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«Vivo al Lido, ma niente Mostra: ora dipingo»

Catherine Spaak è morta il 17 aprile 2022, giorno di Pasqua, dopo una lunga malattia. Ripropongo la mia intervista, pubblicata dalla Verità nel settembre 2017, perché, pur dissonante nel coro generale degli osanna, ne fa ugualmente trasparire l’intelligenza e lo spirito indomito.

«Eravamo in barca…». Catherine Spaak arriva al bar del Lido di Venezia scortata da una barboncina. Camicia e bermuda, capelli raccolti, abbronzatura da esposizione senza creme protettive. Il fascino resiste.

In barca con suo marito?

«Sì, è pilota di porto, ma ha una barca sua».

Cosa fanno i piloti di porto?

«Salgono a bordo delle navi da trasporto e da crociera e le guidano insieme ai comandanti fino all’ormeggio».

Sulle grandi navi in laguna…

«Dice che non danneggiano l’ambiente: sotto, nei canali, c’è la melma».

Da quanto vive al Lido?

«Da due anni. Prima mio marito stava a Trapani».

E vi siete sposati sposati a Erice.

«Mio marito ha avuto un incidente a una spalla ed è rimasto fermo per un po’. Quando è rientrato ha potuto scegliere la nuova destinazione e ha scelto Venezia, che piaceva anche a me».

È più giovane di 18 anni: pesa la differenza d’età?

«Le cose che facevo con facilità a 40 o 50 anni ora mi costano. Andare in bicicletta, per esempio. Le cene e la mondanità invece non mi sono mai piaciute».

Capisco. La differenza di età rispetto al marito?

«Non credo sia rilevante».

Perché ha molte energie?

«Mi posso accontentare».

O perché crede nell’amore?

«Qualcuno ci riesce, ma penso che vivere senza amare sia una condanna».

Tra Emmanuel Macron e sua moglie ci sono 24 anni di differenza.

«Non m’interessa. Ho perso il vizio di giudicare: è troppo faticoso».

Sbaglio se dico che bisogna avere tante risorse per non farsi scoraggiare dagli amori finiti e risposarsi la quarta volta?

«A Maurizio Costanzo non farebbe questa domanda».

Magari sì.

«Ne dubito, è una domanda che si fa alle donne. Ci sono donne che hanno avuto mille uomini, ma essendosi sposate una sola volta sono stimate. Lo so, i matrimoni fanno effetto; io credo possa essere una brava donna anche chi è arrivata al quarto».

L’ultima volta che il grande pubblico l’ha registrata è stata all’Isola dei famosi

«Che cosa significa registrata?».

Cosa non ha funzionato all’Isola?

«Accadevano cose diverse da quelle prestabilite e me ne sono andata».

Per esempio?

«Non ne parlo volentieri, sono state scritte cose pessime. L’Honduras è violento. All’ingresso degli alberghi c’erano cartelli che invitavano a lasciare le pistole in macchina. A causa di un tornado siamo rimasti in hotel una settimana. Mi è capitato di vedere un servizio in tv sui soldati dell’esercito che, siccome si annoiavano, sparavano alle gambe dei cani per esercitarsi».

Ne fu turbata.

«Era parte di una situazione per me insostenibile».

In televisione iniziò come conduttrice di Forum su Canale 5, ma dopo due anni smise…

«Come giornalista sì, ma durò di più…».

Perché finì?

«Non ne voglio parlare».

Ad Harem invece si è divertita molto.

«Per 15 anni. Autori e direttori di Rai 3 mi hanno lasciato piena libertà. Credo che anche il pubblico si sia divertito».

L’ospite più divertente?

«È difficile, tre persone a settimana per 15 anni… Una è Kuki Gallmann, l’ambientalista autrice di Sognavo l’Africa. E Paola Borboni, piena di vita».

La sua dote era la malizia?

«La capacità di ascoltare. I giornalisti hanno paura del silenzio. In tv, poi, vanno nel panico. Ero intuitiva, accettavo il silenzio, prima che la persona parlasse».

L’ospite che la mise in difficoltà?

«Nessuno».

Perché fu chiuso il programma?

«Dopo Angelo Guglielmi altri cinque direttori l’avevano confermato. Quando arrivò Paolo Ruffini decise che si era detto tutto sulle donne».

Nessuna trattativa?

