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«La fede è una bomba, ma il dolore dei bambini…»

Ciao Rosa, vorrei intervistare Verdone sul Natale. Rosa Esposito (ufficio stampa di Carlo Verdone): «In questi giorni sta girando la quarta stagione della serie. Non ha un minuto, è regista e attore». Proprio perché non ho perso un episodio voglio vedere se sono l’unico a cui riesce a dire di no. «Va bene, Maurizio: glielo chiedo…». Un paio d’ore dopo, su whatsapp: «Carlo prova a chiamarti oggi».
Com’è il Natale nella vita di Carlo?
«Nell’infanzia e nell’adolescenza fino a quand’ero universitario sono stati natali felici perché eravamo una famiglia molto unita. C’era la tradizione di trovare un regalo sotto l’albero, da bambino la pistola di Pecos Bill o, dopo, i racconti di Anton Cechov che mio padre mi regalò a 23 anni. Un libro che poi mi servì, perché al saggio di regia del Centro sperimentale portai proprio un racconto di Cechov».
E più avanti negli anni?
«Mi sono divertito, e mi diverto, a far trovare i regali sotto l’albero a Giulia e Paolo, i miei figli. Mi spiace quando sento dire: “Il Natale che tristezza, non vedo l’ora che passi”. Dovrebbe essere una festa che dà serenità e pacifica. Oggi le famiglie sono cambiate e non c’è più quel momento di aggregazione in casa, una volta la cena insieme era quasi una legge».
È stata una festa caciarona o intima?
«Non amo il Natale caciarone. L’ho trascorso con i miei figli e mio fratello. Una serata semplice. Ho la fortuna di avere una casa che sta in alto e di godermi il panorama del Gianicolo».
Ha una particolare tradizione di famiglia che ha mantenuto?
«Andavamo a messa nella chiesa di San Salvatore in Onda e continuo a farlo anche se adesso abito più lontano. Quando stavamo nella casa sopra i portici in Lungotevere dei Vallati, il palazzo dava su Via dei Pettinari, dove si trova quella chiesa importante per la mia famiglia perché, durante la guerra, i preti Pallottini nascosero mio zio che, avendo sposato una donna ebrea, era ricercato».
Importante.
«È anche la chiesa dove si sono sposati i miei genitori e anch’io sono stato battezzato lì. È piccola, elegante. Mia madre, che era di idee progressiste ma anche molto cattolica, aveva la devozione del primo venerdì del mese e amava che la condividessi con lei, come per un po’ ho fatto. Quindi quella chiesa mi ricorda mia madre, e anche il presepio dei Pallottini. In questi giorni lei ci portava a vedere i presepi e alla fine del giro facevamo insieme la classifica di quello più poetico».
Adesso i presepi non si fanno per non irritare i non cristiani.
«Non capisco molto questi problemi. Se andassi in un Paese islamico non contesterei le loro tradizioni».
Spesso siamo noi ad autocensurarci.
«È un’ipocrisia intellettuale, una cautela dei salotti, non una cosa che parte dal proletariato».
Negli ultimi anni il suo è un Natale più religioso?
«Forse lo era di più qualche anno fa, quando speravo che il mondo seguisse strade meno tormentate, con meno guerre, meno tensioni. Andando avanti con gli anni si prova un grande dolore se alcune persone alle quali si è voluto un bene dell’anima, persone che non hanno mai fatto male a nessuno, improvvisamente se ne vanno e magari sono più giovani di te. Questo fatto mi sconvolge… Ma ce n’è un altro che mi turba ancora di più».
La ascolto.
«Sono rimasto due giorni intristito dopo aver visitato i bambini affetti da tumore all’istituto oncologico. Con che coraggio diciamo che la vita è meravigliosa? La vita dipende dalla buona sorte. Sì, poi c’è una democrazia perché tutti dobbiamo morire. Ma quando vedi un bambino di sei anni che non riesce a parlarti perché ha un tumore ai polmoni, non reggi… Mi sono inventato una scusa per uscire dalla stanza e non mostrare che piangevo… Perché accanirsi con un bambino? I suoi genitori sanno bene che non ce la farà. Se fossi il Padreterno avrei risparmiato loro questo supplizio».
Il dolore dei bambini è un mistero inspiegabile.
«Insopportabile. Manda in crisi la mia fede. Poi, magari rifletti, e pensi che siamo nati con il certificato di morte in mano. Ma non si può dire a cuor leggero che la vita è meravigliosa».
La misura di Dio è diversa dalla nostra?
«Una volta, dopo che aveva visto un mio film, andai a trovare monsignor Ersilio Tonini, un sacerdote vero. Mi disse: “Caro Verdone, non si lasci prendere dallo sconforto. Avete un’arma che usate male: la preghiera. Telefoni a Gesù…”. “Io lo chiamo, ma non sento nessuna voce”, replicai. “Ma lui ascolta tutto. Avrà una bella sorpresa quando finirà questo cinematografo che è la vita”».
Di recente ha detto che quando si diventa maturi e qualche persona cara non c’è più «esplode ’sta bomba della fede». Che tipo di esplosione è?
«Senti la necessità di pregare di più. Non importa se in chiesa o prima di dormire, importa che sia una preghiera che viene dal cuore, non a macchinetta come alle scuole elementari. Anche se non avviene quello che chiedi, ti aiuta a non mollare e ti trasmette serenità, dopo. Non è una suggestione».
Questa fede riguarda l’aldilà?
«Non so com’è l’aldilà, però credo di avvertirlo nella presenza delle anime dei miei genitori, un padre e una madre molto speciali, che ancora mi aiutano».
È una fede dettata dalla paura della morte?
