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Sulla via dell’Oscar a Vermiglio c’è Emilia Pérez

La critica cinematografica italiana è gasata perché, selezione dopo selezione, Vermiglio di Maura Delpero continua la sua marcia verso la Notte degli Oscar del 2 marzo. Nei resoconti gli evviva e i cori di plauso si sprecano. Sebbene rimangano ancora un paio di ostacoli da superare, l’ambita statuetta sembra già cosa nostra. In un certo senso è lo stesso film visto l’anno scorso con Io capitano di Matteo Garrone. Qualche giorno fa l’opera che rappresenta l’Italia nella categoria «miglior film internazionale» è entrata nella shortlist dei 15 candidati che verranno ridotti a cinque il 17 gennaio prossimo. L’ottimismo della stampa specializzata è suffragato dall’ingresso nel sestetto che concorrerà ai Golden Globes del 5 gennaio. I quali, sebbene non sempre trovino puntuale conferma, sono comunque una significativa anticipazione delle preferenze dell’Academy. Motivo per cui molti addetti ai lavori considerano sicuro l’ingresso di Vermiglio nella fatidica cinquina finale. In fondo, non c’è che da aspettare restando, possibilmente, con i piedi per terra. Anche perché, sempre pochi giorni fa, un altro premio molto bramato, gli European film awards, è sfuggito al lungometraggio di Delpero sconfitto da Emilia Pérez, osannato musical diretto da Jacques Audiard che ha ottenuto riconoscimenti in cinque, diverse, categorie. Ovviamente, Emilia Pérez, già Premio della giuria a Cannes, quando gran parte dei critici lo riteneva meritevole della Palma d’oro, è anch’esso nella lista dei 15 e tutto fa pensare che entrerà da favorito nell’ambita cinquina.
Nei cinema americani Vermiglio uscirà il giorno di Natale e l’accoglienza sarà interpretata come indicatore in vista della successiva scrematura. La storia raccontata nel film è quella di una famiglia, i nonni della regista, di un villaggio della Val di Sole alla fine della Seconda guerra mondiale, dove l’arrivo di un disertore incrina gli equilibri della piccola comunità e i sentimenti di una delle figlie dell’austero maestro del paese, uomo egoista e temuto anche tra le mura domestiche. Il contrasto tra il candore della neve e certi segreti dei componenti della famiglia è la metafora di un piccolo mondo immobile dietro il quale si nascondono solitudini e turbamenti. Presentando il cartellone dell’81esima Mostra di Venezia il direttore Alberto Barbera ha accostato Vermiglio all’opera di Ermanno Olmi e ha parlato di «vera e propria reincarnazione». Il riferimento, che la regista ha condiviso, entusiasta, è all’Albero degli zoccoli, e non solo perché ampie parti recitate in dialetto necessitano di sottotitoli. In realtà, al di là della cornice estetica e delle affinità formali, Vermiglio è spruzzato da pennellate molto mainstream. Mentre la primogenita resta incinta del disertore, la secondogenita manifesta inclinazioni omosessuali e, con lo scorrere delle stagioni, ritratte dalla splendida fotografia, il padre si rivela sempre più padrone, stimolando i primi accenni di resistenza della moglie e l’allontanarsi dei figli. Soprattutto, a differenza della cinematografia del maestro bergamasco, in questo declino rurale non c’è quasi traccia di fede e devozione religiosa, e il fatto suona piuttosto strano, considerando i tempi e i luoghi in cui è ambientata la storia. Così, in un certo senso, può suonare attenuante di questa «dimenticanza» o sottovalutazione, la confessione rilasciata da Delpero al momento della consegna del Leone d’argento a Venezia: «Racconto la mia famiglia in un tempo che non ho conosciuto».
L’Italia dei piccoli borghi, la vita rurale con le sue abitudini, le storie d’amore frustrate sono elementi che solitamente piacciono ai giurati dell’Academy. In occasione degli Efa, però, la regista ha lamentato il taglio dei fondi ministeriali che, in aggiunta a quelli dei produttori e alle sponsorizzazioni private, avrebbero dovuto appoggiare la partecipazione alla corsa: «Siamo Davide contro Golia», ha sintetizzato. L’amministratore delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco ha aggiustato il tiro parlando di un problema burocratico relativo al passaggio di consegne tra l’ex ministro Gennaro Sangiuliano e l’attuale, Alessandro Giuli. Ora l’ingresso nella penultima selezione dovrebbe sollecitare lo sblocco dei finanziamenti del ministero della Cultura. Tuttavia, non è affatto detto che bastino per giungere all’esito per cui tifa la critica nostrana. Quella internazionale, che pesa assai di più, è schierata per il film di Audiard che narra la storia di un narcotrafficante messicano, il quale, in crisi d’identità di genere, con l’aiuto di una zelante avvocato, inizia, nonostante moglie e figli, il percorso di transizione per rifarsi una vita e riparare le azioni efferate compiute da malvivente. Allo scopo, sulle note di una colorita colonna sonora, il trans e il suo avvocato fondano una ong…
Energia e innovazioni registiche a parte, il musical trans ha tinte arcobaleno più marcate del nostro Vermiglio. Perciò, considerati i protocolli dei saggi di Hollywood, se è possibile che il lavoro di Delpero superi un’altra selezione, sulla vittoria finale non è il caso di farsi eccessive illusioni. Io capitano insegna.

 

La Verità, 22 dicembre 2024

«I diritti Lgbtq funzionano nel mondo convenzionale»

S’intitola Ancora spero l’autobiografia che Marina Cicogna ha appena pubblicato da Marsilio. È il racconto della vita, che sembra romanzesca, della contessa del cinema italiano, figlia di  Cesare Cicogna Mozzoni (dinastia lombarda dal quattordicesimo secolo) e di Annamaria Volpi di Misurata (altro casato nobile) e nipote di Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, padrone della Compagnia italiana grandi alberghi (Ciga) e fondatore della Mostra del cinema di Venezia a cui sono tuttora intitolati i premi agli attori. È un’autobiografia (scritta con Sara D’Ascenzo) di case, dimore, vacanze, piscine, ricevimenti, party senza partiti, sciate al mattino presto, trasvolate oceaniche e trasgressioni senza pose, amori omosessuali. Di grandi armatori come Aristotele Onassis, di importanti produttori come David O. Selznick (Via col vento, i film di Alfred Hitchcock), di imprenditori visionari come Gianni Agnelli.

