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«La probabilità di guerra nucleare supera il 50%»

Un eretico: si definisce così Nicola Piepoli. Sondaggista creativo, imprenditore dinamico, fondatore di ben due istituti di ricerche, il Cirm prima e, nel 2003, quello che porta il suo nome e tuttora presiede, Piepoli è soprattutto uno che custodisce le lezioni della storia. Dobbiamo parlare della guerra in Ucraina? Per prima cosa elenca i suoi maestri: «Il francese Gaston Bouthoul, l’inventore della polemologia; Franco Fornari, insigne psicologo e autore di Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti; Luigi Pagliarani, anche lui psicologo, convinto che l’unico modo per combattere la guerra è innamorarsi continuamente della vita».

Lei è innamorato?

«Io sono tra i pochi che ha un rifugio antiatomico».

Prego?

«L’ho comprato in Svizzera dove ho un appartamento di 64 metri quadrati dotato di rifugio antiatomico».

Pensa che le servirà?

«Potrebbe. La possibilità di una guerra nucleare è superiore al 50%».

Non una bella prospettiva.

«Tre giorni fa Vladimir Putin ha dichiarato che di fronte a sanzioni eccessive ricorrerà alle armi che possiede. Siamo in una guerra guerreggiata. Credo che a Mariupol si arrenderanno, ma questo paradossalmente rischierà di coalizzare ulteriormente i Paesi occidentali».

Perciò intravede la guerra nucleare?

«Non penso che Putin possa vincere con armi normali. La Russia ha una superficie doppia di quella degli Stati Uniti e un Pil come quello della Spagna, perciò non può combattere a lungo. Se non si vuole precipitare nella guerra nucleare è necessario diminuire l’aggressività del nemico, come dicevano Bouthoul e Fornari».

Come si fa?

«Studiamo la Guerra fredda. Ottobre 1962: John Fitzgerald Kennedy negozia con Nikita Kruscev il disarmo dei missili della Nato in Turchia e ottiene lo smantellamento di quelli sovietici a Cuba. Scoppia la pace, cioè la Guerra fredda. Successivamente vinta dall’America quando crolla il Muro di Berlino e l’Urss si scioglie».

Il nemico principale è la guerra o Putin?

«La guerra porta sempre distruzione. Perciò la vince chi non la fa. Tra il 1989 e il 1992 l’America ha vinto senza fare un morto. Perché la Russia rinasca servono quattro o cinque generazioni. Se Putin vuole anticipare la rivincita e l’Occidente lo vuole soffocare con le sanzioni, potrebbe ricorrere alle armi nucleari. Credo si debba lenire il suo orgoglio. Concedergli qualcosa, trattarlo da cristiano non da mostro».

La bomba atomica è fatta apposta per non essere usata?

«A dieci anni ho visto Hiroshima. I documenti fotografici di quella sciagura mi hanno terrorizzato per tutta la vita. La bomba atomica è fatta per non essere usata fino a quando non c’è qualcuno che osa usarla. Dipende dalla psicologia del capo che la detiene. E che magari si sente in pericolo».

È vero che in Italia cresce la preoccupazione per le conseguenze economiche del conflitto?

«Sì, ma resta marginale. Nella mente della gente c’è ancora la fine del Covid. Il sentimento prevalente assomiglia a quello del Dopoguerra. La gente vuole ricominciare a vivere, andare a cena, lavorare, viaggiare, pensare al futuro. La guerra in Ucraina è in secondo piano rispetto all’euforia di non avere il Covid e della fine delle restrizioni. Questo sentimento fa aumentare i consumi anche se l’inflazione ci frena».

Gli italiani sono egoisti perché poco interessati alle sorti della popolazione ucraina?

«La risposta è sì, ciascuno s’interessa di sé stesso. Adam Smith diceva che l’economia si basa sull’egoismo, non sull’altruismo. Il panettiere pensa ai suoi clienti non al futuro del Paese».

Il premier Mario Draghi ha posto l’alternativa pace o aria condizionata: quella espressione ha spostato il sentimento della popolazione riguardo alla guerra?

«No, della guerra all’Ucraina si interessano soprattutto i media».

E la gente?

«Se ne interessa meno perché è lontana».

Quella frase ha influito sulla popolarità del premier?

«È stata ininfluente. Draghi rimane attorno a un indice di 60, dietro Mattarella che è a 70. Nel febbraio 2021 anche Draghi era a 70, poi è sceso fino a 52 a maggio, risalendo oltre 60 a fine ottobre e fino a tutto gennaio 2022. Adesso si è assestato sul 60. Crollerebbe se ci facesse entrare in guerra».

