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Il Milan: ecco cosa può fare la cancel culture nel calcio

Lo sprofondo rossonero che cos’è se non la rappresentazione da manuale di ciò che produce la cancel culture anche nel calcio? E, per giunta, realizzata grazie all’intelligenza artificiale? I fatti son lì da vedere. Il Milan, composto di ottimi giocatori, continua a inanellare sconfitte con squadre che gli sono tecnicamente inferiori. Dinamo Zagabria, Feyenoord, Torino, Bologna, Lazio: per stare alle ultime, umilianti prestazioni. La società vincitrice di sette Champions League è fuori da tutte le competizioni che contano. Lo è stata immediatamente dalla Serie A, dove naviga a metà classifica. E lo è dalla stessa Champions, dopo la prima selezione. Cambiano gli allenatori, da Stefano Pioli a Paulo Fonseca a Sergio Conceiçao, non gli ultimi arrivati, ma i risultati non migliorano, anzi. E non basterà certo la nomina di un direttore sportivo, Igli Tare o Fabio Paratici, a risollevare dallo sprofondo.
Raramente si è assistito a una contestazione tanto straniante quanto quella attuata domenica a San Siro dalla Curva Sud: vuota nei primi 15 minuti, e poi, mentre i giocatori si affannavano in un’improbabile divisa rossoverdegiallo (dopo quella fucsia e quella neroverde, cancellazione anche cromatica?), riempita da tifosi autori di cori contro la proprietà, la dirigenza e i giocatori stessi. «Se non vedremo cambiamenti significativi nelle prestazioni e soprattutto nell’atteggiamento, arriveremo ad abbandonarvi totalmente, lasciandovi soli con la vostra vergogna», avevano scritto annunciando la presa di distanza dal club. Il primo bersaglio è il fondo RedBird di Gerry Cardinale che nell’agosto 2022 ha acquisito il pacchetto di maggioranza da Elliott. Poi i vertici al completo: Zlatan Ibrahimovic, plenipotenziario di Cardinale senza aver mai studiato da dirigente, l’ad Giorgio Furlani, il presidente Paolo Scaroni che sopravvive ai vari cambi azionari. Risparmiato Conceiçao che, sebbene non inappuntabile nella gestione delle partite, dà l’anima più di certi calciatori e ha rispetto dei tifosi («Sono ferito come loro»), vero patrimonio della società.
Gran parte degli specialisti sentenzia che il Milan manca di leadership e che è una squadra costruita male. Fuochino. Scorrendo la formazione ci si accorge che ci sono tre nazionali della Francia (probabilmente la più forte del mondo), due nazionali portoghesi (come gli ultimi due coach), uno olandese, il capitano degli Stati Uniti, un nazionale messicano che ha sostituito il capitano della Spagna (vincitrice degli ultimi europei), un nazionale serbo, l’ex capitano del Manchester City e nazionale inglese. Come fa una squadra così a difettare di leadership e di esperienza? Non sarà proprio l’eccesso di blasone a rendere il Milan un squadra molle, priva di identità e di senso di appartenenza? Non sarà proprio la composizione cosmopolita e multietnica a renderla solo una compagine di figurine? Una bella senz’anima?
Interpellato sull’argomento un paio di giorni fa, Carlo Ancelotti ha scolpito: «Mandare via Paolo Maldini, con tutti i difetti che può avere, è mandare via un pezzo di storia. Paolo è un uomo di calcio e rappresenta il Milan, hanno fatto un errore a mandarlo via». Nemmeno lui era perfetto e nella scelta di alcuni giocatori qualche errore l’aveva commesso. Tuttavia, la storia non si cancella. Si revisiona, se occorre. Ma va salvaguardata, tanto più se costellata di trionfi iniziati 60 anni prima con il padre Cesare.
Si dirà: la proprietà di un fondo americano è più sensibile alle logiche della finanza che all’identità e ai colori di un club, sebbene glorioso. Per chi punta al profitto, figure storiche possono risultare scomode. Ma gli effetti della cancellazione sono sotto gli occhi di tutti. Anche l’Inter, per guardare dall’altra parte del Naviglio, è di proprietà di un fondo americano (Oaktree). Ma ha affidato la presidenza a un manager di esperienza come Beppe Marotta, ha una filiera dirigenziale in gran parte italiana e ha un tecnico e diversi giocatori italiani.
L’uomo più ascoltato da Cardinale è invece Billy Beane, l’ex direttore sportivo degli Oakland Athletics di baseball che a inizio secolo ricorse a sua volta ai consigli di Paul DePodesta, esperto di sabermetrica, scienza statistica in base alla quale scelse giocatori sconosciuti e poco costosi infilando una serie di 20 vittorie consecutive (la storia è narrata in Moneyball, film del 2011 con Brad Pitt nei panni di Beane), salvo non confermarsi nelle stagioni successive. È stato Beane a suggerire il licenziamento di Maldini nel giugno del 2023 per privilegiare le analisi degli algoritmi al posto di valutazioni che si ritenevano troppo soggettive. Meno di un mese dopo Sandro Tonali, uno cresciuto con il mito di Franco Baresi e Rino Gattuso, già ribattezzato «capitan futuro», è stato venduto al Newcastle per 58 milioni (non gli 80 accreditati per addolcire lo sciroppo). Intervistato pochi giorni fa da Repubblica sulla sua cessione, Tonali ha raccontato: «È un mondo con tanti soldi: per i calciatori e per i club. Quando dici no, deve esserci anche il no del club. Nelle trattative è difficile che ci siano due no o due sì: c’è sempre un sì e un no. Nelle grandi squadre, con tanti soldi in ballo, la bandiera diventa un’utopia». Così, un altro pezzo dello zoccolo duro, un altro mattone di milanismo è stato smantellato. Il Milan al quale sono stato abituato io, ha detto Paolo Condò, non l’avrebbe venduto e avrebbe sempre giocato con Tonali e altri dieci.