Marina Cicogna è una donna da primato, la prima a vincere l’Oscar per il miglior film straniero e la prima ad amare pubblicamente un’altra donna?

«Per quanto riguarda l’Oscar, sì. Il secondo primato non è mio, molte altre donne pubbliche mi hanno preceduto in questo tipo di relazione, soprattutto fuori dall’Italia».

Che cos’è per lei la libertà?

«Non andare controcorrente, perché vorrebbe dire lottare scientemente contro qualcosa o qualcuno. È seguire con una certa tranquillità i propri pensieri e le proprie convinzioni, senza guardarsi troppo in giro. La libertà te la fai tu, è dentro di te…».

Come si sta preparando a ricevere il David di Donatello alla carriera?

«Non faccio molti preparativi, cercherò dei vestiti che mi possano stare bene. Indosserò un abito di Valentino, come faccio nelle occasioni pubbliche. Per la sera è lo stilista più raffinato».

Se avendo lavorato solo dieci anni nel cinema le danno il David alla carriera vuol dire che ha seminato bene.

«Gli anni Sessanta e Settanta sono stati un periodo molto felice per il nostro cinema e non certo per merito mio. C’erano tanti talenti con i quali lavorare era gratificante. Se avessi continuato oltre quei dieci anni, considerati i cambiamenti, sarebbe stato diverso. Forse per la forza della televisione e per l’importanza delle nuove piattaforme il cinema ha perso un po’ di fascino».

Suo nonno fondò la Mostra di Venezia, suo padre vinse l’Oscar con Ladri di biciclette, ma la vera amante del cinema fu lei: perché sua madre affidò a suo fratello la direzione della Euro International?

«Mio nonno fondò la Mostra perché voleva attrarre più turisti all’Hotel Excelsior e al Des Bains del Lido. Mio padre produsse Ladri di biciclette perché cedette al fascino di Vittorio De Sica. Quando la acquistarono mia madre e mia zia, la Euro era solo una società di distribuzione, avrebbero ugualmente potuto comprare un’azienda che produceva yogurt. L’unica vera appassionata di quest’arte ero io».

E come mai non le affidarono le redini dell’azienda?

«Io volevo fare dei film, non occuparmi dei conti e mia madre pensò a mio fratello Bino. Mi opposi perché non lo ritenevo adatto. Il cinema era un mondo pericoloso per un ragazzo così giovane. Infatti, dopo un po’ tutto esplose e io me ne andai».

Non prima di conquistare l’Oscar nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Perché era convinta di non vincerlo tanto che nessuno del cast presenziò alla cerimonia?

«Al Festival di Cannes avevamo preso solo il Gran premio speciale della giuria. Elio Petri e Gian Maria Volontè erano stati iscritti al Pci e non potevano ottenere il visto per l’America, Florinda Bolkan era sul set di qualche film e io avevo grossi dubbi che gli americani apprezzassero quel film con problematiche distanti dalla loro sensibilità. Fu un errore non incaricare qualcuno di ritirare la statuetta just in case. Infatti, non l’ho mai vista».

Un vostro legale, Carlo Majno, parlando di suo nonno, «un incrocio tra Giulio Andreotti e John Ford», disse che la sua famiglia era «distaccata dalla realtà in modo esagerato»: un’alterigia che ha contagiato anche lei?

«Majno descriveva l’incapacità di mia madre di affrontare la quotidianità. Non credo ci sia alterigia in me, mi pare che il libro racconti la vita di una donna con i piedi per terra».

Scrive che durante la guerra i suoi genitori «non erano gli unici aristocratici a opporsi al fascismo», eppure suo nonno fu ministro nel governo Mussolini…

«Prima, con Giovanni Giolitti era stato governatore della Libia. Poi fu ministro delle Finanze, ma nutriva una certa antipatia per Mussolini. Mi raccontarono che una volta scomparve a Roma per 48 ore e dissero che era stato preso dai fascisti, che lo restituirono dopo averlo drogato. Mio nonno non fu certo antifascista, mentre lo furono in modo deciso i miei genitori».

Conferma che Gianni Agnelli è stato l’uomo più affascinante che ha conosciuto?

«Confermo. Gli telefonavo spesso al mattino presto per consultarlo su quello che succedeva e lui aveva sempre un’idea precisa e mai banale».

Però una volta, più del suo fascino valse la lealtà verso l’amica Marella, sua moglie… Oppure l’attrazione per gli uomini era già scemata?

«Ci sono uomini che mi hanno sempre interessato molto. Se non fosse stato sposato, un passaggio con lui ci sarebbe stato di sicuro. In quel momento mi era parso inopportuno».

Con Alain Delon invece non si ritrasse e anticipò l’amica Ljuba Rosa Rizzoli che condivideva con lei la stanza in hotel, dove spuntò un bigliettino nel quale Delon invitava nella sua camera, ma senza specificare il destinatario.

«Infatti Ljuba ha sempre detto che l’invito era per lei, più affascinante e sexy di me. Ma io allora avevo una passione particolare per Delon. Quando lo vedo ancora oggi penso che all’epoca non ci fosse uomo altrettanto seducente».

Nemmeno il Leone d’oro del 1967 a Bella di giorno convinse sua madre a darle pieni poteri?

«Credo che nemmeno seppe quello che era accaduto. L’espressione di Majno sul distacco di mia madre nacque proprio in quell’occasione».

Sebbene scriva di non aver mai prodotto film «per ragioni vagamente politiche» perché Franco Zeffirelli le rimproverava di fare solo film di sinistra?

«Si riferiva a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, uscito due mesi dopo la strage di Piazza Fontana, e a La classe operaia va in Paradiso che vinse a Cannes nel 1972. Zeffirelli era l’unico regista di destra del cinema italiano ed era convinto che chi aveva una certa formazione doveva pensarla come lui».

Oggi il cinema è più libero di allora?

«Allora c’era la censura e dovevamo tagliare delle scene, oggi non c’è. I registi sono davvero liberi se sono anche produttori. Poi molti lavorano con i fondi pubblici».

Prevalgono un certo conformismo e certi clan?