«Certo. Anche un non credente prima o poi finisce per dirla una preghiera. Avevo un caro amico che faceva dell’ateismo la sua bandiera. Un giorno si è ammalato e gli furono diagnosticati due anni di vita. Una volta, entrando in una chiesa me lo sono trovato inginocchiato sul primo banco. Gli ho voluto ancora più bene vedendo quella sua disperazione aggrapparsi all’ultima fune».
Senza aspettare il tempo che si accorcia si può credere pensando che, se tutto finisse, chi ci ha dato la vita ci avrebbe fatto uno scherzo crudele?
«Sì, sarebbe un teatro dell’assurdo. Nulla nasce dal nulla. Da pagani possiamo dirla anche con Seneca: nulla si estingue, ma tutto si decompone per ricomporsi in una forma che a noi ancora non è chiara».
Quindi, è fiducioso sul dopo?
«È l’ultima speranza che mi rimane. Seguo l’esempio di mia madre che, nell’orrenda malattia che la colpì, nonostante i mancamenti e i vuoti di memoria, continuava a dire il rosario anche negli ultimi giorni. Non sbandierava il suo essere cattolica. Quelli che m’infastidiscono sono i cattolici di professione, che vivono i dogmi senza riflettere. E poi credo un’altra cosa. Abbiamo il calendario dei santi: penso che di santi ce ne siano tanti nel mondo, non solo delinquenti, ladri, opportunisti… Voglio raccontarle una storia».
Prego.
«Per molto tempo dalla mia finestra, ho visto una vecchia salire curva verso il Gianicolo, trascinando un carrello pesante anche sotto il sole a picco dell’estate. Una donna molto povera che poteva dormire per strada o in un centro per anziani. Ogni volta mi chiedevo quanti anni avesse, come facesse a salire, piegata come Cristo verso il Calvario. Un giorno che si era fermata per prendere fiato sono sceso con 50 euro in una busta: “Lei non mi conosce, ma io la vedo spesso passare di qua e le voglio fare un piccolo dono…”. “Questi soldi li dia a chi ne ha più bisogno di me”, mi ha risposto gentile, con la sua asma. “Mi offende, lo faccio col cuore. Mi farebbe piacere se accettasse”, ho replicato. “Guardi che c’è chi sta peggio di me”, ha ribadito, ferma. Ho dovuto rimettere i soldi in tasca e tornarmene a casa a pensare».
A Francesca Fagnani che gli ha chiesto se potesse riportare in vita qualcuno per pochi minuti chi sarebbe e che cosa gli direbbe, Jovanotti ha risposto: «Chiunque… per chiedergli com’è di là, dopo la morte».
«A me non interessa sapere cosa c’è di là, se si chiama paradiso o no… Mi basterebbe rivedere tre minuti mia madre e dal suo volto, dal suo sorriso, capirei se è serena e in armonia. E se mi segue nella vita, come credo sia».
Questa bomba della fede vale anche per l’aldiquà?
«Se ne avessimo di più forse non ci sarebbero tante brutte situazioni. Mi vengono in mente le pubblicità sui bambini africani, ci sono zone dove il 60% sono ciechi. Perché non facciamo qualcosa? Elon Musk parla di andare su Marte… Chi se ne frega di andare la quarta volta sulla luna con i problemi che abbiamo qui? Basta… Userei quelle risorse per aiutare quei bambini, per ridar loro la vista».
In Vita da Carlo il fatto più divertente è la sua generosità che la rende vittima di sé stesso.
«È una questione di rispetto… L’ennesima richiesta d’intervista sulla Roma e Claudio Ranieri la respingo. Qualcuno mi rimprovera che do troppe interviste, ma oggi un ragazzo prende 15 euro ad articolo. Se mi fa una proposta intelligente e posso aiutare il suo curriculum perché non devo farlo?».
Dopo il film d’autore, il sindaco di Roma e il Festival di Sanremo quale sarà la sfida della quarta stagione?
«Paramount mi chiede di non dare anticipazioni. Posso solo dire che desideravo interagire con molti giovani, un gruppo di studenti pieni di passione per il cinema e la cultura».
Il Giubileo appena iniziato è grazia o disgrazia?
«Per hotel, ristoranti, Uber e tassinari sicuramente una grazia».
Da romano?
«Roma è ridotta a un posto di aperitivi, ristoranti giapponesi, thailandesi, vinerie. Un’immensa Capri. Dalla città degli imperatori e dei grandi monumenti siamo passati alla città culinaria, con i funghi a calore per riscaldare chi cena all’aperto».
E da credente?
«Può essere una grazia. Viviamo un momento così complicato… Se afferriamo il senso della speranza di cui continua a parlare il Papa possiamo recuperare l’etica che abbiamo perso. Per chi ha questa sensibilità può essere un’occasione e per chi non ce l’ha, anche».
Avrebbe fatto cantare Tony Effe al Concertone?
«Non ho seguito tutte le polemiche però sì, l’avrei fatto cantare».
Tanto più che andrà a Sanremo…
«Vasco Rossi quando ci andò la prima volta aveva scritto Portatemi Dio, una canzone che diceva: “Metteteci Dio sul banco degli imputati”. Poi si è rivelato una persona generosa…».
Questo politicamente corretto ci sta facendo andare fuori di testa?
«Su alcune cose si può capire, ma è sbagliato non contestualizzare le situazioni. Via col vento dovrebbe essere bruciato perché la mami è nera? Suvvia. Il Sorpasso è maschilista, ma è un capolavoro. Con i criteri di oggi, quanti film di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi o Vittorio Gassman dovrebbero andare al rogo? E i miei? In Acqua e sapone vado a letto con una ragazzina che non ha ancora 18 anni, ma è una fiaba. Sette otto miei film dovrebbero essere eliminati. È una moda fastidiosa, diffusa sempre dai soliti salotti intellettuali, il popolo non si pone questi problemi».