«Avevo dei progetti, ma non ebbero seguito».

Prima della tv il cinema e un po’ di musica: ha sempre voluto fare l’attrice?

«Volevo fare la ballerina classica, avevo studiato, ma sono diventata troppo alta. Il contatto con il cinema è stato casuale».

Sentiamo.

«Un’amica che doveva fare un provino per un cortometraggio mi chiese di accompagnarla. Il regista disse: “Lei è esattamente la tipologia di persona che cerco”. Solo che ero io. Quello fu il mio inizio, anche se mio padre era un importante sceneggiatore e in casa venivano molti uomini di cinema».

Che rapporti aveva con i suoi?

«Non buoni. Me ne sono andata a 18 anni dopo il primo film, Dolci inganni, di Alberto Lattuada».

Come la pescò Lattuada?

«Aveva già collaborato con mio padre a un film intitolato La spiaggia. Veniva a trovarci e diceva che prima o poi avrei fatto l’attrice. Quando chiese se poteva farmi un provino a Roma non pensavo di fare l’attrice».

Da bambina firmava autografi ai compagni di classe.

«Era un gioco».

Suo padre le concesse il provino, non era cattivo…

«Lo vedevo poco. A 9 anni sono entrata in collegio e ne sono uscita a 14 per andare a scuola a Parigi. A 16 o 17 ho iniziato a lavorare. Erano rapporti sempre un po’ conflittuali».

Poi risolti?

«Quando si è giovani è difficile comprendere certe cose, ma alla mia età mi sento serena. Non vivo nel passato».

In quegli anni al cinema era spesso oggetto del desiderio di persone adulte.

«Fanno ridere queste parole se si guardano quei film. Interpretavo ruoli di ragazza libera, consapevole. O personaggi letterari come la Cecilia de La noia di Alberto Moravia. Donne autonome».

Proto femministe.

«Non c’era il divorzio, le donne erano sottomesse, tanto più in un mondo maschilista come il cinema. Sul set c’erano 60 uomini e tre donne. La sarta, la segretaria di edizione e l’attrice protagonista; quattro con la parrucchiera. Anche uomini di talento e di cultura erano misogini».

Il suo fascino etereo incrinò il dominio delle maggiorate.

«Era anche un fatto generazionale. Io e alcune colleghe come Stefania Sandrelli eravamo diverse da Sofia Loren a Gina Lollobrigida, con tutto il rispetto. La seduzione divenne più mentale che fisica».

Il suo modello?

«Ammiravo Audrey Hepburn. Quando la cito gli uomini storcono la bocca».

Cosa pensa dello scandalo delle molestie sessuali?

«Che doveva capitare. È la solita storia: tutti lo sanno e nessuno lo dice. Io ne parlai molti anni fa, ma molte colleghe dissero che a loro non era mai successo. Forse era solo troppo presto».

Il movimento Metoo?

«Ci sono tante sfaccettature, anche donne che approfittano di certe situazioni o che hanno delle responsabilità. Tuttavia, penso che la maggior parte abbia aderito perché ha subito situazioni spiacevoli. Il femminicidio è il risultato di un comportamento maschile sbagliato».

Catherine Deneuve ha difeso la libertà degli uomini di importunare.

«Poi si è scusata. Catherine Deneuve è Catherine Deneuve. Posso solo dire che non sono d’accordo».

Se gli uomini superano il limite non basta ribellarsi?

«Bisogna proteggere le donne molestate e violentate. Ci vuole un’educazione diversa di quella che si dà ai maschi, non solo in Italia. Qualche anno fa se una donna andava in commissariato le ridevano in faccia. Servono leggi severe per gli uomini che si comportano in modo sbagliato».

Lei ha subito molestie?

«Tempo fa, niente di grave, atteggiamenti inadeguati».

Che idea si è fatta della vicenda di Asia Argento?

«Nello studio di Bruno Vespa l’ho difesa dicendo che è assurdo stabilire un lasso di tempo oltre il quale una denuncia non è valida».

Gli ultimi fatti insegnano che lo schema uomini violenti e donne vittime è da rivedere?

«Bisogna sapere bene come sono andate le cose prima di giudicare. Io non lo so».

È ancora interessata alle discipline orientali?

«Pratico la meditazione buddista secondo la tecnica Vipassana».

Cosa le trasmette?