«Esatto. Negli anni Trenta c’era più libertà, la moglie di Franklin Delano Roosevelt frequentava un’amica. Oggi vedo più conformismo: questo non si può dire, questo non si può fare».

Quanto il suicidio di suo fratello in Brasile l’ha cambiata?

«È stata una ferita non rimarginabile, che mi ha cambiato in profondità. Anche la scoperta della malattia mi ha cambiato, perché implica davvero un’altra vita. Fino al giorno prima andavo a sciare, oggi il mio maestro di sci mi ha mandato una foto di qualche anno fa. Con la malattia le giornate sono totalmente diverse».

Se Gianni Agnelli era il più affascinante, come definirebbe Vittorio De Sica?

«Anche De Sica lo era, da napoletano. Gianni era figlio di militari torinesi, Vittorio di una famiglia di attori del Sud. Per lui ogni situazione era motivo di divertimento, di commedia».

Cosa la colpiva di Pier Paolo Pasolini?

«M’intimidiva, unico fra i tanti grandi registi con cui ho lavorato. Era un uomo che non si capiva bene a cosa pensasse. Aveva un fascino silenzioso».

E di Andy Warhol?

«È stato alcune volte mio ospite, ma non mi sono mai fatta ritrarre da lui. Era educato e di ottime maniere, molto diverso dall’immagine dell’artista ribelle che se ne aveva».

Chi è il più grande attore con cui ha lavorato?

«Direi Gian Maria Volontè, mentre con Marcello Mastroianni non ho mai lavorato. Erano di due scuole opposte: Marcello era credibile in qualsiasi ruolo, Gian Maria aveva bisogno di un personaggio in cui affondare i denti».

A quale regista o produttore di oggi si sente affine?

«Forse ad Andrea Occhipinti e Domenico Procacci di Fandango».

Il suo con Florinda Bolkan è stato uno dei primi amori omosessuali senza finzioni: come guarda alle rivendicazioni della comunità arcobaleno?

«Mi sembra che facciano parte di un mondo molto convenzionale nel quale c’è bisogno di definire le situazioni per farle accettare. Non sono a favore di queste posizioni, credo che sia inutile cercare di spiegarsi, di spiegare ogni comportamento. Ognuno di noi vive attrazioni e abitudini diverse. Forse per i trans è più difficile, ma penso che ognuno dovrebbe seguire la propria natura».

Perché anche nella vita privata ha sempre tenuto lontane l’ideologia e la politica?

«Perché non c’entrano. Ognuno può essere libero con sé stesso e vivere in modo spontaneo, senza costruzioni».

Non la pensano così i militanti del Metoo.

«Da sempre i produttori importanti a Hollywood hanno avuto rapporti bizzarri con attrici e attori. Non è un comportamento inventato da Harvey Weinstein, che pure aveva il dono di essere uno tra gli uomini più antipatici del mondo».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«Anche gli amici sono ognuno diverso. Da ragazza c’era Franco Rossellini, poi mia grande amica è stata Jeanne Moreau e ancora Ljuba Rizzoli. Non conoscevo Sara D’Ascenzo che mi ha proposto il libro e così è diventata un’amica. Quando sei nel bisogno, gli amici sanno esserti vicino senza fartelo pesare. Sono anche quelli con i quali condividi le passioni».

Benedetta Gardona con cui convive è cattolica e devota…

«Lo era di più fino a quando una sua amica d’infanzia è morta di tumore, e questo le ha fatto un po’ perdere la fede».

Lei ne è mai stata sfiorata?

«Ho ricevuto un’educazione religiosa non formale. Pensi che quando avevo 15 anni mia madre si accorse che non avevo ancora fatto la prima comunione. Ora che non sono in salute alcune domande me le pongo, ma non sono riuscita a darmi delle risposte».

L’autobiografia s’intitola Ancora spero: in che cosa, signora?

«Non so… Spero che la vita rimanente sia abbastanza accettabile. Che il morire sia dolce e non comporti troppa sofferenza. Spero anche tante cose belle per gli altri. Ho scelto queste parole per il titolo perché sono nel motto di famiglia: mi sembra dicano che uno vuole vivere di speranza più che di certezza».

 

La Verità, 6 maggio 2023

Altro Oscar a Sorrentino? Magari anche no

Con tutto il rispetto, abbiamo già dato. Al cinema di Fellini, a Napule è di Pino Daniele, al calcio di Diego Armando Maradona. Con tutto il rispetto, Paolo Sorrentino ha già avuto: l’Oscar per il miglior film internazionale a La grande bellezza. Da allora abbiamo visto Youth, le serie sui papi, Loro in due parti. È stata la mano di Dio è un’opera più personale e intima, meno estetizzante e gigiona. Tra la «realtà scadente» di Fellini e la «creatività e la fantasia falsi miti» di Antonio Capuano, quale sia la scelta del regista partenopeo è chiaro dalla prima scena: una «giunonica» Luisa Ranieri sale sulla Rolls Royce di un distinto signore che si spaccia per San Gennaro. Stavolta però Sorrentino dosa i sogni perché c’è di mezzo la sua adolescenza, segnata dalla perdita dei genitori. Meglio sbizzarrirsi nel grottesco vesuviano, antipode immaginario di Gomorra. Se la realtà è scadente, meglio il cinema: così Fabietto diventa Fabio e vede pure ’o monaciello che porta bene.

È stata la mano di Dio rimarrà bello e riuscito anche senza Oscar. È entrato nella short list, può infilarsi nella cinquina. E, nonostante Scompartimento n. 6 e Il capo perfetto, può agguantare la statuetta, ribadendo il cliché dell’Italia «molto pittoresca» che piace non solo a Hollywood. Sorrentino sta nell’Olimpo, vicino a Roberto Mancini e Mario Draghi. Dissentire dal secondo Oscar è una sassata contro la vetrina. È non rassegnarsi all’ovvietà di Maradona miglior calciatore di sempre. Io gli ho sempre preferito Johan Cruijff. Portate pazienza.

 

Oggi, 30 dicembre 2021

Oggi mi ha chiesto di fare il controcanto a Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della Sera, a proposito della candidatura di È stata la mano di Dio come miglior film internazionale.