Nell’ultima uscita pubblica Cardinale ha promesso che avrebbe portato il Milan a «vincere con intelligenza». Purtroppo, grazie alla cancellazione perpetrata, persevera a perdere con ottusità.

 

La Verità, 4 marzo 2025

Sarà «Milan nuovo»? Gli errori vengono da lontano

Il Milan è partito per Riad, capitale dell’Arabia Saudita dove si disputa la Supercoppa italiana, con un nuovo allenatore. È Sergio Conceiçao che nella notte post match pareggiato con la Roma ha preso il posto di Paulo Fonseca, giubilato senza troppo rispetto dalla folta dirigenza rossonera, dopo averlo fatto rispondere al fuoco di domande sul suo futuro che, sebbene tutti, lui compreso, sapevano già segnato, lo hanno costretto a recitare la parte del coach ancora in sella. Da un portoghese all’altro, Fonseca ha pagato errori suoi, lacune nella gestione della rosa, difetto di risultati. Ma ha pagato anche errori gravi che non gli appartengono.
Andando con ordine. Al netto di alcuni ruoli non ben coperti, soprattutto in difesa, il Milan ha una classifica che non rispecchia il valore della rosa e questa discrepanza fra potenziale e risultati non si può non imputare all’allenatore. La piazza rumoreggiava e non poteva pazientare oltre perché, sbiadito prestissimo l’obiettivo scudetto, continuava ad allontanarsi anche la zona Champions. Ci sarebbe il confronto con la Juventus di Thiago Motta, protagonista di una stagione simile a quella rossonera, oggetto di un ossequio assai diverso dei media, ma questa è una vecchia faccenda. Fonseca, un gran signore, è sempre stato lucido nelle analisi sul comportamento dei suoi. Nell’ordine, ha denunciato «mancanza di aggressività» quando subivano troppi gol e il Milan era la squadra meno fallosa del campionato (ma curiosamente tra le prime per ammonizioni). Lentamente, fatte salve alcune amnesie, il rendimento della difesa è migliorato. Sui limiti di «atteggiamento» e di «continuità» nelle partite contro le squadre minori, invece, le contromisure non sono state trovate. Fonseca ha accusato la scarsa applicazione con cui si spendevano Rafa Leao e Theo Hernandez. Anziché essere gli elementi trainanti hanno remato contro. I casi sono noti, dal famoso cooling break nel match contro la Lazio all’ammutinamento al momento dei rigori sbagliati contro la Fiorentina. Con il consenso della dirigenza, l’allenatore ha provato la terapia del bastone, relegando in panchina i contestatori negligenti. Qualche progresso c’è stato, ma è innegabile che il clima nello spogliatoio fosse compromesso. Soprattutto, non si è risolto il problema delle «montagne russe» tra una partita e l’altra e all’interno delle stesse partite. Al Milan difettano la malizia e il cinismo di qualche leader che sappia guidare la squadra e gestire le situazioni.
Andando più indietro, rimangono ancora nebulose le ragioni della scelta di Fonseca nella scorsa estate. Scartato Lopetegui per sollevazione popolare, ovvio il rifiuto di Antonio Conte per motivi caratteriali (incompatibilità con Zlatan Ibrahimovic) e tecnici (difesa a tre, allenamenti militari…), con sei mesi di ritardo si va su Conceiçao augurandosi che basti a risollevare le sorti di una società colpevole di molti errori. Nell’ultimo mercato, per esempio, l’acquisto di Emerson Royal, ma soprattutto le cessioni di Kalulu alla Juventus, diretta rivale, Adli e Pobega, per accorgersi ora che a centrocampo la coperta è corta.
Come la farraginosa gestione dell’uscita di Fonseca, per la quale anche Ibrahimovic presentando il nuovo coach si è scusato, anche quella dei giocatori palesa inesperienza e incertezza della dirigenza. Una dirigenza pletorica, in cui non si sa chi comandi. Basta fare il confronto con altre società. Alla Juventus ci sono Thiago Motta e Cristiano Giuntoli, all’Inter Simone Inzaghi e Beppe Marotta. Stop. Al Milan c’è l’allenatore voluto non unanimemente dai dirigenti (perché sono troppi). Ci sono Ibrahimovic (consulente di Gerry Cardinale, il proprietario), Giorgio Furlani (amministratore delegato), Geoffrey Moncada (capo scouting) e Paolo Scaroni (presidente). Il problema è che tutti parlano, fanno interviste, si pronunciano… E, ancor più, il problema è che, nonostante la lunga filiera, manca un dirigente che faccia da collegamento tra la squadra e la società. Doveva esserlo Ibra, questa figura, ma di fatto non lo è: per inesperienza, perché ufficialmente è il consulente della proprietà e forse perché è troppo concentrato su di sé.