Che consenso hanno le sanzioni alla Russia?

«Non ho rilevamenti. Dal mio punto di vista sono una stupidaggine perché danneggiano più noi della Russia».

Perché non abbiamo risorse alternative?

«Perché è un errore rompere rapporti internazionali che producono ricchezza. Inoltre, le sanzioni mostrano che noi vogliamo la guerra e hanno fatto imbufalire Putin, provocando il contrario dell’esito sperato».

Si percepiscono come un boomerang sulla nostra economia?

«La gente non pensa a questo, ma a godersi la vita. Claudio, il patrigno di Nerone, non è stato il più intelligente degli imperatori, ma durante il suo regno non si sono combattute guerre. Il simbolo del potere non è fare la guerra, ma non farla. Ai senatori Claudio disse che per avere il popolo devoto bisogna dare panem et circenses, cibo e giochi. La gente s’interessa dei successi dell’Inter o della Juventus. Noi organizziamo le Olimpiadi di Cortina».

È vero che decresce la preoccupazione per l’allargamento del conflitto? Se non è deflagrato in due mesi…

«Bisognerebbe studiare la mente di Putin. Nel 2014 quando ha preso manu militari la Crimea, molti prevedevano una rapido ritiro. Io ero sicuro del contrario perché l’avevo studiato. Putin ragiona in maniera paranoide».

Cioè?

«Vive la gente come nemici. Non è un merito né un demerito. Una mente paranoide ce l’ha il 25% degli italiani».

Nel 2014 Henry Kissinger scriveva che l’Ucraina appartiene all’anima russa e non può essere un avamposto dell’Occidente o di Mosca, ma dev’essere un ponte tra loro.

«Ragionando psicanaliticamente, bisogna evitare di toccare le corde che provocano una guerra. L’ideale è che Russia e Ucraina si combattano tra loro e gli altri stiano a guardare. Eviterei l’ampliamento e il nostro coinvolgimento nel conflitto».

Da chi dipende l’ampliamento in atto?

«Dalla Russia e dall’America. Joe Biden è un creatore di guerra, parla creando il nemico non l’amico. Da eretico dico che Donald Trump mostra di capire di più di polemologia. Lodare il nemico diminuisce la conflittualità, fa calare l’animus».

Il minor timore del peggioramento della guerra è suffragato anche dal contrasto all’invio delle armi all’Ucraina?

«Sono cose diverse. Gli italiani sono pacifisti, lo erano anche nel 1914 e nel 1940. E lo sono anche adesso, abbiamo il Papa tra noi. E il Papa influenza».

Anche se non è molto seguito?

«Io non sono un’anima religiosa, un cattolico praticante, sebbene sia battezzato e mi sia sposato in chiesa. Eppure, ieri mattina sono andato in chiesa a pregare Dio che ci aiuti in questo momento particolare».

Che cosa pensano gli italiani delle alleanze internazionali?

«La maggioranza non se ne interessa, viviamo nel nostro Paese. Se chiede alle persone per strada la storia della Russia molte si domandano dov’è. Quanti hanno letto Guerra e pace? Forse duecentomila persone, compresi gli studenti che lo leggono per forza».

Gli italiani sono pacifisti, ma i media non rispecchiano questa tendenza. Com’è la fiducia nel sistema dell’informazione?

«È sempre la stessa. La gente segue distrattamente l’informazione politica».

Il distacco tra popolazione ed élite è in aumento o in calo?

«È lo stesso che c’era già nel 1914 e nel 1939. In un saggio intitolato L’opinione degli italiani al tempo del fascismo la storica Simona Colarizi ha rivelato che Mussolini aveva creato un ufficio statistico servendosi di 84 responsabili, uno per provincia, che dovevano informare quotidianamente Palazzo Venezia sul sentimento dell’opinione pubblica. Da questa ricerca risulta che nel 1938-’39 gli italiani erano contrari alla guerra. Divennero favorevoli solo per un breve periodo quando sembrava fosse facile vincerla, in concomitanza della presa di Parigi da parte dei nazisti. Poi tornarono pacifisti».

Perché la serie tv con Volodymyr Zelensky nella parte di un professore che diventa presidente trasmessa da La7 in Italia è stata un flop e altrove un successo?

«Perché sono più saggi i telespettatori italiani di quelli degli altri Paesi. Non può essere capo di Stato uno che è stato un personaggio televisivo. Il diritto internazionale dice che un capo dello Stato è responsabile delle morti nel suo territorio. Ovviamente, lo stesso vale anche per Putin. Sa qual è la verità?».