 

«La cancel culture è il nuovo oscurantismo»

La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto 65 anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare». Pierluigi «Pigi» Battista fa sua la riflessione di Jep Gambardella nella Grande bellezza di Paolo Sorrentino. Nato giornalisticamente a Epoca, poi alla Stampa di Paolo Mieli e Ezio Mauro, già vicedirettore del Corriere della Sera dopo esserlo stato di Panorama, due mesi fa, prepensionato dal quotidiano di Via Solferino, è atterrato all’Huffington post di Mattia Feltri con una rubrica intitolata «Uscita di sicurezza». È un collega, ci diamo del tu.

Cosa ti manca del Corriere della Sera?

«Senza essere sgradevole, niente. Non sono fuggito polemicamente».

Ma perché?

«Ho approfittato del prepensionamento per iniziare una nuova esperienza all’Huffington post».

Lasciare la carta stampata ti è pesato?

«No. Ero arrivato alla saturazione per il giornalismo politico».

Rigetto della politica o di come la raccontano i giornali?

«Rifiuto dell’overdose che ci infliggono tutti i quotidiani cartacei, non solo il Corriere. Trovo che 10 pagine di politica siano un numero esorbitante per chiunque. Sfido a trovare una persona sotto i trent’anni che le legga».

Provocano anche un senso d’impotenza?

«Quando ero ragazzo c’era il pastone che orientava il lettore, un’intervista e stop. Poi c’erano la terza pagina, le cronache, gli spettacoli. Oggi la politica è lottizzata: c’è la pagina dei 5 stelle, quella del Pd, quella dedicata alla Lega, a Forza Italia, con le interviste ai peones e ai portaborse dei peones. Il risultato è l’iperframmentazione e il senso d’impotenza».

La causa?

«La nascita di troppi governi bizzarri sotto l’egida della democrazia parlamentare. Per la quale il voto dei cittadini è una specie di delega che il partito spende come gli pare. Nella Prima repubblica si votava per la coalizione di governo o per l’opposizione. Nella Seconda c’erano l’Ulivo e il centrodestra. Dal 2011, quando Mario Monti ha sostituito Silvio Berlusconi, son dieci anni che i governi non corrispondono alla volontà degli elettori. I nostri giornali sono succubi di questa situazione».

Raccontano minuziosamente i tatticismi delle forze politiche che quasi mai sfociano in qualcosa di significativo per i cittadini?

«Tra un governo e l’altro i cambiamenti sono ridotti: meno tasse per il centrodestra, più Stato per la sinistra. Il vero cambiamento è che la politica economica non è più nella disponibilità degli Stati nazionali. Quando diciamo che la legge di bilancio è sottoposta all’esame dell’Europa di cosa parliamo se non di questo? Questa cessione di sovranità significa minor democrazia perché la Commissione europea si forma fuori dalla logica elettorale. Il Ppe ha preso più voti, ma non governa».

Occhio che l’accusa di sovranismo è in agguato.

«Lo so bene, ma non c’entra. C’entra il fatto che il nesso tra volontà popolare e decisioni politiche è sempre più debole. Da qui nasce il mio totale disinteresse».

Voti e per chi?

«Ho smesso di fumare e di votare».

Eppure sei cresciuto nell’epoca del «tutto è politica».

«Era qualcosa di totalizzante. Adesso per capire ciò che passa nella testa delle persone è meglio andare al cinema, quando si poteva, leggere…».

Anche in famiglia tutto passava dalla politica?

«L’ho raccontato in Mio padre era fascista: per contestare l’autorità e contrappormi a lui usavo il linguaggio della politica. Oggi, a spanne, non credo che il conflitto tra padri e figli passi per la politica. Perché oggi un ragazzo dovrebbe iscriversi a Forza Italia o al Pd?».

Al Pd perché lo farà votare già a 16 anni?

«Ma quando mai. Tutti sanno che, almeno in questa legislatura, il voto a 16 anni è pura chimera. Come lo ius soli. Quando il Pd alza queste bandiere si sa che sono solo parole».

A sinistra si pensa ancora che tutto sia politica?

«A sinistra si pensa che la politica determini l’antropologia. Esistono due categorie di italiani: quelli di sinistra, buoni, generosi, che non parcheggiano in seconda fila, pagano le tasse e leggono i libri, e quelli di destra, populisti, prepotenti, ignoranti, evasori e che non rispettano le regole».

I giornali perdono copie per troppa politica o perché lontani dalla vita reale?

«Per entrambi i motivi. Ma anche perché sta finendo l’era gutenbergiana a vantaggio di altri linguaggi, l’immagine, la vocalità. Ai quali corrispondono altrettanti social media, i podcast e gli audiolibri. Il nuovo social è Clubhouse fatto di stanze dove si commentano i fatti e tutto si autodistrugge. Puro effimero».

Preferisci l’ipercomunicazione di Conte o la non comunicazione di Draghi?

«Non era ipercomunicazione, ma ufficio propaganda che con la pandemia è diventato Istituto Luce Casalino. Detto questo penso che, con la comunità provata dalla paura, serva una comunicazione istituzionale che dia certezze».

Si sono resi conto di aver commesso un errore bloccando Astrazeneca?

«Dobbiamo capire perché lo hanno fatto. Compito delle istituzioni è rassicurare spiegando le ragioni delle decisioni. Invece, si è finito per alimentare la paura. Tanto più nel contesto di un’informazione apocalittica».

È ancora così?

«Dal primo gennaio c’è un crollo dei contagi nel personale sanitario perché i vaccini funzionano, ma nessuno lo scrive. Invece, un caso di trombosi ferma tutto. Hai voglia a chiamare il povero generale Figliuolo. Sui vaccini e sulle varianti si diffonde solo allarmismo. Vogliamo dire che la variante sudafricana in Sudafrica è stata sconfitta?».

O che in Australia e Nuova Zelanda si convive tranquillamente con il Covid come hanno dimostrato le immagini dell’America’s cup?

«Senza andare così lontano, perché non si dice che, seguendo i protocolli dell’azienda nazionale del farmaco, Boris Johnson sta completando la vaccinazione? Siccome c’è la Brexit non va bene. In Israele hanno fatto la cosa giusta, copiamoli. Ora ci svegliamo con l’idea di produrre il vaccino in casa, ma ci vorranno sei mesi».

Che fiducia si può avere?