«Mi aiuta a interrogarmi sulle questioni fondamentali della vita. Anche la scuola dovrebbe educare al silenzio. Viviamo in un mondo di rumore, saltando da un posto all’altro. La tecnologia ha grande responsabilità, vedo ragazzi che non vivono senza essere connessi e non sanno stare soli con sé stessi».

Le manca il tempo in cui era «la voglia matta» di Ugo Tognazzi?

«Per carità».

Quando cantava L’esercito del surf?

«Per carità».

E quando ospitava Giulio Andreotti ad Harem?

«Nooo. Non vorrei avere né 30 né 40 né 50 anni oggi, sarei in difficoltà. Ero così anche a vent’anni».

Così come, un filo snob?

«L’hanno detto in tanti».

Si definisca.

«Non saprei… Sto bene con me stessa».

L’hanno mai invitata alla Mostra del cinema, a due passi da qui?

«Due anni fa hanno proiettato L’uomo dei cinque palloni di Marco Ferreri con Marcello Mastroianni. Mi hanno invitata, ma ho declinato. Non ho voglia di presenziare…».

Se le chiedessero di consegnare un premio?

«Mah… Vivo lontano dal cinema e dal teatro. Anche se l’anno scorso ho recitato un testo scritto da me su Colette. L’abbiamo portato in tournée e replicato diverse settimane al Parioli di Roma».

Perché smise di fare cinema?

«Trovavo banali le parti che mi proponevano. Tutto si è affievolito molto serenamente».

Ci va ancora?

«Da normale spettatrice, anche a teatro. Vado alle mostre, alla Biennale… E dipingo; la pittura mi ha preso molto».

Quando vedremo i suoi quadri?

«A fine anno».

Ci può anticipare qualcosa?

«Devo incontrare un gallerista interessato a quello che faccio, ne parlerò al momento opportuno».

Niente notizie, le piace più intervistare che farsi intervistare.

«Ora nemmeno più quello. Quando ho cominciato a scrivere sospettavano che scrivesse qualcun altro; quando facevo le interviste che le preparasse qualcun altro; ora diranno che i quadri chissà chi li ha dipinti. Ha presente quando si diceva che gli attori di cinema non potevano recitare a teatro? Però questi giudizi non mi hanno impedito di fare quello che ho fatto e che faccio».

Il suo film della vita?

«È difficile… Adoro Momenti di gloria».

Bellissimo.

«Anche E. T. e Jules e Jim. Poi leggo molto, due o tre libri al mese».

L’ultimo?

«La treccia di Laetitia Colombani».

Vive al Lido e va spesso a Roma…

«Ogni tanto, Roma non mi piace più, sto meglio qui. Anche d’inverno».

La Verità, 2 settembre 2017

«Il mercato dell’arte contemporanea è folle»

Le opere di Giovanni Frangi ti restano dentro. Ti fanno rimuginare a distanza di giorni. Fino al 17 giugno sono esposte a Villa Carlotta di Tremezzo, in faccia al lago di Como che le irrora e le cangia di luce e riflessi. Quadri, sculture, installazioni nello splendido parco. Frangi è un esploratore della natura. Della natura e del paesaggio che sono fuori di noi, ma che risuonano in noi. Noi stessi siamo natura. Foreste tropicali, cieli notturni, fiumi nel verde: che riverbero hanno, che emozione generano nell’essere? Sono opere che nascono dallo sguardo del cuore. Uno sguardo appreso da Giovanni Testori, che era suo zio. Anzi, è suo zio, visto che ne parla al presente. Diplomato all’Accademia di Brera, milanese di cinquantotto anni, artista contemporaneo completo, pittore, scultore, incisore, Frangi ha esposto nelle gallerie di tutto il mondo.

Com’è nata la collaborazione con Villa Carlotta?

«Con 220.000 visitatori l’anno, la Villa è una delle mete lombarde più frequentate da turisti e amanti dell’arte italiani e internazionali che vengono per ammirare opere di Antonio Canova, di Francesco Hayez e di altri autori dell’Ottocento. Da quest’anno l’Ente morale che la gestisce ha deciso d’inaugurare un rapporto nuovo con l’arte contemporanea e mi ha contattato».

Hanno scelto in base al fatto che le sue creazioni prendono vita nel rapporto con la natura?