 

La Verità, 28 dicembre 2024

«L’utero in affitto, orrore che mortifica le donne»

Femminista e cattolica. Da quando Eugenia Roccella è ministro per le Pari opportunità, la natalità e la famiglia del governo Meloni i media ce la disegnano dogmatica e sempre in trincea. In realtà, è figura complessa e sfaccettata. Giornalista, figlia di Franco, già capo dell’Ugi (Unione goliardica italiana) e fondatore del Partito radicale all’interno del quale animò accesi dibattiti con Marco Pannella, anche lei militò in quel partito prima di avvicinarsi alla fede cristiana. Un saggio della sua eleganza si è avuto qualche domenica fa su Rai 3 in quel «vedo che si coinvolge» lasciato cadere davanti all’incontinente Lucia Annunziata: «E fatele queste leggi, cazzo!». Se si vuole provare il piacere di leggere Una famiglia radicale (Rubbettino), oltre a una biografia particolarissima si scoprirà uno spaccato dell’ultimo cinquantennio italiano.

Questo libro è nato prima che si profilasse l’idea di diventare ministro?

«Sì. Pensavo ormai di aver abbandonato la politica e durante il lockdown avevo iniziato a scrivere. Se avessi saputo che sarei tornata con un impegno così importante non credo che l’avrei pubblicato. È un libro molto privato».

Fonte di problemi?

«No, semplicemente comporta un altro tipo di esposizione. Avevo deciso di scriverlo per due motivi. Il primo è che mi veniva spesso chiesto come, da radicale, si possa diventare cristiana. Il secondo motivo è non disperdere la storia soprattutto di mio padre, ma anche di mia madre, nelle vicende del nostro Paese. Lui non ha lasciato quasi niente di scritto, eppure un gran numero di testimoni e di storici come Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina gli riconosce ampio credito intellettuale nella stagione dell’Ugi e del Pr».

Lei ha avuto un’infanzia e un’adolescenza singolari, con un padrino di battesimo e una madrina di comunione leader radicali.

«Non credo che Sergio Stanzani, futuro segretario del Pr, e Liliana Pannella, sorella di Marco, siano entrati altre volte in chiesa dopo averlo fatto per me. La mia è stata un’adolescenza trasgressiva opposta alle normali trasgressioni. Io lo ero se andavo in chiesa, al punto che lo facevo di nascosto dai miei. Il battesimo fu un’imposizione su mio padre di mia zia che mi aveva educato fino allora. Lui, come contropartita, impose un padrino ferocemente anticlericale».

E la comunione?