«Si continua a ripetere che è tutto complesso. Non è vero: è tutto semplice. Abbiamo poche terapie intensive? Si fossero fatti i bandi in maggio in settembre le avremmo avute. L’alternativa non è un governo diverso, ma la trasparenza. Biden ha detto: vaccineremo 100 milioni di persone in 100 giorni. Bisogna dare un obiettivo. Il sistema del lockdown non regge, non si vedono più pattuglie che fanno rispettare le restrizioni. Personalmente, giro con due mascherine, ma mi chiedo con che faccia rampognamo i giovani per gli aperitivi quando sui vaccini abbiamo fatto tutti questi casini».

Che riscontri ha la tua rubrica?

«Eccellenti. Ma, al di là dei numeri, che sono diversi rispetto a quelli della stampa su carta, mi piace aver creato un appuntamento quotidiano. Online c’è meno fedeltà alla testata e più ai singoli autori. Quando un lettore mi chiede perché la domenica non esce la rubrica mi fa piacere».

Il politicamente corretto è il nuovo catechismo radical chic?

«Con la cancel culture c’è stato un salto di qualità. Il piagnisteo, molto molesto, non era arrivato ad abbattere le statue, a cancellare Shakespeare nelle università e Egon Schiele nei musei. Nel cinema western i buoni erano i cowboy, poi arrivò Soldato blu a mostrarci che i pellerossa erano un popolo. Quello era il politicamente corretto. La cancel culture vuole che i western siano eliminati dalle cineteche. Come pure Peter Pan e Dumbo, ci rendiamo conto? È fanatismo maoista che abbatte ciò che non si conforma. È un nuovo oscurantismo che, sbagliando, abbiamo preso per una bizzarria».

Invece ingabbia la creatività, l’arte, il cinema?

«E favorisce un nuovo conformismo perché intimidisce. Nessuno vuol passare per sessista o razzista. Nel libro di Guia Soncini L’era della suscettibilità c’è un capitolo intitolato “Pensa oggi”. Pensa cosa accadrebbe se Lucio Dalla scrivesse oggi 4 marzo 1943, se qualcuno facesse un apprezzamento sulla minigonna di Alba Parietti, se Vasco Rossi scrivesse Colpa d’Alfredo: “È andata a casa con il negro, la troia”. Non si tratta di elogiare la parola offensiva, è un diritto non essere insultati, ma deve valere per tutti».

Invece?

«L’indignazione si ferma quando viene colpito l’avversario. Si dà del nano a Renato Brunetta o dello psiconano a Berlusconi. Non registro crociate contro le frequenti offese a Giorgia Meloni».

Ingabbia anche il linguaggio?

«Parlare di normalità è proibito perché stabilisce il primato della norma sull’anomalo e offende chi non rientra nei canoni. Siamo nel regno della stupidità universale. A confronto, Robespierre aveva una sua grandezza. Come diceva Carlo Marx, la storia da tragedia si trasforma in farsa».

Il trionfo del correttismo è nelle candidature agli Oscar?

«Adottano il manuale Cencelli delle minoranze. Non ci si chiede più se un film è meritevole o no. Ci sono le donne, i neri, i gruppi sociali marginalizzati e allora è ok. Se ha per protagonista un maschio bianco eterosessuale di una famiglia tradizionale di Manhattan è tagliato fuori».

Zitti e buoni i Maneskin hanno cambiato il testo di Zitti e buoni per allinearsi alle regole dell’Eurovision.

«Sono sufficientemente anziano per ricordare che anche Dalla fu costretto a cambiare il testo per esibirsi a Sanremo. Era una forma di oscurantismo censorio premoderno e così lo chiamammo. Del resto si spaccia per rivoluzionario Achille Lauro, 40 anni dopo Renato Zero».

Il libro più bello degli ultimi anni?

«Quelli di Michel Houellebecq. Apprezzo anche il modo in cui scrive. Serotonina è fondamentale per capire la frattura tra la provincia e le élites urbane».

La serie?

«Ho scoperto da poco Le bureau, già alla quinta stagione. Una bellissima spy story con un’ugualmente bella storia d’amore».

Il tuo prossimo libro?

«Sarà un po’ come Mio padre era fascista, la storia romanzata di una famiglia italiana del Novecento».

Un maestro che ti manca?

«Lucio Colletti, un grande liberale. Le sue lezioni erano di una chiarezza e di un coraggio assoluti. Quando sento certe fregnacce, mi chiedo cosa ne direbbe lui. E poi mi manca Philip Roth, anche lui sferzato dal politicamente corretto».

 

La Verità, 20 marzo 2021

L’inganno di quella coppia in piena Guerra fredda

Attenzione, spoiler. Purtroppo inevitabile. La storia d’amore più osannata e celebrata di questo Natale è quella di una coppia di suicidi. Una storia romanticissima, per la quale la critica cinematografica ha esaurito il catalogo degli elogi. Una storia contrastata dal potere, condizionata dalla Guerra fredda, scenario del prendersi, lasciarsi e rincorrersi in giro per l’Europa dei due protagonisti, un pianista, compositore e direttore d’orchestra, e una cantante e ballerina che diverrà la sua musa, il suo magnete. L’allure intellettuale fa la sua parte, sposata con la grande eleganza formale. Ma Wiktor e Zula sono due amanti irrisolti. Due innamorati instabili, osteggiati, tragici. Che, per non continuare a ritrovarsi e perdersi, celebrano la loro unione prima di darsi la morte in contemporanea, vincolandosi nel nulla. Di sacro e tradizionale ci sono solo alcune nobili citazioni.

Ma l’inganno è in agguato e ci si casca alla grandissima. Da settimane siamo rincorsi dai promo. I giornali tambureggiano la seducente locandina. «Il miglior film europeo dell’anno». «A Natale regalati un capolavoro». Cosa c’è di più natalizio di una storia romantica? Altra garanzia, il regista è il polacco Pawel Pawlikowski, meritato premio Oscar nel 2015 con Ida per il miglior film straniero. Come quello, anche Cold War è una storia girata in un abbagliante bianco e nero e in 4:3, il formato prediletto dall’Academy Awards. In più, è ispirata alla travagliata vicenda dei genitori del regista, lei una ballerina cattolica, lui un medico ateo ed ebreo riluttante. «Le persone più interessanti che abbia mai incontrato nella mia vita, imbattibili per fascino», ha confidato lo stesso Pawlikowski, che ha assegnato ai due protagonisti i nomi di mamma e papà.