Questi errori della proprietà americana, oltre i proclami manifestano poca considerazione della storia e dell’identità del marchio Milan. In un certo senso, somiglia alla vicenda della Roma, con i Friedkin. «Vincere con intelligenza», come ha detto Cardinale, significa che si ritiene prioritario il pareggio di bilancio sul conseguimento di trofei? Nell’incertezza sulla risposta, di sicuro c’è che questa dirigenza si sta mostrando incapace di perseguire entrambi gli obiettivi. Soprattutto, questa proprietà ha un peccato originale difficile da perdonare. La cacciata di Paolo Maldini, simbolo, bandiera e ottimo manager (anche se non perfetto, come dimostrano gli acquisti di Origi e Ballo-Touré e l’estenuante trattativa per Charles De Keteleare che ha caricato di pressioni il giocatore, liberatosi delle quali, è sbocciato). L’agitarsi di troppi protagonismi sembra il modo per far dimenticare il fantasma di Maldini. Che, va detto, condiziona tuttora la narrazione sul mondo rossonero perché molti commentatori sono suoi ex compagni, suoi ex allenatori o giornalisti che si sono affermati durante l’epopea berlusconiana.
Il secondo errore di questa proprietà è stata la cessione di Sandro Tonali, altro mattone di milanismo. Una storia, un sogno, in cui tutta la tifoseria si identificava. In fondo, anche il calcio è fatto di cuore e di anima. Romanticismi? Certo, sentimenti sicuramente non decodificabili con gli algoritmi. Storia e identità: sarà per questo che il Milan è la squadra con meno giocatori italiani?
Può essere un buon programma «vincere con intelligenza»: basta che non sia artificiale.
Buon 2025 a tutti (cominciando dai milanisti)!

 

Dagospia, 3 gennaio 2025

Boomer torna allo stadio dopo anni, con suo figlio…

Erano anni che non andavo allo stadio e tornarci mi ha regalato una nuova ulteriore consapevolezza del mio inguaribile boomerismo. Del mio essere uomo di un altro tempo. Lo stadio, la partita di calcio, anche vissuta da tifoso, è un’esperienza coinvolgente, in un certo senso totalizzante. Ancora più ricca se interpretata con gli occhi aperti e un minimo spirito critico. Ero in compagnia di mio figlio millennial, più tifoso di me. Poco alla volta, la diversità delle sue reazioni è risaltata come un evidenziatore sul mio straniamento. Com’è noto, allo stadio non c’è solo il fatto agonistico. C’è tutto il contorno, l’arrivo all’impianto sportivo, che per me era quello di San Siro per la partita fra Milan e Lazio. Ci sono il popolo dei tifosi, i colori delle tribune, gli striscioni, i cori.

Bene, prima di entrare nel catino urlante di passione, ecco la prima notazione. Le magliette indossate dai tifosi. Sono espressione di generazioni ed ere calcistiche diverse, quasi sempre superate, archiviate da tempo. Si leggono sulle spalle delle persone, dove compaiono i nomi dei protagonisti. Kakà è uno degli idoli tuttora più gettonato. Ma poi ecco Kessie, Saelemekers, De Keteleare, Tonali. Tutta gente che non è più al Milan. Qualcuno rimpianto, altri meno. Donnarumma non se ne vedono. Molti Ibrahimovic, invece. E persino, Menez. Preistoria. Anche mio figlio ride di gusto. Qualcuno di mezza età si autoproclama, orgoglioso, Nesta. Poi sì, ci sono anche quelli aggiornati: Theo, Calabria, Giroud, Rafa Leao. Idoli che permangono. E qualcuno di nuovo nuovissimo: Pulisic. Così ci si rincuora, pensando che alla fugacità del tempo si oppone il perenne presente. E la speranza di migliorare che sempre anima il cuore del tifoso.