«Fu una mia scelta. Avevo già incontrato proprio a scuola la fede, grazie a un sacerdote che mi aveva avvicinato ai vangeli di cui ero digiuna. Mi si era aperto un mondo. Come madrina di cresima mia madre m’invitò a scegliere un’amica cui ero affezionata e io indicai la sorella di Pannella. Vivevo una situazione ambivalente: immersa in un mondo laicista e antireligioso, ero sotterraneamente attratta dal cristianesimo. Quando gli chiesi il permesso di accedere alla comunione, da siciliano più che da laico e radicale, mio padre disse che per una donna non era male essere cattolica».

Quanto ha pesato nella sua vita la vicenda di sua sorella Simonetta, abbandonata nell’incubatrice e mai più ripresa dai suoi genitori?

«È una vicenda tragica, difficile da elaborare. Un fatto che ho ricostruito dolorosamente negli anni. E che comprende una riflessione che, partendo dalla mia famiglia, coinvolge il pensiero oggi dominante».

Qual è questo pensiero?

«L’idea che la vita non sia la costruzione della coscienza, ma la ricerca della realizzazione attraverso l’assolvimento dei propri desideri. Io auspicavo che questa ricerca di libertà venisse accompagnata dalla responsabilità personale. Invece, non fu e non è così. A causa di quella cultura, nessuno si incaricò della sopravvivenza di mia sorella. Ma non do colpe ai miei genitori».

Ci vuole molta misericordia.

«Anche il mio affidamento alla zia e l’anoressia successiva nacquero in quella cultura. Mio padre e mia madre erano persone generose, calde, affettivamente ricche. Ci adoravamo. Non porto rancore ai miei genitori. Sono grata perché lo sono stati, anche se nessuno dei due avrebbe voluto esserlo. Ma quell’individualismo può lasciare  intorno a sé morti e feriti. Nel caso di mia sorella, letteralmente».

Dall’appoggio alla clinica gestita da Adele Faccio e Giorgio Conciani alla sua posizione di oggi sull’aborto cos’è successo?

«Si è capovolto un mondo. Da ciò che erano all’epoca la condizione della donna, il diritto di famiglia e la discriminazione degli omosessuali c’è stato un rovesciamento totale. Ho seguito questo percorso rimettendo al centro i veri bisogni dell’uomo sui quali m’illuminò Pier Paolo Pasolini quando previde il tradimento degli intellettuali progressisti che avrebbero accolto i diritti civili in un contesto di “ideologia edonistica e falsa tolleranza” escludendo “ogni reale alterità”».

Come riemerse la fede che non aveva più coltivato?

«La fede c’era, chiusa in un cassetto dove l’avevo accantonata come elemento incongruo al contesto. Riemerse durante la malattia di mia madre. Standole vicino mi ritrovai a pregare».

Perché lasciò il Partito radicale?

«Quando mia madre si è ammalata mi stavo già allontanando dal Pr e da Pannella. Non mi riconoscevo nella svolta ideologica che avevano intrapreso».

Si può essere femminista e cattolica allo stesso tempo?

«Certamente. Il cristianesimo pone le basi culturali della pari dignità delle donne, nella differenza».

Quest’ultima sottolineatura serve a non identificare femminismo e livellamento dei sessi?

«Il femminismo è composto da molte correnti, io appartengo a quella della differenza, che in Italia è stata maggioritaria. Il corpo sessuato è il punto di partenza per valorizzare la differenza. C’è ingiustizia quando due persone uguali sono trattate in modo diverso, ma anche quando due persone diverse sono trattate in modo uguale».

Perché oggi la regolarizzazione dei figli di coppie omosessuali è al centro dell’agenda politica?

«Perché si cerca di occultare il problema dell’utero in affitto».

Perché è importante?

«Perché la maternità viene spezzettata e svilita. Esiste un mercato transnazionale della maternità e dei bambini per cui ci possono essere fino a tre madri».

Quali sono?

«La madre sociale, che alleverà il bambino, la madre genetica che dà gli ovociti, e infine quella che presta l’utero. Nella maternità surrogata si prende sempre l’ovocita da una donna e l’utero da un’altra».

Perché?

«Innanzitutto per evitare contenziosi. Se la madre gestazionale fosse anche la donatrice dell’ovocita, nel caso ci ripensasse e volesse tenersi il bambino, sebbene abbia firmato un contratto di cessione, per qualunque corte sarebbe difficile sostenere che non ne ha diritto. Separare le due funzioni serve a impedire controversie».

E l’unico motivo?

«Ce n’è un secondo. Per l’ovocita, che trasmette il Dna, la scelta del committente avviene in base alle caratteristiche genetiche che si desidera abbia il bambino, mentre la donna che porta avanti la gravidanza viene selezionata con altri criteri».

Una pratica razzista?

«Si sceglie sul catalogo il colore della pelle, degli occhi, dei capelli, la statura, il quoziente d’intelligenza. Lascio a lei dire se sia un comportamento razzista. In questi cataloghi le persone bianche hanno un costo superiore».