Polonia, fine anni Quaranta. Aiutato da una piccola troupe, Wiktor (Tomasz Kot) batte le campagne desolate con furgone e magnetofono alla ricerca di contadini e contadine che possano formare una compagnia folk da portare in tournée. Quando ai provini spunta Zula (Agata Kulesza), treccia bionda, passato oscuro e temperamento da vendere, la passione è fulminea. Vivremo sempre insieme, nulla potrà separarci, sparisce anche la compagna di sempre. Ma il sentimento non calcola la nomenklatura. Nel vostro repertorio dovreste inserire brani sulla pace nel mondo e sul riscatto dei lavoratori. Mentre il busto di Stalin fa da sipario delle esibizioni, ci sono le diplomazie amiche da omaggiare: se vi comporterete bene le prossime tournée vi porteranno a Mosca, Praga, Berlino. Non era questa l’idea di partenza, il nostro amore merita di meglio. A Berlino il muro non c’è ancora e gli innamorati possono fuggire verso la libertà. Ma qualcosa va storto e le strade di Wiktor e Zula divergono. Per ricongiungersi qualche anno più tardi nelle mansarde bohémienne di Parigi. Ora la musica non è più quella delle mazurke in costume davanti ai burocrati d’oltrecortina, ma il jazz dei night fumosi dove Wiktor è a suo agio e per Zula può schiudersi una carriera da star. Ancora una volta, però, l’intesa s’infrange e la separazione è inevitabile, anche se le prime note di rock’n’roll dovrebbero portare spensieratezza.

Singolarmente affascinanti, «come coppia erano un disastro», ha chiosato Pawlikowski parlando sempre dei suoi. Nel 1968 il vero Wiktor lascerà la Polonia per l’Austria e la Germania, dove ritrovò la compagna, prima di separarsi nuovamente da lei. Qualche anno dopo, abbandonata la danza per l’insegnamento, Zula si trasferirà in Inghilterra con il figlio Pawel che studierà a Oxford lettere e filosofia e inizierà a produrre i primi documentari, avviandosi ai successi di oggi. All’ultimo Festival di Cannes Cold War ha vinto la Palma d’oro per la miglior regia e ora la critica lo dà tra i favoriti per l’Oscar, in competizione con Roma del regista messicano Alfonso Cuarón, rifiutato sulla Croisette, premiato con il Leone d’oro a Venezia e habitué degli Awards. In pratica, Europa contro Netflix. Ma l’Europa in parte autobiografica del regista polacco è un’Europa nichilista e impotente, mentre la visione anch’essa autobiografica di Roma – dal nome del quartiere di Città del Messico nel quale Cuarón è cresciuto – contiene uno sguardo di speranza.

Sedotto da questa esaltazione generale – un La La Land dell’est europeo, un Giulietta e Romeo alla polacca, un film che coniuga la Nouvelle Vague e Andrej Tarkovskij – ero molto ben disposto. C’erano anche la storia travolgente, il jazz nella Parigi esistenziale, il potere opprimente e il bianco e nero. Tutto sommato, promesse mantenute. Quella clamorosamente disattesa è la grandezza della storia d’amore, lo struggimento per la passione impossibile. I veri Wiktor e Zula moriranno nel 1989, alla vigilia della caduta del muro di Berlino e della fine della Cold War. Qui si avvelenano a metà dei Sessanta dopo essersi promessi fedeltà eterna. Ma lungi dal commuovere, questa scelta nichilista, espressione dell’incapacità a trasformare un grande sentimento in un amore adulto e solido, finisce per irritare. La volubilità di Zula e la distanza dei caratteri non hanno meno responsabilità sull’amore incompiuto di quanta ne abbia il potere sordo e ottuso del blocco sovietico. C’è chi ha visto in Cold War l’opera che rompe l’oblio calato sulla violenza dei regimi dell’Est europeo (mentre le nefandezze del nazismo sono ampiamente narrate). Ma è un’altra sopravvalutazione che ci ha fatto dimenticare Good Bye Lenin (2003) e soprattutto Le vite degli altri (2006), sommerso di premi.

 

La Verità, 27 dicembre 2018

«Con The Place svelo la nostra anima nera»

Un regista romano, cinquantaduenne, fuori da giri e girotondi chic. Paolo Genovese ha nel curriculum una laurea in economia e commercio e una militanza di sinistra. Abbandonate entrambi. Nel 2016, dopo aver vinto tutti i premi italiani e qualcuno anche all’estero, il suo Perfetti sconosciuti chissà perché non è stato candidato all’Oscar. Questo per dire come gira il fumo nelle stanze del cinema che conta. Ora è appena uscito The Place (prodotto da Marco Belardi e Medusa), una commedia dal retrogusto amaro, con un cast notevole, una sceneggiatura solida e un protagonista enigmatico fino alla fine, interpretato da un grande Valerio Mastandrea. Forse uno psicologo. O la coscienza, il destino, un guru. O il diavolo, probabilmente, a cui si rivolgono i vari Alessandro Borghi, Rocco Papaleo, Giulia Lazzarini (e numerosi altri) per soddisfare il desiderio sinonimo di felicità: ritrovare la vista, trascorrere una notte con la pin up del calendario, veder guarire il marito dall’Alzheimer…

Qualcuno ha scritto di capolavoro, altri prevedono un nuovo successo.

«Non sono affatto sicuro che The Place sarà un successo. Dopo Perfetti sconosciuti ho scelto una storia diversa. A volte ci si adagia, si va sul sicuro, si fa il sequel. Io ho preferito rischiare per ripagare la fiducia del pubblico, reinvestendo il credito accumulato. I fratelli Taviani dicono che si può dare al pubblico non ciò che di sicuro gli piacerà, ma ciò che ancora non sa che potrebbe piacergli».

Facciamo un passo indietro. Lei è laureato in economia e commercio: poi cos’è successo?