Me la dica lei.

«Sia Putin che Zelensky sono due criminali di guerra perché hanno violato il diritto internazionale e fatto uccidere i loro sudditi. Ne dovranno rispondere, come accadde a Norimberga per i gerarchi nazisti. Hitler si sottrasse al processo suicidandosi. Il diritto vale anche in guerra: né Putin né Zelensky l’hanno dichiarata».

Putin non l’ha fatto perché l’invasione dell’Ucraina è la prosecuzione della guerra civile nel Donbass?

«Ed è un altro dei motivi per cui non sono ottimista».

L’Occidente ha la tendenza a colpevolizzarsi: in questa vicenda è innocente?

«George Bush senior ha violato i patti. Dopo la caduta del Muro aveva promesso a Michail Gorbaciov che non gli avrebbe creato grane in quella zona. Invece, sono entrati un minuto dopo».

Dissolta l’Urss e sciolto il Patto di Varsavia bisognava sciogliere anche la Nato?

«Oppure invitare la Russia e i Paesi dell’ex Urss a entrare nella Nato? Con un presidente come Trump una guerra come questa non sarebbe deflagrata».

Invece si vuole ancora esportare la democrazia.

«Questo è il modo in cui la vendiamo. Che cosa se ne faccia la Cina confuciana della democrazia mi riesce difficile capire. Credo si dovrebbero imparare ad accettare le rispettive diversità».

Dopo i missili su Kiev durante la visita del segretario dell’Onu Antonio Guterres gli spazi per la trattativa si sono ulteriormente ridotti.

«Si parla di de-escalation, ma accade il contrario. Putin e Biden agiscono per alimentare la guerra non per fermarla».

Ormai è uno scontro tra super potenze sulla pelle degli Ucraini.

«Al quale collabora Zelensky, sacrificando il suo popolo. Ai vicini di casa di un leader paranoide è consigliata prudenza. Henri Guisan era il comandante dell’esercito svizzero durante la Seconda guerra mondiale. La Svizzera: tra Germania, Italia e Francia. Gli hanno eretto un monumento equestre in bronzo con questa dedica: il generale che non ha mai combattuto. Una statua così non l’avranno né Zelensky né Putin».

 

La Verità, 30 aprile 2022

«L’11/9 ha tolto agli Usa il piano anti-pandemia»

Vent’anni dopo, ma Alexandre Dumas e i suoi moschettieri non c’entrano. C’entrano invece le Torri gemelle e Giancarlo Marinelli: scrittore, drammaturgo, direttore artistico dei Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. E c’entra il suo 11, pubblicato da La nave di Teseo nel ventennale della tragedia che ha cambiato la storia e proprio mentre gli Americani ritirano le truppe da Kabul. Un romanzo visionario che, attraverso le storie di alcuni protagonisti, illumina il retrobottega dell’attentato, matrice della globalizzazione del terrore. «Vent’anni dopo, nella quantità alluvionale di materiale che ho raccolto», rivela Marinelli seduto in una piazza della sua Este, «mi ha stupito un fatto che riscatta almeno parzialmente George W. Bush. In quei giorni il presidente americano stava per presentare un piano anti pandemia di 7 miliardi di dollari. Uno stanziamento che avrebbe dovuto essere rifinanziato ogni anno. Naturalmente dopo l’11 settembre fu costretto a dirottare quel denaro nella lotta contro il terrorismo internazionale». E oggi, con la crisi pandemica… «Uno dei motivi del ritiro così repentino dall’Afghanistan è la scarsità di fondi a disposizione. La priorità è fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica interna. E la concorrenza della Cina e della Russia». Nel racconto di Marinelli, oltre a Bush figlio compaiono Henry Kissinger e Condoleezza Rice, lo scrittore e drammaturgo ferocemente antiamericano, Harold Pinter, la madre di Osama Bin Laden, Alia Ghanem, la prima vittima rinvenuta dai pompieri, il prete omosessuale Mychal Judge. Ma il vero protagonista della trama è Konstantin Petrov, un ragazzo estone con la passione della fotografia, vigilante notturno al ristorante in cima alla Torre nord, al quale dobbiamo le ultime immagini del World Trade Center. Le scatta solitamente al tramonto per postarle sul suo profilo Fotki, antenato di Facebook, dove tuttora si trovano. Petrov lo fa anche la sera del 10 settembre 2001. La mattina dopo timbra il cartellino di uscita poco prima dello schianto degli aerei. Morirà un anno dopo, in un incidente stradale.