Finalmente si accede alle tribune e il posto assegnato è particolarmente felice. Primo anello rosso. La vista è ottima, il prato brilla lì davanti, i giocatori non sono pedine minuscole com’erano quando le scrutavo, ragazzo del terzo anello. I cori rimbombano, bellissima la coreografia di bandiere e striscioni. Sul corridoio che separa il nostro settore dalla tribuna che sta proprio a ridosso del campo di gioco è un via vai di persone che cercano il loro posto. O di quelle che cercano birre e panini. Scopro che allo stadio il pubblico ha molta sete e molta fame. Nella tribuna riservata ai vip spunta Zlatan Ibrahimovic. Poi arriva il Ct della Nazionale Luciano Spalletti. Osserverà soprattutto la Lazio, rifletto puntiglioso, visto che nel mio Milan di italiano c’è solo il capitano Davide Calabria, da qualche tempo uscito dal giro. Ibra e Spalletti catalizzano le attenzioni dei presenti. Poi finalmente la partita comincia e il traffico sul corridoio davanti si dirada. Ma non del tutto. Ogni tanto, per continuare a seguire un’azione di gioco, tocca allungare il collo per non restare impallati da qualcuno che transita reduce dal bar con boccali di birra, piadine e tranci di pizza come fossero tanti camerieri.

Intervallo. Spalletti esce dal box riservato e si avvicina ad altri spettatori vip. C’è Zlatan, come dicevo. C’è Paolo Scaroni, presidente del Milan. Ci sarà qualcuno che mi sfugge. Gli steward faticano a far scorrere il pubblico che si arresta catalizzato, cellulare alla mano per immortalare le celebrities. Molte donne hanno lineamenti pronunciati e indossano canottiere aderenti. Sta per cominciare il secondo tempo, i giocatori sono già schierati con la palla al centro, ma la muraglia di magliette onomastiche non si sgretola e, spalle al prato, innalza ancora gli smartphone per fotografare i famosi in tribuna. Il pallone ha cominciato a rotolare sul prato. A quel punto, rompo gli indugi. Ragazzi, guardate che la partita è dall’altra parte, non in tribuna. Va bene, va bene… ciondolano la testa e si allontanano. Mio figlio: ma papà, lascia che la gente faccia quello che vuole.

All’inizio del secondo tempo, il Milan entra in campo più determinato. Per i primi cinque minuti la Lazio non supera la metà campo. I cori si fanno più potenti e incalzanti. È un crescendo sia nella qualità del gioco che nella spinta dagli spalti. Quando, con una formula abusata, si dice che i tifosi sono il dodicesimo giocatore in campo… Infatti, la pressione raggiunge l’apice. E, al quarto d’ora, con una bellissima azione sulla sinistra che coinvolge quattro giocatori, il Milan passa. Più tardi, procurato da uno slalom vertiginoso di Leao, arriva anche il raddoppio. La festa è piena. I colori si accendono ancora di più. Sulla fila davanti a noi una famiglia, marito, moglie, bambino e figlia adolescente cantano. La più scatenata è la signora, conosce tutti i cori. Il marito è più compassato. La figlia adolescente si scatta raffiche di selfie, rivolta alla tribuna (non al campo di gioco).

La partita è finita. Per oggi il Milan è ancora primo in classifica (in condominio con l’Inter). Il popolo sciama euforico sul piazzale dello stadio con vincolo storico che i club presto abbandoneranno (scegliendo impianti fuori dal Comune a causa dell’insipienza della giunta cittadina). Una donna con le gambe storte da calciatrice parla animatamente con il tizio al suo fianco che inalbera la maglietta di Maldini

Gerry, il milanismo non si compra con gli algoritmi

Caro Gerry Cardinale,

legga bene fino alla fine le parole che seguono. Sono un vecchio tifoso del Milan, la società di cui è divenuto proprietario il 31 agosto scorso e che, con le sue prime azioni, sta maltrattando brutalmente. Il primo gesto di cui si è reso protagonista è stato licenziarne la storia e il carisma nella persona di Paolo Maldini. Il secondo atto, quasi peggiore del primo, è stato vendere l’anima del Diavolo, cioè Sandro Tonali. Sono attonito. Subito, quando ha preso a circolare l’indiscrezione che Tonali era nel mirino del Newcastle, ho postato un tweet di totale incredulità. Non potevo ammettere che l’Ac Milan si macchiasse di un errore simile e che un giocatore tifoso fin da bambino, che si era ridotto l’ingaggio per favorire il suo passaggio definitivo al club dopo il primo anno in prestito, disputato al di sotto delle aspettative, potesse lasciare la squadra del cuore. Invece, era vero. Non mi sono ancora ripreso e chissà se e quando ci riuscirò.