«Non vengo da una famiglia cinematografica e il regista non è un lavoro in cui è scontato farcela. Come tanti ragazzi ho avuto bisogno di lavorare. Ho studiato per avere un piano B, ma mentre ero all’università scrivevo cortometraggi, avevo una piccola compagnia teatrale. Dopo il primo impiego in una multinazionale americana ho avuto la fortuna di entrare in McCann Erickson, una grande agenzia pubblicitaria dove ho fatto i primi spot. Girai un corto che ebbe successo e fu notato da Amedeo Pagani, Andrea Occhipinti e Gianluca Arcopinto che ci diedero l’opportunità di fare il primo film».

Ha lavorato a lungo con Luca Miniero: poi cos’è successo?

«Abbiamo cominciato per gioco e fatto tre film insieme. Quando il cinema è diventato una cosa seria abbiamo sentito l’esigenza di raccontare ognuno le proprie storie».

Era militante di estrema sinistra: poi cos’è successo?

«Essendo nato nel 1966 appartengo alla generazione che non ha fatto né il ’68 né il ’77. In università credevamo nella sinistra, seppure con un pizzico d’ironia. Piano piano l’ideologia di riferimento si è disgregata, non sapevamo più dove trovare la sinistra. Ci sentivamo come quando perdi le chiavi di casa. Poco alla volta ho smesso di interessarmi di politica e ho cominciato a impegnarmi nel volontariato, dove non c’era bisogno di colori e bandiere».

Anche nel suo cinema non c’è traccia di ideologie: «Le persone al centro della scena», ha detto in una intervista.

«Sentir dire “il mio cinema” mi fa sorridere. Faccio questo lavoro perché mi è sempre piaciuto raccontare storie. Anche da bambino tenevo diari, scrivevo… Allora non sapevo che quello del regista era un lavoro che poteva incarnare questa passione. Sì, le persone con i loro sentimenti sono al centro. Spero che i miei film facciano emozionare. Sono commedie in cui si ride e sorride, ma più importante è l’elemento drammatico».

Tre motivi per cui The Place dovrebbe funzionare.

«Ha un cast strepitoso. Tratta un tema devastante, una grande metafora: cosa sei disposto a fare per ottenere ciò che vuoi? È un’occasione per una riflessione che forse non vorremmo fare durante la pizza post cinema».

Il cast di The Place: «La nazionale degli attori», dice Genovese

Il cast di The Place: «La nazionale degli attori», dice Genovese

La sceneggiatura innanzitutto: come nascono le idee?

«Cerco sempre una chiave inedita. Dal tempo dei fratelli Lumière tutto è già stato raccontato. Perciò bisogna cambiare la lente d’ingrandimento per rendere la storia interessante agli occhi del pubblico. In Perfetti sconosciuti dai cellulari che hanno stravolto le nostre vite affiorano segreti, tradimenti, cose indicibili. Per The Place ho tratto ispirazione da una piccola serie americana a sfondo etico in cui un demiurgo può tutto».

Che cosa legge e che cosa guarda?

«Guardo tutto il cinema italiano perché mi piace e m’interessa. Per cercare nuovi attori, studiare nuove tecniche. Ai festival internazionali seguo le cinematografie minori, non solo i blockbuster americani. Poi seguo la serialità. Trovo che il livello di scrittura e la profondità dei dialoghi raggiunto dalle serie sia da scuola. La lettura, purtroppo, è finalizzata alla ricerca di storie per il cinema».

Come ha scoperto The Booth at the End che ha ispirato The Place?

«Una notte vagando nei meandri di Netflix ho trovato questa serie nata per il web fatta di episodi di 15 minuti».

E da lì?

«L’ho segnalata a Mastandrea, siamo amici. Dopo qualche giorno mi ha detto: io faccio lui».

E lei?

«Era perfetto. Il suo personaggio non ha storia e rimane avvolto nel mistero, serviva un attore che avesse capacità di recitare per sottrazione».

Anche qui come in Perfetti sconosciuti i protagonisti hanno un lato oscuro. L’uomo è diviso, ha due vite?

«In Perfetti sconosciuti mi chiedevo quanto poco conosciamo gli altri, in The Place quanto poco conosciamo noi stessi. Lì non volevano svelarsi, qui andare in profondità ci fa paura. Molti di noi non sono costretti a scoprire la propria anima nera e, come dice il personaggio di Giulia Lazzarini, chi non deve farlo è fortunato. Se mi trovassi in una di quelle situazioni l’asticella della mia moralità si abbasserebbe o si alzerebbe?».

Situazioni al bivio tra bene e male.

«Negli ultimi tempi, pensando all’evoluzione dei social, mi sono accorto che siamo diventati tutti molto giudicanti, pronti a puntare il dito per gli scandali politici, economici e di costume. Allora un film che ci costringesse a giudicare noi stessi mi sembrava interessante. Non esistono il male e il bene assoluti, ma percorsi che non sempre ci pongono degli aut aut. Dostoevskij diceva: ≤Non c’è niente di più facile che criticare il male, molto più difficile è comprenderlo≥. Nella nostra coscienza siamo soli e agiamo senza condizionamenti e senza considerare le conseguenze che le nostre scelte hanno sugli altri».

Perché il nostro cinema fatica a raccontare questo tempo?

«Penso che la difficoltà di questi ultimi anni sia la profonda trasformazione delle classi. Fino all’epoca dei miei genitori le classi erano differenziate da comportamenti definiti. Trent’anni fa, per dire, non c’era il divorzio. Il mutamento delle classi, l’avvento delle famiglie allargate, il ruolo assunto dalle donne, l’accettazione del diverso: tutti questi cambiamenti non sono ancora rifluiti nel cinema. In tanti film si coglie la forma e non la sostanza di questi mutamenti. Se il pubblico non si riconosce e non si immedesima significa che usiamo strumenti sbagliati per conoscere e raccontare l’animo umano».

È rimasto male quando Perfetti sconosciuti non è stato candidato come film italiano all’Oscar?

«Sì. È brutto che lo dica io, ma mi è spiaciuto molto. Pensavo che un film che aveva vinto tutti i premi italiani e il Tribeca festival avesse qualche possibilità sulla strada per l’Oscar. In fondo, prima della Grande bellezza di Paolo Sorrentino l’avevano vinto due commedie come Mediterraneo e La vita e bella. Invece è stato curiosamente ricandidato un documentario che già lo era nella sua categoria (Fuocoammare, ndr)».

