ha detto che lo affascinavano proprio per la loro amoralità. Non voglio salire su un piedistallo, credo che la letteratura debba affiancare i suoi personaggi, non giudicarli. Peccatrici, perché c’è una donna killer? Fa il suo mestiere, con le sue titubanze».

Almeno quelle. Peccatrici, in alcuni casi, per mancanza di consapevolezza del potere che esercitano sugli uomini.

«Sicuramente non sono eroine».

Come descriverebbe la differenza tra femminilità e femminismo?

«La femminilità è qualcosa che attiene alle femmine, il femminismo è il tentativo di affermare una visione del mondo ancora lontana dalla società in cui viviamo, nella quale le donne sono spesso penalizzate. È un progetto di cambiamento per il quale combattere. Il mio libro non combatte, ma racconta».

In società si può parlare facilmente di questi temi senza suonare il tasto delle donne vittime e infilarsi in una lista di rivendicazioni?

«Non sono una teorica e non ho scritto un saggio. Inoltre, il femminismo non è uno solo, ma sono tanti. Anche questo è un problema. Una buona parte di ingiustizie, mai denunciate prima, sono emerse in questi ultimi anni. Pensiamoci, in tanti paesi la parità nel diritto di voto o allo studio è stata raggiunta da pochi decenni. Certo, tutti i movimenti di rottura comportano degli eccessi collaterali. Ma c’è ancora molto da fare, per esempio nell’uguaglianza a livello retributivo o nello sport professionistico. E poi nella quotidianità…».

Nella quotidianità?

«Ho due figlie femmine, me ne accorgo quando esco con loro. Davanti allo specchio siamo lì a chiederci se la gonna sia troppo corta o la camicia troppo scollata. Se andiamo al cinema, dove parcheggiare può essere un problema perché all’uscita sarà buio e dovremo fare un pezzo di strada da sole. Banalmente, la quotidianità è fatta di palpatine, di sguardi molesti. Tutto questo rende le donne guerrigliere».

Se si monitorano gli sguardi maschili più o meno lubrici forse si dovrebbe sorvegliare anche l’impatto seduttivo femminile. Ci sono uomini volgari o insinuanti, ma non vede anche lei un sesso maschile intimidito e che sta perdendo il suo grado di virilità?

«Lo vedo, la perdita di virilità è una fuga. Penso che si possa essere virili sapendo rispettare la femminilità delle donne. Quasi tutti i miei amici sono uomini. Io stessa ho una forte componente razionale. Credo che dobbiamo superare gli stereotipi. Per fortuna su Facebook, l’unico social che frequento, comincio a vedere maggiore complicità da parte di uomini che rifiutano la logica della lotta tra generi».

Il movimento #Metoo ha favorito questa consapevolezza o ha esasperato lo scontro tra i sessi?

«Credo abbia favorito una presa di coscienza perché ha aiutato le donne a parlare di ciò che subiscono. Il 95% delle denunce finiscono in condanne. Ci si pensa tante volte prima di denunciare una molestia sessuale perché farlo non è la soluzione del problema, ma l’inizio di un percorso faticosissimo. Se si hanno dei figli… Si può essere costretti a cambiare città…».

È un movimento partito da Hollywood, dove questi problemi non ci sono.

«Se non fosse partito da lì non avrebbe avuto la cassa di risonanza che ha avuto e nessuno si sarebbe mosso. Quelle denunce sono servite anche a chi subisce molestie dal datore di lavoro, in ufficio o al supermercato. Banalmente, prima, quando una ragazza lo raccontava in casa alla fine la risposta era: un altro lavoro dove lo trovi?»

Invece adesso?

«C’è un po’ più di controllo perché la denuncia incombe».

Parlando di complicità fra i sessi, sicuramente il movimento #Metoo non l’ha favorita.

«Probabilmente no. Ma dobbiamo chiederci su cosa la creiamo. Non certo sulle vecchie regole e sui vecchi comportamenti. Un certo modo di ragionare è così pervasivo che ha contagiato anche le donne. A volte mi accorgo io stessa di usare formule maschiliste. Ci sono degli eccessi? D’accordo. L’importante è che qualcosa cambi. Poi le esasperazioni si correggono».

Cosa pensa della polemica che ha coinvolto Luca Argentero perché ha detto che vuole continuare a sentirsi il maschio della coppia e non gli va di avere davanti una donna che si offende se le apre la portiera o le versa l’acqua a tavola? Gli uomini sono inibiti dall’essere galanti?

«Sono gli eccessi di cui parlavo prima. Sono l’acqua sporca che sta insieme al bambino. Anche negli anni Settanta è stato così. Il romanticismo va difeso, ma io credo che una donna più libera, meno sottomessa, si possa tramutare in una maggiore libertà per l’uomo. Bisogna uscire dalle logiche di potere anche tra i sessi».

Il politicamente corretto, il femminismo esasperato, il potere crescente delle minoranze Lgbt per il quale oggi si arriva a sostenere che il sesso è una scelta e non una dotazione rischiano di eliminare il romanticismo e le differenze? Intervistato da Mattia Ferraresi sul Foglio Breat Easton Ellis, l’autore di American Psycho, ha parlato di «totalitarismo dei buoni».

«Questo rischio c’è. Sono quei famosi eccessi… Come il razzismo dei neri nei confronti dei bianchi: esiste. Oggi è tutto molto manipolato ed è difficile valutare le concatenazioni dei fenomeni sociali e di costume. L’unico criterio per provare a farlo che io conosco è mettere sempre al centro la persona».

 

La Verità, 22 settembre 2019