Sono convinto che molti tifosi condividano questo mio stato d’animo. Di delusione profonda. Di disamore crescente.

Ci ho pensato a lungo, prima di scriverle, provando a contare fino a dieci, a cento. Ma, più il tempo passava, più le mie convinzioni si rafforzavano… Vede, caro Gerry Cardinale. Tonali era leader in campo, esempio del cosiddetto milanismo, un sentimento che o si prova o è difficile spiegarlo. Uno che affrontava a brutto muso Dumfries durante il derby con l’Inter perché voleva far rialzare rapidamente Theo Hernandez dopo un fallo, dicendogli: occupati della tua squadra, ai miei ci penso io. Era il capitano dei prossimi dieci anni, milanista fino al midollo. Era il perno, il giocatore su cui costruire i successi del futuro insieme ad alcuni altri già nella rosa costruita da Maldini (e Massara): Leao, Maignan, lo stesso Hernandez, Bennacer, Tomori, Thiaw.

L’Inter, per fare un esempio, ha dichiarato incedibile Barella. Forse, anzi, sicuramente, sono un ingenuo perché, dopo che ha licenziato in dieci minuti Maldini, sbaglio ad aspettarmi che apprezzi questo tipo di ragionamenti. Disapprovo queste sue azioni. Sono convinto che in Europa la storia conti più che in America. E il calcio non sia un mondo qualsiasi, un’industria come quella degli elettrodomestici o delle automobili. Ci sono altre variabili, altre componenti, umane oserei dire, che gli algoritmi stentano a interpretare.

Vede, caro Cardinale, ci sono tifosi come me che hanno iniziato a tifare Milan da bambini, quando indossava la maglia rossonera un certo Gianni Rivera che lei sa certamente chi è. Fu il primo italiano a vincere il Pallone d’oro nel 1963 (c’era già stato Omar Sivori, ma era oriundo argentino con cittadinanza italiana), l’anno in cui il Milan conquistò, prima squadra italiana, la Coppa dei campioni, antenata della Champions league. Capitano di quel Milan era un certo Cesare Maldini, padre di Paolo, appunto. Rivera era estetica e intelligenza, le stesse che si videro nel celeberrimo 4-3 di Italia-Germania, mondiali del Messico 1970, riconosciuta «la partita» del XXº secolo. Con Rivera in campo, nel 1978-79 il Milan vinse il decimo scudetto della stella. Suo compagno era Franco Baresi che, dieci anni dopo, sarebbe stato il capitano del Milan guidato da Arrigo Sacchi, intuizione visionaria di Silvio Berlusconi, il presidente  («Un presidente! C’è solo un presidente!», cantavano i tifosi al suo recente funerale) che avrebbe creato la squadra eletta dall’Uefa la migliore di sempre, inanellando vittorie e trofei a tutte le latitudini. In quel Milan giocavano Marco Van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkard e un certo Paolo Maldini, rossonero per tutta la vita e capitano dopo Baresi. Ancora estetica e intelligenza. Tramontati gli olandesi, arrivarono Zvonimir Boban e Dejan Savicevic, Andrij Shevchenko e Ricardo Kakà, solo per citare gli stranieri, allenati da Fabio Capello e Carlo Ancelotti, entrambi ex giocatori rossoneri e successivamente tra i migliori e più vincenti coach della storia del calcio. Arrivarono molti altri successi.

Oggi, la cessione di Tonali per 80 milioni al Newcastle viene raffrontata proprio a quelle di Shevchenko e Kakà, tra le più remunerative e dolorose della nostra storia, il primo al Chelsea (per 45 milioni), il secondo al Real Madrid (per 67). Sia l’uno che l’altro non sfondarono nelle nuove squadre (curiosamente allenate entrambe da Josè Mourinho) e, dopo un paio d’anni, tentarono un malinconico ritorno al Milan. Che non funzionò. Gli incantesimi si infrangono e non sono riproducibili a comando.