«Credo di sì. Ho sempre cercato un ambito preciso nel quale lavorare, una forma precisa per rafforzare la mia identità. Sono partito dal paesaggio, le case, le aree industriali, le tangenziali. Negli anni la natura è diventata l’elemento nel quale mi trovo più a mio agio».

La ispira il luogo dove deve situare le opere oppure prima le crea e poi cerca gli spazi?

«I luoghi espositivi suggeriscono differenti modalità espressive. Qui ho tentato di costruire un rapporto tra il parco e le stanze della Villa. Ai margini della foresta delle felci che sembra una jungla giurassica ho adagiato due tronchi rossi, come fossero reperti. Oppure ho creato un serpente di stoffa colorata che abbraccia la douglasia, un gigantesco tronco disteso nel giardino. All’interno ho collocato i quadri su strutture autoportanti e mobili come quinte teatrali, in modo che i cambiamenti della luce nella giornata potessero modificarne la percezione».

Quanto è importante il colore nella sua arte?

«È un elemento fondamentale. Partendo da fotografie di posti che ho visto, realizzo una trasformazione cromatica della natura. Come nel ciclo chiamato Selvatico: una foresta tropicale reinterpretata con il rosso e il blu. L’immagine originale è reinventata con l’uso arbitrario del colore. Così, in qualche modo, nasce una nuova realtà. L’arte è creazione di qualcosa che prima non esisteva. Ciò che sorprende l’artista mentre lavora è proprio il risultato inaspettato. Questa imprevedibilità è un elemento quasi magico».

È ciò che si chiama ispirazione?

«L’ispirazione è anche frutto di una pratica artigianale. Un artigiano ha bisogno di ripetere più volte la stessa azione per essere sicuro di compiere quel gesto nel modo giusto. Per raggiungere questo stato di grazia occorre che il motore sia rodato».

Ha iniziato a dipingere da bambino: una vocazione innata?

«Ho iniziato presto a disegnare perché mi ero accorto che mi divertiva. Il piacere esecutivo è stato fondamentale. Quando qualche anno fa ho visto che Vincent Van Gogh corredava di disegni le lettere che spediva a suo fratello mi è tornato alla mente che da piccolo disegnavo con le matite Caran d’Ache e che per stendere il colore le bagnavo con la lingua. Provavo piacere vedendo che due colori funzionavano uno con l’altro».

Perché all’inizio dipingeva finestre, sedie, tavoli?

«Erano il tentativo di dare una mia rappresentazione del mondo in una chiave matissiana. Nel 1986 quei dipinti composero la prima personale a Milano curata da Achille Bonito Oliva. L’anno scorso alcuni di quei quadri sono stati riproposti a Palazzo Fabroni, per Pistoia capitale della cultura, insieme a lavori più recenti con i quali funzionavano bene».

Quest’anno sono 25 anni dalla morte di Testori. Per lei è stato un maestro, un testimone o un ispiratore?

«È una presenza fondamentale nella mia formazione. Con me e mio fratello Giuseppe ha sempre avuto un rapporto fraterno. È un uomo che ha portato la sua espressività al limite estremo. Questa drammaticità nei confronti dell’esistenza lo rende tuttora da scoprire, imprevedibile grazie alla sua complessità».

C’è un episodio, un fatto particolare, che la accompagna del suo rapporto con Testori?

«Nel 1988 ero presente alla prima di In exitu a Firenze, il dramma della morte di un drogato ambientato alla Stazione Centrale di Milano con Testori in scena a fianco del grande Franco Branciaroli. Dopo venti minuti il pubblico ha cominciato a gridare “basta, basta coi froci” e più di metà sala se ne stava andando mentre l’altra metà applaudiva… Io ero evidentemente tra questi, ma c’era un’atmosfera di grande stress. Pensavo che smettessero, invece alla fine mio zio era entusiasta. Lo scandalo lo esaltava e quella fu una serata mitica».

Nell’opera e nella lingua di Testori è centrale la carne. Lei hai scelto la via della materia. In che cosa l’ha influenzata dal punto di vista artistico?

«Nello sguardo sulle cose, nella capacità di sorprendersi. Nell’essere una persona sicura, ma anche, allo stesso tempo, una persona attratta da qualcosa che non è suo: questa è la dote della giovinezza. Aveva una grande saggezza, ma anche uno sguardo infantile. Il grande scultore francese Constantin Brâncusi diceva: “Quando non siamo più bambini siamo quasi morti”».