La battaglia condotta dai sindaci riguarda in prevalenza le coppie di donne per le quali non necessariamente si ricorre all’utero in affitto.

«I sindaci sono pubblici ufficiali e la nostra legge stabilisce due modi di filiazione, biologico o adottivo. Non ce n’è un altro».

Come ci si regola nei casi di due donne con un figlio del precedente matrimonio eterosessuale?

«Seguendo la legge italiana tutti i bambini avrebbero una mamma e un papà. Quando le coppie tornano da pratiche di fecondazione non consentite nel nostro Paese, la registrazione del genitore biologico è automatica. Da quel momento il bambino gode di tutti i diritti, come accade per le mamme single. Non vedo in piazza madri single, con un figlio non riconosciuto dal padre o vedove. Eppure, se si vuole il riconoscimento del nuovo compagno o compagna, anche loro devono seguire la procedura adottiva in casi speciali».

Il governo è accusato di fare scelte ideologiche.

«Il governo in carica non ha fatto nulla di nuovo. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha chiesto che venisse rispettata la legge in vigore. Che è sempre la stessa, e la sinistra ha avuto tutto il tempo per cambiarla, ma non l’ha fatto. La sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione del 30 dicembre 2022 recita: “L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi”».

Perché il Parlamento europeo ha approvato un emendamento che invita l’Italia a regolarizzare i figli di coppie omogenitoriali?

«È un pronunciamento solo politico perché il certificato europeo di filiazione dei figli fatti all’estero con la maternità surrogata è stato bocciato dal Parlamento italiano. Ma anche dal Senato francese, con l’esplicita motivazione che favorirebbe l’utero in affitto».

Perché vi ricorrono più di frequente le coppie eterosessuali?

«Le coppie etero possono mascherare il ricorso alla maternità surrogata. Ma è un mercato da estirpare sia che riguardi coppie omo che eterosessuali».

Cosa pensa del caso di Anna Obregon, l’attrice che è ricorsa all’utero in affitto nel quale è stato impiantato un ovocita fecondato dal seme del figlio morto?

«Non mi piace dare giudizi sui comportamenti personali. Vorrei dire però che casi del genere saranno sempre più frequenti e inevitabili, se si continua a considerare ogni desiderio individuale un diritto».

Con Elly Schlein segretaria del Pd si profila un lungo periodo di scontro?

«In passato al Parlamento europeo non ha votato un emendamento contro l’utero in affitto. Vedremo come si comporterà il Pd di fronte alla proposta di Carolina Varchi di Fdi che, pur senza aggravare le pene, chiede di perseguire la maternità surrogata anche se praticata all’estero».

A fronte dell’espandersi della cultura dei diritti il recupero di un’antropologia tradizionale è una battaglia di retroguardia?

«È una battaglia di avanguardia e di salvaguardia. Il rifiuto di queste pratiche e di questa cultura non deriva innanzitutto da un giudizio etico, ma dalla necessità di conservare l’esperienza umana con tutta la sua ricchezza e tutti i suoi limiti».

 

La Verità, 8 aprile 2023

 

 

 

 

 

 

 

«Il politicamente corretto? Mi faccio una bella risata»

Mercoledì 23 giugno, ore 16,30.

Buonasera, signora Aspesi. Stamattina le ho mandato un messaggio…

«Sì, ha ragione. Ma non capisco perché vogliate intervistare una citrulla ex comunista come me».

Perché abbiamo stima dell’intelligenza e della curiosità.

«O perché volete farmi dire qualcosa contro i vostri avversari?».

Dirà quello che vuole.

«Ma il vostro giornale a dispetto della testata scrive solo bugie».

Tipo?

«Non starò a fare l’elenco. E poi si sa che i giornalisti inventano. Solo noi bacucchi fedeli al giornalismo ci atteniamo ai fatti».

Lei è la Regina madre del giornalismo. Se si fida di un semplice suddito, l’accompagnerò per mano e credo che alla fine si divertirà.

«Non sarà mica una cosa a sfondo erotico».

Si sa dove si comincia non dove si finisce.

«Adesso non posso perché sto scrivendo la rubrica per il Venerdì di Repubblica».

Imprescindibile.

«Mi chiami domani».

Giovedì, 24 giugno, ore 12.

Buongiorno signora, avevamo un appuntamento.

«Ha ragione, ma oggi è il mio compleanno, sono subissata…».

Allora auguri. Come festeggerà?

«In casa di amici. Faremo festa in terrazza, sono piena di fiori, ma non ho più vasi dove metterli».

Quale desiderio esprimerebbe in questo giorno?

«Vorrei andare alla Rinascente a comprarmi delle mutande, molto caste. E cose per la cucina, piatti, posate. La casa mi piace moltissimo».