Va detto, la nostra storia non è sempre stata scintillante. Le appartengono anche le scivolate in serie B e gli anni di patimenti e mediocrità. Anni in cui non si è smesso di tifare, anzi. Anni in cui gli spalti di San Siro erano comunque pieni di folla. Anche questa è la storia cui lei ha mancato di rispetto licenziando in quel modo Maldini. Che, detto per inciso, da uomo può anche sbagliare e commettere errori. Mettendo tutto sulla bilancia, però, il saldo è ampiamente positivo, non fosse altro per la rapidità con cui, merito di tutto l’ambiente a partire da Stefano Pioli, il club è tornato competitivo e vincente pur con una rosa oggettivamente inferiore a quella dei principali concorrenti.

Oltre alla storia, non dichiarando incedibile Tonali, lei ha frustrato molti sogni. Certo, un altro bravo centrocampista si potrà trovare, glielo auguro (e non so più se dire «me» lo auguro), ma difficilmente saprà interpretare il milanismo che ho provato a delineare. Lei penserà che ci sono proposte impossibili da rifiutare e che con l’incasso di questa cessione si potrà rifare la squadra con nuovi giocatori. La modernità viaggia su altri criteri, penserà dall’alto della sua esperienza di manager e grande uomo d’affari. Può darsi che sia così. Da inguaribile romantico la penso al contrario. Non tutto può essere ridotto a questo calcio cinicamente mercenario. E, forse, la scelta per l’Inter di Marcus Thuram che corteggiavamo da tempo potrebbe accendere la spia e farla riflettere.

Qualche anno fa era in voga lo spot di un papà che andava al supermercato con la figlia piccola e sceglieva i prodotti con lei, pagando con una carta di credito. La spesa era un appuntamento abituale, un divertimento complice tra il papà e la bambina e il claim finale dello spot recitava: ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard. Ecco, caro Cardinale, ci pensi e provi a farmi tornare l’amore per il Milan, se ci riesce. So che con RedBird ha avuto molte soddisfazioni economiche in altre discipline sportive. Ma per noi tifosi di calcio le uniche soddisfazioni che contano sono le vittorie e l’amore per i nostri colori. Ci pensi bene. Pensi bene se sente di essere all’altezza di questa storia. Altrimenti è meglio che lasci a chi è sicuro di esserlo.

Distinti saluti.

Lo scudetto del Milan vinto col fattore umano

È uno scudetto conquistato all’opposizione quello vinto dal Milan domenica allo stadio Mapei di Reggio Emilia con il 3 a 0 sul Sassuolo. Uno scudetto contro. Vinto risalendo la corrente. Ribaltando lo scetticismo dei media e degli analisti più accreditati. Domando squadre più attrezzate e sponsorizzate. Metabolizzando errori arbitrali clamorosi che hanno tolto punti che avrebbero potuto risultare decisivi. Uno scudetto vinto sul filo di lana dopo una volata di sei vittorie consecutive contro squadre molto insidiose. Ma non è solo per questo che il diciannovesimo trofeo nazionale incamerato dalla società rossonera ha un sapore particolare. Si è letto del capolavoro di Stefano Pioli, gran protagonista, allenatore finora apprezzato per le qualità umane (mai una parola fuori posto anche quando Ralf Rangnick era a un passo da Milanello), ma considerato un non vincente. Si è letto del ruolo di Zlatan Ibrahimovic e del carisma dei «vecchi» come Simon Kjaer e Olivier Giroud. Si è riconosciuta l’esplosione di talenti come Rafael Leao, Mike Maignan e Sandro Tonali. Si sono apprezzati i grandi meriti di Paolo Maldini, passato dalla dimensione di ex bandiera, prima all’ombra di Leonardo e poi di Zvonimir Boban (il cui contributo oggi non va dimenticato), a quella di dirigente autorevole e lungimirante. Se oggi il Milan è una società che attira l’interesse dei maggiori fondi internazionali è perché in poco più di due anni, grazie al lavoro di Elliott e dell’amministratore delegato Ivan Gazidis, ha risanato il bilancio e, da una sconfortante mediocrità, è salito ai vertici della Serie A, diventando un modello di calcio sostenibile. Anche queste sono considerazioni che si sono lette, soprattutto grazie al senno postumo. Perché, prima e durante, gran parte dei commentatori le ritenevano ininfluenti sul risultato del campo. I campionati li vincono i campioni, si ripete. E, dunque, con i soldi. Ci sono società che hanno improntato a questo assioma la loro filosofia. Basta guardare a come si sviluppano certe campagne acquisti.

A volte, invece, ed è questo il caso, si vincono anche con le idee. E con il fattore umano. È per questo, forse, che questo scudetto vale più di altri. Ci sono alcuni fotogrammi che fanno intuire cosa s’intende quando si parla della «forza del gruppo», come ha fatto Davide Calabria nell’euforia di domenica sera rispondendo a chi gli chiedeva il segreto della cavalcata rossonera.

