«L’11/9 ha tolto agli Usa il piano anti-pandemia»

Vent’anni dopo, ma Alexandre Dumas e i suoi moschettieri non c’entrano. C’entrano invece le Torri gemelle e Giancarlo Marinelli: scrittore, drammaturgo, direttore artistico dei Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. E c’entra il suo 11, pubblicato da La nave di Teseo nel ventennale della tragedia che ha cambiato la storia e proprio mentre gli Americani ritirano le truppe da Kabul. Un romanzo visionario che, attraverso le storie di alcuni protagonisti, illumina il retrobottega dell’attentato, matrice della globalizzazione del terrore. «Vent’anni dopo, nella quantità alluvionale di materiale che ho raccolto», rivela Marinelli seduto in una piazza della sua Este, «mi ha stupito un fatto che riscatta almeno parzialmente George W. Bush. In quei giorni il presidente americano stava per presentare un piano anti pandemia di 7 miliardi di dollari. Uno stanziamento che avrebbe dovuto essere rifinanziato ogni anno. Naturalmente dopo l’11 settembre fu costretto a dirottare quel denaro nella lotta contro il terrorismo internazionale». E oggi, con la crisi pandemica… «Uno dei motivi del ritiro così repentino dall’Afghanistan è la scarsità di fondi a disposizione. La priorità è fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica interna. E la concorrenza della Cina e della Russia». Nel racconto di Marinelli, oltre a Bush figlio compaiono Henry Kissinger e Condoleezza Rice, lo scrittore e drammaturgo ferocemente antiamericano, Harold Pinter, la madre di Osama Bin Laden, Alia Ghanem, la prima vittima rinvenuta dai pompieri, il prete omosessuale Mychal Judge. Ma il vero protagonista della trama è Konstantin Petrov, un ragazzo estone con la passione della fotografia, vigilante notturno al ristorante in cima alla Torre nord, al quale dobbiamo le ultime immagini del World Trade Center. Le scatta solitamente al tramonto per postarle sul suo profilo Fotki, antenato di Facebook, dove tuttora si trovano. Petrov lo fa anche la sera del 10 settembre 2001. La mattina dopo timbra il cartellino di uscita poco prima dello schianto degli aerei. Morirà un anno dopo, in un incidente stradale.

Perché un romanzo sull’11 settembre?

«Per due ragioni. La prima è che, come sempre, mi piace affrontare i grandi temi della storia. Perciò ho sentito l’esigenza di raccontare la prima tragedia vissuta da ragazzo. Stavo andando a consegnare la tesi di laurea e quel giorno…».

Aveva 27 anni.

«Mentre ero in macchina con il cellulare scarico e l’autoradio guasta, vedevo un sacco di persone invadere la strada. Allora ho riacceso il telefono e ho sentito un messaggio di mia madre che diceva di fermarmi in un posto sicuro o di tornare a casa perché stava venendo giù il mondo. Il secondo aereo si era appena schiantato».

L’altra ragione del romanzo?

«Per raccontare questa grande tragedia avevo bisogno di una chiave d’accesso, che ho trovato nelle foto di Petrov. Una decina d’anni fa a una fiera mi avevano chiesto un omaggio espositivo dell’11 settembre. Vidi quelle foto e… Il racconto dell’11 settembre è prigioniero di un certo gigantismo, aerei, grattacieli, terrorismo. Le istantanee di Petrov mi regalavano uno sguardo intimo. Così la mia storia è cosparsa di piccoli oggetti, una penna, un orecchino perduto, una forcina per capelli. Poi c’è anche una terza ragione».

Sentiamo.

«Ha a che fare con un certo senso di colpa legato alla mia critica dell’America. Ho sempre pensato che il sistema di vita degli americani fosse distante dal mio. È sicuramente un’avversione ideologica. Perciò mi sono ritrovato in Harold Pinter, il drammaturgo che la vigilia della tragedia in una conferenza all’università di Firenze parla dell’America come del vero “Stato canaglia” da attaccare. Quello che succede il giorno dopo mi ha fatto riavvicinare a un popolo che non ho mai amato».

11 è un romanzo visionario pronto per il teatro?

«Dovevo produrlo già l’anno scorso, ma con il Covid… Il testo di riferimento è Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. Son partito da lì, ma non so cos’è diventato: un radiodramma, un’opera per il teatro, per il cinema, forse un romanzo. Ci sono tanti frammenti attaccati, da vivisezionare e slegare…».

Come ne esce George W. Bush?

«Ho trovato straordinario che, dopo l’annuncio dell’attacco, sia rimasto per otto minuti in quella classe elementare. Penso sia diventato presidente degli Stati uniti in quel momento. Tra gli scolari una bambina non gli toglie gli occhi da dosso. Anni dopo, arruolandosi nei marine, racconterà che guardando Bush si era accorta che qualcosa non andava e, tuttavia, si era sentita protetta. Fino a quel momento George W. era considerato un ubriacone raccomandato, ma quella tragedia lo emancipa dall’ombra del padre. Al contrario, qualche giorno fa abbiamo sentito Joe Biden blandire l’opinione pubblica e giustificarsi citando la dolorosa morte del figlio».

Kissinger divide il mondo fra quelli che sparano, la destra, quelli che soccorrono, la sinistra, e le vittime e i famigliari, la maggioranza.

«È una frase che gli presto io, ma credibile nella sua visione. Per me Kissinger ha un’intelligenza molto europea. Mi duole dover dire che è una frase datata, che fotografava l’America del 2001. Oggi che la sinistra sia quella che cura è tutto da verificare».