Aveva detto che ci sarebbe andata finito il lockdown.

«Non ce l’ho ancora fatta perché mi stanca stare in piedi. Però adesso, tra molti regali, ne ho ricevuto uno bellissimo dal mio ex direttore Mario Calabresi. È un oggetto che si usa come un bastone e si tramuta in un seggiolino. Lo usano i giocatori di golf. Fantastico».

Le sono pesate le restrizioni?

«No, esco comunque pochissimo. Ricevo i film sul computer, volendo potrei non uscire mai. Ho sperimentato che stare sola alla mia età è bellissimo. Mi occupo solo di me, se non mi rompono le scatole i giornalisti».

Preferirebbe andare a cena con Mario Draghi, Al Pacino o Papa Francesco?

«Ovviamente con Draghi, un uomo meraviglioso da vedere».

Perché lo apprezza tanto?

«Mi piace che parli il necessario, come la Merkel. E che, sconvolgendo tutti, pur essendo considerato di destra, faccia politiche di sinistra. Se durasse potrebbe essere la salvezza del Paese, lo dico da ex comunista».

Da quando lo è?

«Da quando il comunismo non c’è più. In Cina, a Cuba… E neanche nello Stato di Kerala, in India».

Segno dei tempi?

«Nulla avviene per caso. Forse è il segno che la gente è diventata più egoista. Siamo disposti a fare la qualunque per un nuovo cellulare. Il mondo è peggiorato e quindi non si può più pensare al comunismo».

Che qualche danno l’ha fatto, da parte sua.

«Da noi no. Dobbiamo distinguere tra tirannia e comunismo. In Italia c’è stato un po’ di comunismo negli anni Settanta, che grazie a Dio ci ha portato lo statuto dei lavoratori. Della Russia non m’importa. Quella era una dittatura, tant’è che non c’era libertà di parola. Anche adesso, che non c’è il comunismo ma è al potere un ex dirigente del Kgb, i russi se non sono mafiosi stanno male».

È contenta che possiamo togliere la mascherina?

«Per me cambia poco perché esco raramente, data la decrepitezza. Alla mia età la mascherina dà fastidio.  Si sono sentite previsioni disperate di povertà. Invece, martedì volevo andare al ristorante con degli amici, ma non siamo riusciti a trovare un posto. Spero che i ristoratori paghino le tasse… A questo punto, i suoi lettori saranno disperati».

Sono opinioni sue. Si aspettava di finire nel mirino delle neofemministe?

«Direi di no, visto che sono più femminista di loro».

Che cosa le rimproverano esattamente?

«La mia generazione ha combattuto battaglie autentiche come la patria potestà, il divorzio, l’interruzione della gravidanza. E, con l’aiuto del Parlamento perciò anche degli uomini, le abbiamo vinte. Le femministe di oggi dovrebbero continuare, mentre vedo che si perdono sull’essere fluidi o binari, cose così».

Le rimproverano di aver scritto che è colpa anche dell’intransigenza islamica se Saman è finita male?

«La parola corretta non è colpa, ma responsabilità. Conosco l’islam solo in generale. So che in Pakistan il matrimonio forzato è reato. Perciò penso che questo delitto non sia dettato dalla religione ma da un clan. In Italia ci sono 150.000 pakistani e questa è la prima volta che accade. Mentre nelle famiglie italiane ammazzare le donne è normale».

Tra i pakistani non mi risulta sia la prima volta, quanto all’Italia è un crimine.

«Il delitto d’onore che consentiva ai mariti di ammazzare le mogli se traditi è stato cancellato solo nel 1981. In ogni Paese meraviglioso, compreso il nostro, resistono comportamenti orribili. Siamo troppo ignoranti per parlare di cattolicesimo e islamismo».

Le femministe le rimproverano di aver scritto che anche le mamme a volte uccidono?

«Ci sono processi e condanne. La madre di Cogne, la madre di Loris, in provincia di Ragusa, quella di Cosenza… L’infanticidio c’è sempre stato e c’era ancora di più finché non è arrivato l’aborto».

Resta da vedere se sia anch’esso soppressione di una vita umana.

«L’aborto è legge dello Stato, non riapriamo questa discussione».

Il femminismo storico mirava all’emancipazione della donna mentre quello di oggi si occupa soprattutto di questioni linguistiche?

«Penso che le donne abbiano ancora battaglie importanti da fare. È sbagliato limitarsi a protestare perché un uomo ci ha detto: “Stai zitta”. Basta replicare: “Stai zitto tu”. Non c’è più questa disparità. Quando avevo vent’anni e qualche maschione m’importunava per strada, mi arrestavo: “Lei ce l’ha troppo piccolo per infastidirmi”. Restavano terrorizzati e non mi seccavano più».