Castillejo, ancora tu

 Il primo flash risale al 16 ottobre, quando alla fine del primo tempo il Milan è sotto 0 a 2 con il Verona. Dopo l’intervallo Pioli sostituisce Alexis Saelemaekers ripescando dal sottoscala dello spogliatoio Samu Castillejo che fino a quel momento aveva giocato due minuti alla seconda di campionato. Sempre dato come partente nelle ultime sessioni di mercato, nel secondo tempo di quella partita lo smilzo Castillejo, che ha sempre continuato ad allenarsi nonostante fosse marchiato come giocatore che «non rientra nei piani dell’allenatore», dà l’anima fino a risultare determinate nella rimonta rossonera. Dopo il gol di Giroud, procura il rigore del pareggio trasformato da Franck Kessie e l’autorete del difensore veronese del 3 a 2 finale. Dopo il triplice fischio si scioglie in lacrime tra gli abbracci dei compagni. Spiegherà alle televisioni che sta attraversando un momento difficile perché gli manca la famiglia rimasta in Spagna alla quale spera di riunirsi quanto prima.

Ingaggio autoridotto

Il secondo fotogramma riguarda Tonali, nato lo stesso giorno di Franco Baresi, tifoso rossonero fin da bambino quando scriveva le letterine a Santa Lucia perché esaudisse il suo sogno di diventare un giocatore del Milan. Una volta arrivato, nell’estate 2020 in prestito dal Brescia, però Sandrino delude le attese. I soliti scettici sentenziano che «non è da Milan» e che non vada riscattato. La società invece gli dà fiducia e mantiene la rotta. Per agevolare l’operazione, lui decide di ridursi l’ingaggio di 400.000 euro. Un gesto che lo rende protagonista, lo sgrava di troppe responsabilità e lo rende più disinvolto e propositivo anche in campo, fino a farlo risultare uno dei migliori della stagione.

Arbitri e alibi

Il 17 gennaio, quando in classifica l’Inter ha 49 punti e il Milan 48, si gioca Milan-Spezia. In pieno recupero, sul punteggio di 1 a 1 l’arbitro fischia un fallo su Ante Rebic senza concedere la regola del vantaggio proprio mentre la palla arriva a Junior Messias che insacca. Successivamente, nell’ultima azione della partita, lo Spezia segna il gol dell’1 a 2 e così, nel giro di un minuto, dalla vittoria quasi certa il Milan passa a una rocambolesca sconfitta. L’arbitro Marco Serra chiede scusa sconfortato per l’errore. Al termine del match Ibrahimovic gli fa visita nello spogliatoio: «Tranquillo, sbagli tu come sbaglio io». Il Codacons chiede di ripetere la partita. Al contrario, Pioli e la società non alzano i toni della polemica contro i direttori di gara e l’Aia (Associazione italiana arbitri), evitando di alimentare alibi nello spogliatoio.

Sono tre flash, se ne potrebbero aggiungere altri. Ma bastano per intuire che il fattore umano, spesso sottovalutato, alla lunga può fare la differenza anche in un gioco complesso, strano e imprevedibile come il calcio.

 

 

La Verità, 24 maggio 2022

 

Favola di Natale: Il fattore umano del Milan

Massì, scriviamolo: quest’anno la favola di Natale è quella del Milan. Scriviamolo, rischiando un po’, perché poi magari la storia non sarà a lieto fine. È molto possibile, se non proprio probabile. Però scriviamolo lo stesso perché, in tempi di sofferenze e tragedie, forse la favola del Milan può alleggerirci un po’ e aiutarci a ritrovare un briciolo di leggerezza.

Qualcuno tra gli osservatori inizia ad accorgersene. Comincia a cogliere che nella parabola della squadra che un anno fa perdeva 5 a 0 in casa dell’Atalanta e ora è in testa al campionato di Serie A, c’è qualcosa di più di un mero fatto tecnico. Rileggiamo l’incipit di Luigi Garlando sulla Gazzetta dello sport dopo il successo all’ultimo respiro contro la Lazio: «Stefano Pioli ha la faccia radiosa di George Bailey quando alla fine abbraccia i suoi ragazzi a un passo dal Natale: La vita è meravigliosa! Neanche Frank Capra avrebbe immaginato un film del genere…». Sempre dopo il fischio finale di Milan-Lazio i giornalisti di Sky Calcio Show hanno chiesto al capitano Alessio Romagnoli che cosa sia scattato nella squadra che, da ingenua e fragile, si è trasformata in un gruppo mai rassegnato e dalle infinite risorse? Quale alchimia si sia instaurata tra i giocatori e l’allenatore? «C’è un’intensità nel Milan che nessun altro ha, qualcosa di antico, di poco descrivibile, che copre i limiti di giornata… Una squadra di amici», ha sintetizzato Mario Sconcerti sul Corriere della sera. Poi, certo, potrà accadere che lo scudetto lo vinceranno l’Inter o la Juventus come quasi tutti gli addetti ai lavori pronosticano. I valori tecnici alla fine non mentiranno e le rose sono di valore diverso. Il Milan, per dire, è la squadra più giovane del campionato, nonostante il trentanovenne Zlatan Ibrahimovic. Eppure è lì, per ora. Eppure ha superato mille avversità, finora. Compreso il Covid dell’allenatore, del vice e del giocatore più determinante.

