La scoperta dell’imperfezione. La propria, insospettata, imperfezione. La scoperta della propria fallibilità. La presa di coscienza del proprio limite, di non essere impeccabili. Se si è onesti con sé stessi, può essere un’esperienza dolorosa. Macerante. Ancor più se si è una star del cosiddetto teatro civile. Una persona che ha fatto tante denunce pubbliche che hanno lasciato il segno. L’intervista che ha concesso ieri Marco Paolini a Gian Antonio Stella del Corriere della Sera è, a suo modo, un documento di che cosa sia l’uomo moderno. L’uomo contemporaneo, con tutte le sue migliori intenzioni. Le più apprezzabili. L’uomo d’oggi, che basta a sé stesso. L’uomo autosufficiente. E, al contempo, un documento della nostra fragilità, della nostra precarietà. In quanto uomini e basta. Uomini qualsiasi.
Riassumo la storia per chi non la conoscesse. Poco meno di un anno fa, il 17 luglio 2018, tornando da un seminario in Trentino, l’attore e regista Marco Paolini ha causato un incidente sull’autostrada A4 Milano-Venezia nel tratto tra Verona sud e Verona est. Distratto da un colpo di tosse che in quel periodo lo perseguitava ma che non aveva ancora fatto in tempo a curare, cambiando corsia, la sua station wagon ha urtato una 500 provocandone il ribaltamento e, due giorni dopo il ricovero in ospedale, il decesso di Alessandra Lighezzolo, 53 anni, una delle due persone che erano a bordo, madre di due figli. Da allora la vita di Paolini è cambiata. È cambiato il suo modo di fare l’attore, di salire sul palco, di rapportarsi al pubblico. Lui, il drammaturgo implacabile di tanti memorabili spettacoli, a teatro, in tv, al cinema (Il racconto del Vajont, Il Milione, I-Tigi Canto per Ustica, Il sergente, La macchina del capo, La pelle dell’orso ecc. ecc.). Non tanto e non solo perché c’è una sentenza a suo carico in cui è scritto nero su bianco «omicida stradale», con la condanna a un anno di reclusione, pena sospesa con la condizionale. No, la questione è più profonda. L’attore ha da subito ammesso la sua colpa, di essere stato lui a causare l’incidente, vincendo lo stupore di essere totalmente incolume pur avendo ribaltato un’altra macchina. «Tutti sappiamo… che una distrazione, un errore, una svista, possono provocare danni irreparabili. Tutti gli amici hanno provato a tenermi su ripetendomelo. Ma non hai modo di prepararti a questo. Quando succede… Undici mesi dopo quel giorno non è cambiato molto. Posso provare a capire me stesso. Ma non riesco a perdonarmi». Ecco.
Riuscire a perdonarsi è la cosa più difficile del mondo. Un’ascesa verticale nel profondo della coscienza. Un’impresa impossibile. L’eterna e impari lotta con il proprio orgoglio. La scoperta della propria inadeguatezza: quando hai sbagliato, commettendo qualcosa di irreparabile. La morte di una persona, tolta definitivamente ai suoi cari. Tutto causato da una semplice «ne.gli.gen.za», sillaba Paolini. Che, onestamente, non si fa sconti. Come non è abituato a farli agli altri, dal palco. La questione è questa. Una distrazione, un colpo di tosse, ti sveglia improvvisamente dall’idea che puoi sempre farcela. Ora non puoi più. Come fai a perdonarti?
L’attore ha scritto alla famiglia della donna morta. Senza ottenere risposta. Ha pensato anche di cambiare mestiere. È dura affrontare il pubblico, provare a far ridere la gente, magari lanciarsi in qualche monologo fustiga costumi con dentro un groppo così. Per un periodo ha cancellato tutte le date, almeno quelle in cui recitava da solo. Poi ha ripreso, pian piano, pensando che quello è il suo lavoro e non ne ha altri e sarebbe ingiusto con sé stesso rinunciare. Però la questione si ripresenta. Come un virus nel retropalco della coscienza: «È ovvio che chi fa il mio lavoro a volte prende posizioni nette. Denuncia. Accusa. Avere commesso un errore così grave ha messo in discussione dentro di me la legittimità di puntare il dito. Da che pulpito! Come fai ad esercitare una funzione critica? Forse non lo puoi fare più. Forse devi stare zitto. Forse la tua pena è il silenzio».
Durissima per un attore, un drammaturgo, un uomo del teatro civile.
Il palco ti ha abituato a essere un punto di riferimento, il terminale positivo delle domande del pubblico che paga il biglietto e riempie le sale. Sei una star. Vivi inevitabilmente dentro una bolla. Di invulnerabilità. Di infallibilità. La star è il superuomo per antonomasia. Il prototipo dell’uomo moderno autosufficiente. È abituato a questo. Sul palco non si può sbagliare, con tutti gli occhi addosso. E se si sbaglia, comunque, nulla è così irreparabile. Ma fuori, quando muore una persona per una tua distrazione? Come fai a perdonarti? Forse puoi solo imparare a modulare diversamente le denunce. A puntare meno l’indice. A moderare le accuse con uno sguardo meno spietato e più compassionevole. Forse. In attesa della compassione che solo Dio può avere nei tuoi confronti.
Perché, carissimo Marco Paolini, l’ultima, subdola, rivincita del nostro orgoglio e della nostra presunzione, è proprio pensare di poterci perdonare da soli. Impossibile. Noi da soli siamo imperdonabili a noi stessi, soprattutto se siamo abituati a vincere. Solo un Altro che è morto in croce per noi, può farlo. Più che un’affermazione, il mio è un augurio. Perché, diversamente, senza un Altro che ci perdona, il nostro errore e il nostro male restano irredimibili.
P.s. Chissà, magari prima o poi, la famiglia di Alessandra Lighezzolo risponderà alle sue lettere. Non è detto, ma non è decisivo. Lo è che siano state scritte.
La Verità, 21 giugno 2019