Ci si occupa di desinenze e di linguaggio schwa.

«Sono amenità. Amo l’italiano, che è una lingua meravigliosa da scrivere e da leggere. Dante non si occupava di queste cose. E anche oggi non lo fa nessuno, tranne due o tre invasati».

Però nei documenti pubblici si scrive genitore 1 e genitore 2.

«Abbiamo appena finito di dire che madri e padri uccidono i loro figli. Guardi anche quel bambino ritrovato in una scarpata del Mugello: voglio proprio vedere cosa viene fuori… Magari se aveva due papà o due mamme non capitava. Io sono cresciuta senza padre, tirata su da una madre e una zia, e sono cresciuta credo normale, per lo meno non infelice».

Perché scrivere padre e madre è discriminatorio?

«Sono sottigliezze inutili. Conta che ci siano buoni genitori. Se uno adotta un bambino è genitore di uno che non ha fatto lui. Se conta l’amore un bambino può essere cresciuto da tre zie o quattro fratelli».

Meglio da un padre e una madre. Secondo lei c’è troppo antagonismo tra i sessi?

«A volte manca la capacità di condividere le ragioni per essere una famiglia. Dopo un po’ la passione può diminuire, ma si continua ad amare quella persona perché è il padre dei tuoi figli, perché insieme si è costruito qualcosa di grande. Nel tempo, queste motivazioni contano più dell’essere innamorati. A volte mi sembra che questa responsabilità difetti e gli uomini vadano avanti per la loro strada».

Parlando del suo ruolo nel prossimo 007, l’attrice inglese Lashana Lynch ha detto che stiamo superando la mascolinità tossica.

«Cosa ce ne frega di un’attrice inglese, non stiamo mica parlando di Freud».

Anche Michela Murgia la usa spesso.

«Che brutte cose legge. I mariti che ammazzano figli e mogli non esprimono una mascolinità tossica?».

Cosa c’entra? Quelli sono squilibrati arrestati e condannati. Mascolinità tossica riguarda l’intero sesso maschile.

«È un discorso che non m’interessa, voglio parlare di argomenti importanti non di queste cagate».

Ha ripreso ad andare al cinema?

«Non me la sento ancora. Sono stata in Salento a riposare. Non so se ci andrò più, preferisco leggere i classici».

Gabriele Salvatores dice che il politicamente corretto ingabbia la libertà d’espressione.

«Non ci vuole Salvatores per dirlo. Il politicamente corretto mi fa ridere, io sono scorrettissima. In America c’è il puritanesimo, mentre in Italia per fortuna siamo cattolici e i peccati ci vengono perdonati».

Le tante minoranze stanno diventando troppo intransigenti?

«Basta non ascoltarle. Io sono molto insultata nei social, ma me ne frego e continuo a scrivere quello che voglio, nei limiti della legge».

Cosa pensa del fatto che Franco Nero ha chiamato Kevin Spacey nel film che sta girando a Torino?

«Penso che Spacey sia un bravissimo attore».

Discriminato dal #metoo?

«Non m’interessa. Rivederlo in un film, sia pure di Franco Nero, mi farà piacere».

Cosa l’aiuta a mantenere questa vivacità intellettuale?

«La curiosità mi ha consentito di lavorare pur non avendo studiato. Anche da bambina acquistavo le riviste femminili e collezionavo le foto delle attrici. La mamma mi accompagnava al cinema. Ho sempre desiderato uscire dalla mia vita e occuparmi della realtà. Leggo ancora quotidiani e settimanali stranieri, libri americani e inglesi. Da ragazza, facendo la cameriera a Losanna e a Londra ho imparato il francese e l’inglese, e la sera andavo a scuola. È stato un periodo divertente, con molti fidanzati».

Quando è scoccata la scintilla del giornalismo?

«Tornata a Milano, un ex fidanzato che lavorava alla Notte, ricordando le mie lettere, mi suggerì di provare a scrivere e mi mandò a una mostra di cani a Bellagio: “Tanto alla Notte pubblicano tutto”».

E da lì…

«Ho capito che scrivere mi piaceva. Provenendo da una famiglia miserevole il massimo dei miei sogni era lo stipendio per potermi comprare le calze anziché usare quelle smesse da mia sorella. Ho iniziato a scrivere per scherzo».

E ha proseguito sul serio. Le dispiace non aver avuto figli?

«Tutt’altro. Non li ho voluti. Intanto, non mi piacciono i bambini. Poi non so se sarei stata una buona madre e se avrei amato talmente i figli da non lavorare più. Ma lei deve riempire tutto il giornale?».

Siamo alla fine, le piace Enrico Letta?