Come le è venuta la Condoleezza Rice pianista che a un certo punto aiuta un prete gay a confezionare particole?

«In America può succedere. La Rice è l’incarnazione del sogno americano, a differenza di Kamala Harris non proviene da una famiglia altolocata. Con le sue luci e ombre è stata una grande pianificatrice. Il prete è la prima vittima certificata, omosessuale dichiarato e non praticante. Anche lui incarna la visionarietà della realtà».

Poi c’è la madre di Osama Bin Laden.

«Ho trovato commovente che nell’unica intervista rilasciata nel 2018 abbia detto che suo figlio era stato traviato dalle cattive compagnie».

Per dire quanto può essere distorto l’amore materno?

«E anche quanto rifiuti di arrendersi».

Harold Pinter?

«Non è un autore che amo. E il suo attacco all’America del giorno prima evidenzia la sottile ipocrisia degli intellettuali: non sarà mai che qualcuno attua ciò che preconizzo. Gian Antonio Cibotto diceva che ci sono intellettuali militanti, ma non intellettuali militari. Invece tre ore dopo che Pinter auspica un attacco all’America, Bin Laden lo realizza. Da quel giorno la sua produzione artistica si spegne e lui comincia ad avere problemi alle corde vocali. È come se ingoiasse la sua voce fino a morire per un tumore all’esofago, come in una sorta di nemesi dantesca».

L’arte, la politica e la Chiesa non escono bene: siamo disarmati?

«Escono bene gli uomini se proviamo a staccarli dalle categorie che rappresentano. Il vero protagonista è Petrov, l’esule estone che ama la fotografia. È l’occhio puro che guarda all’America come a un mondo irraggiungibile e che forse è meglio non raggiungere, pena la disillusione».

Allora come oggi l’Occidente è assente?

«Mi chiedo se siamo davvero affini agli americani. L’Occidente contempla America ed Europa insieme? Penso che le Torri gemelle, e prima la guerra in Jugoslavia, abbiano evidenziato una distanza. Vent’anni dopo c’è prima l’America e poi arriva l’Europa. Detto questo, preferisco morire tutta la vita americano piuttosto che vivere un giorno da cinese».

Vent’anni dopo la sintesi del dibattito sull’esportazione della democrazia è che è possibile in Europa, Giappone e India, non nei Paesi islamici?

«Se a un islamico moderato dico che sono cristiano la sua replica è: “Allora sei infedele”. Chi non è islamico non è un’altra cosa, ma è un infedele, cioè il male. Ciò detto, le chiacchiere stanno a zero. Anche quelle sull’integrazione».

Cosa pensa della narrazione dei talebani cambiati?

«Come si fa a parlare di talebani moderati. È come dire “sole piovoso”. Più che un ossimoro è un’assurdità. Non a caso se lo dici a loro si offendono».

L’ha colpito di più l’immagine dei bambini consegnati ai marines oltre il muro di Kabul o del giornalista tv sorvegliato dai talebani con il mitra?

«L’immagine che più mi ha colpito è una ragazza di Kabul che vede in lontananza cinque talebani e si tira su il velo per coprirsi. Era abituata a stare a viso scoperto. Come le sue coetanee che andavano a scuola con i ragazzi. Sarà stato fallimentare, ma per una libertà così valeva la pena rimanere altri 20 anni».

Condivide il pensiero di Luca Doninelli secondo cui «la letteratura è muta di fronte alla tragedia», alla pandemia, all’Afghanistan?

«Sì, il mio libro è un tentativo di risposta. Rispetto al mondo intellettuale de sinistra resto un cane sciolto. La vera letteratura è quella che sa dire qualcosa di fronte ai grandi fatti della storia. Io ci provo, ma è vero come dice Doninelli che non lo facciamo più. Secondo me, non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di altezza».

I talebani hanno culturalmente vinto? Talebano è diventato un aggettivo corrente, sinonimo di estremismo e integralismo.

«Dobbiamo riconoscere che qualcuno li ha sdoganati, tanto che non ci fanno più orrore. Li ha sdoganati la Cina. Dinanzi a uno Stato che ha l’arroganza di comprare qualsiasi cosa, che si porta via il bambino dal ventre delle donne, a un colosso inattaccabile sulle cause del coronavirus, i talebani risultano sopportabili. A loro giova l’incubo cinese, un governo pandemico al quale ci siamo assuefatti. La posizione veramente estrema e costruttiva è la disponibilità alla mediazione. Come insegna Petrov le foto belle vengono quando ci sono le nuvole e le penombre, non quando il sole acceca o è buio».

Un esempio di cultura talebana è il politicamente corretto con le sue imposizioni linguistiche?

«Altroché. Se la legge Zan fosse in vigore questo libro andrebbe al rogo. Quando si arriva a dire che il principe azzurro è un molestatore perché non ha chiesto il permesso a Biancaneve di svegliarla, allora non c’è riparo. Il politicamente corretto è il Corano del linguaggio. Per fortuna gli uomini sono più forti del talebanismo».

Un altro esempio è nell’impossibilità a manifestare perplessità sugli obblighi politico-sanitari attuali?

«In parte sì. Trovo che il generale Figliuolo vada ringraziato perché ha riportato un po’ d’ordine nel bailamme delle primule. Il vaccino o lo facciamo o no. Alla prima lezione di filosofia ti insegnano che qualunque male non lo sconfiggi se non ne capisci l’origine. Così siamo condannati a ricaderci. Se non si capisce da dove è partito il focolaio in ogni momento può riaccendersi».

 

La Verità, 4 settembre 2021