Perché un romanzo sull’11 settembre?

«Per due ragioni. La prima è che, come sempre, mi piace affrontare i grandi temi della storia. Perciò ho sentito l’esigenza di raccontare la prima tragedia vissuta da ragazzo. Stavo andando a consegnare la tesi di laurea e quel giorno…».

Aveva 27 anni.

«Mentre ero in macchina con il cellulare scarico e l’autoradio guasta, vedevo un sacco di persone invadere la strada. Allora ho riacceso il telefono e ho sentito un messaggio di mia madre che diceva di fermarmi in un posto sicuro o di tornare a casa perché stava venendo giù il mondo. Il secondo aereo si era appena schiantato».

L’altra ragione del romanzo?

«Per raccontare questa grande tragedia avevo bisogno di una chiave d’accesso, che ho trovato nelle foto di Petrov. Una decina d’anni fa a una fiera mi avevano chiesto un omaggio espositivo dell’11 settembre. Vidi quelle foto e… Il racconto dell’11 settembre è prigioniero di un certo gigantismo, aerei, grattacieli, terrorismo. Le istantanee di Petrov mi regalavano uno sguardo intimo. Così la mia storia è cosparsa di piccoli oggetti, una penna, un orecchino perduto, una forcina per capelli. Poi c’è anche una terza ragione».

Sentiamo.

«Ha a che fare con un certo senso di colpa legato alla mia critica dell’America. Ho sempre pensato che il sistema di vita degli americani fosse distante dal mio. È sicuramente un’avversione ideologica. Perciò mi sono ritrovato in Harold Pinter, il drammaturgo che la vigilia della tragedia in una conferenza all’università di Firenze parla dell’America come del vero “Stato canaglia” da attaccare. Quello che succede il giorno dopo mi ha fatto riavvicinare a un popolo che non ho mai amato».

11 è un romanzo visionario pronto per il teatro?

«Dovevo produrlo già l’anno scorso, ma con il Covid… Il testo di riferimento è Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. Son partito da lì, ma non so cos’è diventato: un radiodramma, un’opera per il teatro, per il cinema, forse un romanzo. Ci sono tanti frammenti attaccati, da vivisezionare e slegare…».

Come ne esce George W. Bush?

«Ho trovato straordinario che, dopo l’annuncio dell’attacco, sia rimasto per otto minuti in quella classe elementare. Penso sia diventato presidente degli Stati uniti in quel momento. Tra gli scolari una bambina non gli toglie gli occhi da dosso. Anni dopo, arruolandosi nei marine, racconterà che guardando Bush si era accorta che qualcosa non andava e, tuttavia, si era sentita protetta. Fino a quel momento George W. era considerato un ubriacone raccomandato, ma quella tragedia lo emancipa dall’ombra del padre. Al contrario, qualche giorno fa abbiamo sentito Joe Biden blandire l’opinione pubblica e giustificarsi citando la dolorosa morte del figlio».

Kissinger divide il mondo fra quelli che sparano, la destra, quelli che soccorrono, la sinistra, e le vittime e i famigliari, la maggioranza.

«È una frase che gli presto io, ma credibile nella sua visione. Per me Kissinger ha un’intelligenza molto europea. Mi duole dover dire che è una frase datata, che fotografava l’America del 2001. Oggi che la sinistra sia quella che cura è tutto da verificare».

Come le è venuta la Condoleezza Rice pianista che a un certo punto aiuta un prete gay a confezionare particole?

«In America può succedere. La Rice è l’incarnazione del sogno americano, a differenza di Kamala Harris non proviene da una famiglia altolocata. Con le sue luci e ombre è stata una grande pianificatrice. Il prete è la prima vittima certificata, omosessuale dichiarato e non praticante. Anche lui incarna la visionarietà della realtà».

Poi c’è la madre di Osama Bin Laden.

«Ho trovato commovente che nell’unica intervista rilasciata nel 2018 abbia detto che suo figlio era stato traviato dalle cattive compagnie».

Per dire quanto può essere distorto l’amore materno?

«E anche quanto rifiuti di arrendersi».

Harold Pinter?

«Non è un autore che amo. E il suo attacco all’America del giorno prima evidenzia la sottile ipocrisia degli intellettuali: non sarà mai che qualcuno attua ciò che preconizzo. Gian Antonio Cibotto diceva che ci sono intellettuali militanti, ma non intellettuali militari. Invece tre ore dopo che Pinter auspica un attacco all’America, Bin Laden lo realizza. Da quel giorno la sua produzione artistica si spegne e lui comincia ad avere problemi alle corde vocali. È come se ingoiasse la sua voce fino a morire per un tumore all’esofago, come in una sorta di nemesi dantesca».