«Mmmh, non posso dire che lo adoro. È una brava persona, ma sono stanca delle brave persone. Preferisco persone che incidano, anche se oggi la politica non conta nulla. Contano solo Amazon e queste cose qui. La grandiosità dei consumi decide tutto. È anche inutile dirsi di destra o di sinistra».

Cosa vuol dire oggi essere di sinistra?

«Purtroppo nulla perché la sinistra non c’è più. È stato un bel sogno, il sogno di aiutare la gente, di essere insieme, un po’ come il cristianesimo. Era una forma laica di religione. Oggi siamo sotterrati dalla finanza e dal consumismo. E ci dobbiamo barcamenare tra centro, centrodestra e destra estrema… Basta, sono stanca».

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La Verità, 26 giugno 2021

Del Santo elabora il lutto al Grande Fratello Vip

Bisogna misurare le parole, la materia è incandescente. Il dolore di una madre che ha perso un figlio suicida di 19 anni. Peraltro il secondo, dopo che il primo, a 4 anni, era precipitato dalla terrazza di un grattacielo. Una storia straziante. Un dolore lancinante, indicibile. Perciò, bisogna stare attenti, andarci molto molto piano e, soprattutto, non giudicare.

La madre è Lory Del Santo, ex bigliettaia nel Drive in di Antonio Ricci, poi showgirl, ospite del panfilo dell’imprenditore saudita Adnan Khashoggi, compagna del mitico Eric Clapton dal quale ebbe Conor, il bambino morto tragicamente cadendo dal cinquantatreesimo piano a New York. Del padre di Loren, invece, il diciannovenne che viveva a Miami e un mese fa si è tolto la vita a causa di una malattia cerebrale, la madre non ha mai voluto rivelare l’identità. Fin qui quelli che chiameremmo grossolanamente antefatti ma che mai lo potranno essere: mai la morte di un figlio, peraltro suicida, potrà essere rimossa. Tuttavia, tornando alla madre, dopo la decisione di rinunciare alla partecipazione al Grande fratello vip maturata in seguito alla tragedia, Lory Del Santo si è ricreduta. Dopo giorni intrisi di sofferenza e lacrime («Ho cercato di vivere da sola questo periodo senza parlare con nessuno. Senza amici. Senza poter dire la verità», ha detto a Silvia Toffanin di Verissimo) ora la showgirl crede «che la Casa del Grande Fratello sia l’unico posto in cui possa sentirmi protetta. Potrebbe essere una terapia». Testuale.

Il ripensamento ha comprensibilmente preso in contropiede i dirigenti di Endemol e di Canale 5 che producono e diffondono il programma. È certo che la probabile partecipazione di Lory Del Santo al reality avrebbe un effetto tonificante sugli ascolti. E quindi: «Non facciamo sciacallaggio sul dolore di una persona», è stata la risposta degli uomini Mediaset. E anche: «Possiamo privare una donna che soffre di quello che lei ritiene un aiuto? Sarà lei a decidere se e quando entrare nella Casa» perché, si osserva, il dolore di una madre «va sempre rispettato».

È così, infatti. Ma proprio per rispetto di un dolore tanto straziante, proprio per prenderlo sul serio e senza giudicare in alcun modo, mi permetto di dubitare. Ti muore un figlio e «l’unico posto» dove pensi di essere «protetta» e di elaborare il lutto è un reality show? Se fosse davvero così, qualcuno dovrebbe fare un profondo esame di coscienza. Ma magari può essere anche il caso che la madre addolorata rifletta bene se lo strumento scelto sia davvero adeguato allo scopo. Anche perché è facile che lì dentro il dolore di madre diventi parte delle dinamiche dello spettacolo e del gioco. Alfonso Signorini ha osservato che chi entra nella Casa lo fa per giocare e dunque «non ci può essere il compatimento». I dubbi e le perplessità si accavallano. L’eventizzazione del dolore non mi convince. Lory Del Santo ha accennato anche al fatto che «ci sia un confessionale, per parlare in ogni momento con qualcuno, può farmi bene».

A questo punto ammetto tutto il mio disagio di uomo di un altro secolo e di un altro mondo. E chiedo: quel dolore di madre non merita un confessionale vero? Una volta, per condividere certe tragedie, per lenire lo strazio e la solitudine, c’era il padre spirituale, c’era il gruppo di amici più stretti, c’erano i famigliari e anche lo psicologo. Oggi tutto è social, tutto è stories, virtuale, visibilità, comunicazione. Le icone del nostro tempo sono gli influencer, le star del web, Chiara Ferragni e Fedez con il loro matrimonio digitale, sintetico, globale. All’eventizzazione dell’esistenza mancava solo l’elaborazione del lutto, la metabolizzazione della morte.

Buona fortuna Lory Del Santo. Un grande abbraccio.

 

Lettera a Dagospia, 22 settembre 2018