In che senso nelle sue immagini «entra qualcosa di infinito»?

«Urpflanze, il titolo di questa esposizione, è un termine usato nel Viaggio in Italia da Goethe per identificare la pianta originaria, quella da cui tutte discendono. È qualcosa che ci pervade, non una realtà esterna che guardiamo da spettatori. L’infinito entra nel particolare della natura. È lì che lo riconosco. Nei miei lavori cerco di rendere questa percezione. Che non è un’esperienza astratta, ma avviene attraverso un rapporto fisico, un contatto corporeo».

Come lavora un artista che dipinge, scolpisce, incide e usa materiali come la gomma piuma?

«La tecnica è fondamentale. Da qualche anno lavoro su tele con una base cromatica precisa. Cerco strade nuove, sperimentazioni nella scultura e nelle incisioni. Se rifai ciò che già conosci ti annoi. La bellezza di questo lavoro sta nella curiosità, nel mettersi alla prova, nel cercare l’inedito. Spesso sono i luoghi espositivi a suggerire prove diverse».

Cosa pensa della moda delle mostre? Sono diventate un fenomeno popolare, senza vera passione per l’arte?

«Il rischio della moda e del conformismo legata solo ad alcuni nomi è reale. L’abbiamo visto per la mostra di Caravaggio a Milano. C’era una coda continua, in pratica era impossibile entrare.  Ma è sbagliato pensare che l’arte sia per pochi».

Lo storico dell’arte Tomaso Montanari sostiene che ci sia un eccesso di offerta.

«Il pericolo delle mostre blockbuster esiste. È diventa una mania. La vastità dell’offerta penalizza la qualità. Tuttavia, non mi piace nemmeno lo snobismo di chi ritiene che l’arte sia un fatto di élite, che necessiti di una propedeutica. L’equilibrio tra pop e élite è difficile. Da artista faccio una selezione, non riesco a vedere tutto, anche se vorrei».

Quali sono le mostre che ha maggiormente apprezzato di recente?

«Mi è piaciuta Post Zang Tumb Tuuum allestita alla Fondazione Prada sull’arte del Ventennio. Andando controcorrente rispetto al pensiero anglosassone che ritiene la white cube, lo spazio bianco e neutro, il luogo migliore per fruire le opere, il curatore Germano Celant ha ricostruito le situazioni espositive in cui vennero proposte all’epoca. Così si sono potuti apprezzare Mario Sironi, Giorgio De Chirico, Umberto Boccioni uno accanto all’altro con il sapore di quando si sono visti per la prima volta. Anche la mostra di Damien Hirst dell’anno scorso è stata straordinaria. Hirst è un artista che si reinventa sempre e ha riportato a Venezia la narrazione nell’arte. In una mostra ci racconta una storia. Quando l’arte raggiunge questa capacità di comunicazione riesce a farsi comprendere anche dai bambini, oltre che dagli addetti ai lavori».

Le è mai capitato di raggiungere questo livello di comunicazione?

«Forse con Nobu at Elba a Villa Panza di Varese, dove ho realizzato un’installazione pittorica per una superficie di 40 metri in cui ricostruivo con l’ausilio di un’illuminazione variabile l’impressione di trovarsi di notte davanti a un fiume. Il messaggio era molto semplice. Ognuno di noi si emoziona all’arrivo della notte ai bordi di un fiume, ma non sempre si riesce a raggiungere quell’immediatezza».

Perché spesso l’arte contemporanea risulta incomprensibile? A volte sembra essere arte della provocazione?

«La provocazione è da sempre stata nel Dna dell’arte. Forse è la sua ragion d’essere. l codici devono essere sempre trasgrediti. La vera arte riguarda la sfera più profonda della nostra vita, le paure con cui dobbiamo confrontarci».

E che dire delle quotazioni esorbitanti? L’arte contemporanea è solo per miliardari?

«Penso solo che sia il sintomo di un meccanismo impazzito, un mercato completamente drogato con dei congegni perfetti. Ci sono artisti che non hanno quarant’anni che costano cifre assurde. Una speculazione, una gara senza senso che confonde i valori, gli equilibri della storia. Un’opera di Mario Sironi o di Filippo De Pisis costa 50 volte meno di un disegno di Marlene Dumas o di William Kentridge. Le sembra possibile?».

La Verità, 20 maggio 2018