L’arte, la politica e la Chiesa non escono bene: siamo disarmati?

«Escono bene gli uomini se proviamo a staccarli dalle categorie che rappresentano. Il vero protagonista è Petrov, l’esule estone che ama la fotografia. È l’occhio puro che guarda all’America come a un mondo irraggiungibile e che forse è meglio non raggiungere, pena la disillusione».

Allora come oggi l’Occidente è assente?

«Mi chiedo se siamo davvero affini agli americani. L’Occidente contempla America ed Europa insieme? Penso che le Torri gemelle, e prima la guerra in Jugoslavia, abbiano evidenziato una distanza. Vent’anni dopo c’è prima l’America e poi arriva l’Europa. Detto questo, preferisco morire tutta la vita americano piuttosto che vivere un giorno da cinese».

Vent’anni dopo la sintesi del dibattito sull’esportazione della democrazia è che è possibile in Europa, Giappone e India, non nei Paesi islamici?

«Se a un islamico moderato dico che sono cristiano la sua replica è: “Allora sei infedele”. Chi non è islamico non è un’altra cosa, ma è un infedele, cioè il male. Ciò detto, le chiacchiere stanno a zero. Anche quelle sull’integrazione».

Cosa pensa della narrazione dei talebani cambiati?

«Come si fa a parlare di talebani moderati. È come dire “sole piovoso”. Più che un ossimoro è un’assurdità. Non a caso se lo dici a loro si offendono».

L’ha colpito di più l’immagine dei bambini consegnati ai marines oltre il muro di Kabul o del giornalista tv sorvegliato dai talebani con il mitra?

«L’immagine che più mi ha colpito è una ragazza di Kabul che vede in lontananza cinque talebani e si tira su il velo per coprirsi. Era abituata a stare a viso scoperto. Come le sue coetanee che andavano a scuola con i ragazzi. Sarà stato fallimentare, ma per una libertà così valeva la pena rimanere altri 20 anni».

Condivide il pensiero di Luca Doninelli secondo cui «la letteratura è muta di fronte alla tragedia», alla pandemia, all’Afghanistan?

«Sì, il mio libro è un tentativo di risposta. Rispetto al mondo intellettuale de sinistra resto un cane sciolto. La vera letteratura è quella che sa dire qualcosa di fronte ai grandi fatti della storia. Io ci provo, ma è vero come dice Doninelli che non lo facciamo più. Secondo me, non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di altezza».

I talebani hanno culturalmente vinto? Talebano è diventato un aggettivo corrente, sinonimo di estremismo e integralismo.

«Dobbiamo riconoscere che qualcuno li ha sdoganati, tanto che non ci fanno più orrore. Li ha sdoganati la Cina. Dinanzi a uno Stato che ha l’arroganza di comprare qualsiasi cosa, che si porta via il bambino dal ventre delle donne, a un colosso inattaccabile sulle cause del coronavirus, i talebani risultano sopportabili. A loro giova l’incubo cinese, un governo pandemico al quale ci siamo assuefatti. La posizione veramente estrema e costruttiva è la disponibilità alla mediazione. Come insegna Petrov le foto belle vengono quando ci sono le nuvole e le penombre, non quando il sole acceca o è buio».

Un esempio di cultura talebana è il politicamente corretto con le sue imposizioni linguistiche?

«Altroché. Se la legge Zan fosse in vigore questo libro andrebbe al rogo. Quando si arriva a dire che il principe azzurro è un molestatore perché non ha chiesto il permesso a Biancaneve di svegliarla, allora non c’è riparo. Il politicamente corretto è il Corano del linguaggio. Per fortuna gli uomini sono più forti del talebanismo».

Un altro esempio è nell’impossibilità a manifestare perplessità sugli obblighi politico-sanitari attuali?

«In parte sì. Trovo che il generale Figliuolo vada ringraziato perché ha riportato un po’ d’ordine nel bailamme delle primule. Il vaccino o lo facciamo o no. Alla prima lezione di filosofia ti insegnano che qualunque male non lo sconfiggi se non ne capisci l’origine. Così siamo condannati a ricaderci. Se non si capisce da dove è partito il focolaio in ogni momento può riaccendersi».

 

La Verità, 4 settembre 2021