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Da trent’anni il Tg5 è alternativa di leggerezza

Davvero una simpatica situazione». Ci vollero tutta l’autoironia e la prontezza di Enrico Mentana per sdrammatizzare il doppio infortunio all’esordio del Tg5, la sera del 13 gennaio 1992. Il primo servizio in scaletta su un omicidio a Genova non partì e nemmeno il secondo su un duplice delitto a Firenze. Il direttore-conduttore sollevò la cornetta… Era così atteso il debutto del telegiornale di Canale 5 che in sala di regia erano tutti paralizzati dall’emozione, incluso Lamberto Sposini che sovrintendeva in redazione. La squadra dei fondatori comprendeva anche Emilio Carelli, Cesara Buonamici e Clemente Mimun, gli ultimi due unici superstiti e attuali vicedirettore e direttore della testata.

Mentana, 37 anni, era un enfant prodige di Mamma Rai. Contattato da Gianni Letta, era approdato alla Fininvest nell’autunno del 1991 per competere con il Tg1. Anche Sposini e Mimun avevano alle spalle una formazione nella tv pubblica. La legge Mammì aveva permesso, ma anche imposto, che le reti commerciali trasmettessero un proprio notiziario e, dopo vari tentativi guidati da Emilio Fede, Canale 5 decise di fare le cose in grande. L’avvento del nuovo telegiornale rinverdiva la sfida al monopolio Rai e aggiornava l’epopea d’inizio anni Ottanta scolpita nel famoso «corri a casa in tutta fretta c’è un Biscione che ti aspetta». Con il Tg5 le tv commerciali completavano il passaggio all’età adulta. Per l’informazione fu un evento storico. Il nuovo telegiornale dava più spazio alla cronaca, praticamente ignorata da quelli ufficiali, più attenzione alla quotidianità della gente comune, riducendo al minimo indispensabile la politica, finora somministrata «come una medicina serale», aprendo a contenuti più leggeri.

Che però non fosse un esordio in discesa, come magari auspicava Silvio Berlusconi, e come, in un certo senso, il piccolo inconveniente della prima sera aveva preconizzato, lo si capì un mese dopo, con la deflagrazione di Tangentopoli (17 febbraio 1992). Paolo Brosio piantò la tenda davanti alla fermata del tram di Palazzo di giustizia. Era un’altra Italia. Alcuni dei protagonisti di quella stagione non ci sono più, altri hanno cambiato vita, altri ancora solo testata. Una costante, però, è rimasta invariata: il Tg5 come una grande possibilità. Come alternativa alle narrazioni ufficiali, intrise di politica quando non d’ideologie affini al momentaneo padrone del vapore. Come spazio d’informazione sintonizzato sull’italiano medio. Senza troppe pose e all’insegna di una certa leggerezza. Qualche volta pure troppa.

 

La Verità, 13 gennaio 2022

Pif e l’Italia dal punto di vista del marziano

E chi se lo ricordava Carlo Palermo, alla cui vita la mafia attentò nel lontano aprile 1985? E chi se la ricordava la strage di Pizzolungo, nella quale, al posto del magistrato, persero la vita tre persone innocenti, che viaggiavano casualmente nella loro macchina tra l’autobomba allestita da Cosa nostra e la vettura di Palermo e della scorta. Una storia completamente dimenticata, messa al centro della puntata d’esordio di Caro Marziano, la striscia serale ideata e realizzata da Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, (Rai 3, lunedì-venerdì, ore 20.30, share del 7,3%). In fondo, l’idea è semplice: una videolettera indirizzata a un alieno per raccontare il nostro Paese, magari partendo dai suoi angoli meno noti. Una sorta di escamotage linguistico dal sapore vintage. Quante volte ci siamo detti, anche nelle redazioni dei giornali, «se provi a spiegare questa faccenda a un marziano o al primo passante per strada ci metti un’ora». Pif c’impiega i 12 minuti di un video realizzato con telecamerina e poi rimontato, che si conclude con un appello al marziano del protagonista della storia.

Il nuovo viaggio in Italia parte, dunque, dalla strage di Pizzolungo, paesino in provincia di Trapani, altra città rimossa dalle cronache nazionali. Per farlo ha chiamato Margherita Asta, figlia della donna e sorella dei due gemellini, tutti morti nell’attentato. Senza cedere alla commozione Margherita ha ricordato quella giornata e il favore del destino che le permette di farlo: quel mattino i suoi fratelli stavano litigando sui vestiti da indossare, così lei, per non tardare a scuola, usufruì del passaggio di una vicina di casa. Una volta giunta in classe, fu chiamata dalla professoressa e riaccompagnata a casa. S’incaricò la zia di comunicarle l’accaduto. Il padre, invece, lo apprese ancora dopo. Insieme andarono sul luogo dell’attentato e, sul muro di un palazzo ben distante dal luogo dell’esplosione, Margherita vide la macchia di sangue dei suoi famigliari, dilaniati dall’autobomba. Oltre un anno dopo il padre si risposò, dando una nuova madre a Margherita, ma provocando una disapprovazione dei paesani superiore a quella per la strage mafiosa. Pif alterna al racconto in presa diretta le immagini dei telegiornali dell’epoca, riuscendo a non perdere in leggerezza, ma al contempo, senza nulla togliere alla drammaticità della vicenda. Confermando uno stile documentaristico stupito e disincantato, lontano dall’architettura ideologica di Michele Santoro e dalla retorica dell’impegno civile di Roberto Saviano. Ci si augura che, con la scusa d’illustrare qualcosa ad un altro, riusciamo a capirla meglio anche noi.

 

La Verità, 5 maggio 2017