La chiameremo «fattore umano» la favola di questo Milan. Un fattore nel quale Pioli ha i meriti principali. Insieme a Paolo Maldini. E anche agli altri dirigenti, compreso Zvonimir Boban che si è dimesso. Basta tornare all’inizio di questo disgraziato 2020. Poco dopo quello 0-5 patito a Bergamo, Maldini e Boban convincono l’amministratore delegato del fondo Elliott Ivan Gazidis a richiamare Ibrahimovic dal viale del tramonto dei Los Angeles Galaxy. Sarebbe arrivato da salvatore della causa. Da deus ex machina. E l’investitura avrebbe stuzzicato assai il suo considerevole ego. Nel frattempo il destino di Pioli il traghettatore è segnato. Al suo posto viene allertato Ralf Rangnick, coach teutonico circondato da un alone messianico, depositario di un calcio moderno e dogmatico. È tutto fatto. Motivo per cui il poco diplomatico Boban rilascia un’intervista dopo la quale non può che andarsene. Ma, a sorpresa, dopo il lockdown la squadra inizia a dare segnali di risveglio e il brutto anatroccolo a trasformarsi. L’assenza dei tifosi sulle tribune, la minor pressione e un clima più disteso resettano la scheda madre dell’ambiente. La cura Ibra e il nuovo modulo tattico fanno il resto. 2-0 alla Roma, 3-0 in trasferta alla Lazio, vittoria in rimonta sulla Juventus, pareggio con l’Atalanta mostrando un calcio prolifico. Nel frattempo, interrogato sul suo futuro, Pioli non fa una piega, nessuna smorfia di amarezza o di orgoglio. «Io faccio il mio lavoro fino all’ultimo giorno, giochiamo una partita alla volta. Poi la società prenderà le sue decisioni». Un autocontrollo raro nel mondo del calcio (e non solo) dove, alla prima difficoltà, dirigenti e coach sono abituati a sbottare e a togliersi sassoloni dalle scarpe, magari anche maltrattando giornalisti e commentatori. Pioli vuol far parlare i risultati. E il fattore umano inizia a lasciare il segno. I giocatori sono compatti dalla sua parte. Gli osservatori cominciano a dire che meriterebbe di portare avanti il lavoro iniziato. La sera del 21 luglio (vittoria sul Sassuolo), tornando clamorosamente e meritoriamente sui suoi passi, Gazidis ufficializza la conferma dell’allenatore. Il resto è storia recente. Il Milan non perde in campionato da 26 partite e ha conquistato i sedicesimi dell’Europa League. Chi ha visto i filmati dei tifosi che hanno accompagnato il pullman allo stadio nella luce rossa dei bengala o le facce dei giocatori a fine partita inizia a capire che, dentro tutto questo, c’è qualcosa di speciale. «Giochiamo con il fuoco dentro», ha sintetizzato Pioli.

Andrà come andrà. E non è affatto detto che sarà «tutto bene» come preconizzavano i balconi del primo lockdown o come, appunto, favoleggiano i film natalizi di Capra. I valori tecnici contano e sono dalla parte di squadre che hanno investito e investono di più. E poi, tutta questa storia messa su solo per l’incornata allo scadere di Theo Hernandez. Tutto vero: pura fortuna e puri dettagli. Chissà.

Di Pioli, leader mite, si è sempre detto che con le sue squadre partiva bene ma si spegneva presto. Ora è sotto monitoraggio. La mattina del 4 marzo 2018 allenava la Fiorentina quando nella camera di un albergo di Udine dove, al pomeriggio, avrebbe dovuto sfidare l’Udinese, Davide Astori fu improvvisamente trovato senza vita. Quel giorno la Serie A fu sospesa. Pioli dice spesso che la morte di quel giocatore esemplare lo ha segnato come uomo e come allenatore. Chissà se quella tragedia c’entra qualcosa con la favola di oggi.