Una scena di Perfetti sconosciuti. Genovese: «Ancora non mi spiego perché non fu candidato all'Oscar»

Genovese: «Ancora non mi spiego perché Perfetti sconosciuti non fu candidato all’Oscar»

Che spiegazione si è dato? Forse non appartiene alle consorterie giuste?

«Non lo so. Non ho trovato spiegazioni. Dopo che Paolo Virzì aveva spontaneamente ritirato dalla corsa La pazza gioia sembrava quasi scontata la candidatura del mio film. Per questo ci sono rimasto male. Il fatto che avrebbe avuto qualche chance è stato confermato dal successivo apprezzamento internazionale».

Il suo scopo è ridare alla commedia profondità d’autore?

«Il cinema che riconosciamo come migliore, quello di Dino Risi, Ettore Scola, Mario Monicelli, era fatto di commedie che si rivolgevano a tutti eppure avevano grande profondità. Quando sei in una sala di Mosca o di Detroit capisci se il tuo lavoro è autoreferenziale o interessa anche lì. Allora puoi girare un film tutto dentro una stanza. Immaturi, per esempio, non aveva questo respiro».

Lei sembra avere uno sguardo diverso da quello che domina il cinema intellettuale.

«Mi ritengo un intellettuale nel senso che lavoro con l’intelletto. Le mie storie appaiono diverse perché le scelgo, anche in modo viscerale, in base a ciò che mi diverte raccontare. Altri partono dall’impegno, dalla denuncia».

Sta già lavorando al prossimo film?

«Dovrebbe intitolarsi Il primo giorno della mia vita: parla dell’opportunità di ricominciare dopo che si è toccato il fondo. È una sceneggiatura originale, probabilmente sarà girato in America, in inglese».

A proposito di anima nera, ha scoperto la sua?

«Alla domanda su cosa sono disposto a fare per diventare regista ho risposto a 24 anni buttando nel cesso una laurea e un posto fisso in una multinazionale americana. Ma in questo non c’è nulla di moralmente dubbio. Quanto alla mia anima nera, l’ho scoperta, ma non è argomento di interviste. Posso dire che come limite mi sono sempre messo il rispetto degli altri. Cioè, vorrei che l’eventuale compromesso con me stesso non danneggiasse altre persone».

Se volesse vincere l’Oscar e io, come Mastandrea, le dicessi: si può fare, ma dopo dovrebbe cambiare mestiere, come risponderebbe?

«Risponderei di no. Non potrei pensare di vivere senza la possibilità di raccontare storie».

La Verità, 12 novembre 2017

 

Spotlight, le leggi del giornalismo e quelle del cinema

Probabilmente, come ha autorevolmente decretato l’Osservatore romano, Il caso Spotlight “non è un film anticattolico”. Ma neanche un film da Oscar. Privo d’invenzioni registiche e narrativamente poco originale, è un film ben scritto e ben recitato. Qualche critico l’ha definito addirittura “il migliore dell’anno”, e così la pensa la potente Academy di Los Angeles che l’ha insignito del massimo premio. Tuttavia, stando così le cose, più che l’estetica narrativa, elogiato e premiato pare il tema civile dell’opera su cui non può non essere universale il sentimento di condanna. Ma se questo è il meglio del cinema mondiale, bisogna dar ragione a chi sostiene che ormai, con le sue sperimentazioni e i suoi linguaggi, la serialità televisiva l’abbia ampiamente surclassato.

Il caso Spotlight è un film nella tradizione del reporter movie che descrive il giornalismo come “cane da guardia del potere”, alla maniera di Tutti gli uomini del presidente (Alan Pakula, 1976) e del cinema di Sidney Lumet, cui il regista Tom McCarthy ha detto d’ispirarsi. Solo che qui, anziché il Watergate, ci sono da svelare le centinaia di abusi sessuali su minori commessi dal clero, dagli anni ’70 in poi, nella diocesi di Boston. E soprattutto c’è da provare il “sistema” di omertà adottato dall’allora arcivescovo Bernard Law, il quale si limitava a spostare in un’altra parrocchia il sacerdote accusato.

Quello di McCarthy è un lavoro ancorato alla storia dell’inchiesta condotta tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 dai quattro giornalisti (interpretati da Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Matty Carroll) della redazione Spotlight (riflettore) del Boston Globe. Fu il nuovo direttore (impersonato da Liev Schreiber) a far riprendere le ricerche trascurate qualche anno prima, concedendo tempi lunghi alle verifiche di fonti e documenti, nella tradizione di quel giornalismo investigativo ormai scomparso ovunque, per sempre più stringenti ragioni di bilancio. Quell’inchiesta, che sfociò nelle dimissioni del cardinal Law, divenne giustamente il modello di altre investigazioni che negli anni hanno portato alla luce la metastasi della pedofilia diffusa in tanti altri oratori e scuole religiose, dall’Australia all’Irlanda, dal Canada alla Germania. Proprio la lunga lista di quelle situazioni che precede i titoli di coda, insieme con l’indicazione che l’ex cardinale Law è stato trasferito in Santa Maria Maggiore a Roma, congeda lo spettatore con un senso di profonda amarezza. In realtà, assimilato a una promozione, quel trasferimento segnò l’uscita di scena definitiva del porporato. Inoltre, non è questa la sola ambiguità del Caso Spotlight, un film non anticattolico ma lacunoso sì.

Mettendo al centro la redazione del Boston Globe, il regista si esenta dall’impegno di citare una parte non secondaria della storia. Nel giornalismo che il film stesso esalta, si chiama “dovere di completezza” o anche “diritto di replica”. Ma siccome il cinema ha altre regole, dei pronunciamenti e delle contromisure della gerarchia contro la pedofilia non v’è traccia. Dalle linee guida dei vescovi americani contro i crimini sessuali del 1992 alla “tolleranza zero” della Conferenza di Dallas del 2002; oppure dai pronunciamenti di Benedetto XVI ai più recenti provvedimenti di Bergoglio: sarebbe bastato citare anche questi prima dei titoli di coda. Nel film, invece, i giornalisti-investigatori incalzano con un eloquente “stai dalla parte giusta?” chi stenta a collaborare. O di qua o di là: e così, sebbene uno dei protagonisti proclami che “non è in gioco la fede ma la conoscenza”, si arriva alla scontata conclusione che una cosa esclude l’altra.