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«Bravo Mancini, ma non si vince tanto senza bomber»

Dài, fammi le domande». Con l’entusiasmo e la vitalità che lo accompagnano a 83 anni, José Altafini gioca all’attacco anche nelle interviste. «Sto guidando, ma possiamo provare. Aspetta che metto il bluetooth…».

Dove sta andando?

«A Bergamo, per un appuntamento di lavoro. Collaboro con un’azienda che produce campi in erba sintetica».

Alla sua età ha bisogno lavorare?

«Gandhi diceva che l’uomo deve lavorare fino all’ultimo respiro. E poi, quando sto fermo, mi annoio. Il mio ufficio è l’auto, guidare mi dà un senso di libertà come dice quella canzone di Fabio Concato, Guido piano. Appena sono in macchina mi sento un altro, mi allontano dai casini. È il mio modo di vivere, sono andato dieci volte da Torino a Malaga».

Viaggio bello lungo.

«Quasi duemila chilometri. Ho una zia che vive lì e faccio un po’ di vacanza, la Spagna mi piace. Da quando c’è la pandemia non ci sono più andato. Scusa, non è che stai scrivendo il mio coccodrillo?» (ride).

Macché coccodrillo. Come mai vive ad Alessandria?

«A Torino non stavo così bene. Alessandria è strategica per andare in Liguria, in Toscana, a Torino e Milano».

Un paio di settimane fa è andato in un paesino della provincia di Rovigo per ricevere la cittadinanza onoraria.

«Sì. A Giacciano con Baruchella, dov’è nato mio nonno paterno. È la seconda onorificenza che prendo, l’altra me l’hanno data a Caldonazzo, dov’è nata la nonna materna».

Perché vuole che le sue ceneri siano sparse nel Po?

«Tanti dicono che vogliono farle gettare in mare, ma io ho sempre vissuto vicino ai fiumi. E allora voglio che siano sparse nel Po, così arrivano in Polesine e al mare. E magari fino in Brasile».

Si sente più italiano o brasiliano?

«Mi sento un uomo del mondo. Sono nato là e sono un patriota, ma in Italia ho vissuto tante belle cose, ho conosciuto l’amore. L’Italia è gemella del Brasile, ha la stessa indole, l’allegria, la gente affettuosa».

Ad Alessandria è nato Gianni Rivera con il quale vinse la Coppa dei campioni del 1963. La doppietta contro il Benfica sono i gol più importanti della sua carriera?

«Sono importanti perché hanno portato la prima vittoria europea di una squadra italiana. Come per il Brasile che ha vinto cinque mondiali, ma quello del 1958 è il più importante. Ci fu una festa fantastica perché la Seleção aveva perso la finale del 1950 con l’Uruguay. Quando arriva il momento delle coppe mostrano spesso quei gol. Per fare il secondo ho rubato la palla a Rivera che l’aveva intercettata a centrocampo, ma io ero più avanti e sono corso verso la porta».

Era più veloce di Rivera?

«Lo disse anche Cesare Maldini. I difensori del Benfica non sono riusciti a prendermi, come i contadini che non riuscivano ad acciuffarmi dopo che avevo rubato le arance».

Ha giocato con Milan, Napoli e Juventus: dove si è trovato meglio?

«Ho sempre amato il calcio. Volevo giocare nella squadra della mia città, Piracicaba, che militava in serie A. Fare il calciatore e restare vicino agli amici. Invece Dio mi ha premiato ancora di più. Sono arrivato al Milan a vent’anni e ho vinto scudetto, Coppa dei campioni, classifica cannonieri. A Napoli non ho vinto niente, ma con Sivori mi divertivo. Allo stadio c’erano sempre 80.000 persone, in trasferta 10.000. A 34 anni sono andato alla Juventus perché volevo giocare di nuovo la Coppa dei campioni. Mi sono divertito in tutti tre i posti».

Come mai ha giocato anche nel Chiasso?

«L’ultimo anno alla Juventus avevo deciso di fermarmi e di giocare solo un mese nella squadra italiana di Toronto. Invece venne il presidente del Chiasso che mi propose un anno nella serie B svizzera. Misi delle condizioni: “Mi alleno con la Juventus e vengo da voi per la partita”. Accettarono e il Chiasso fu promosso. A chi ama il calcio non importa se gioca in serie A, B o C».

È stato compagno di grandi numeri 10: Pelè, Rivera, Sivori.

«Ho giocato con tutti i grandi, Garrincha, Didì, Liedholm, Zoff, Capello, Bettega. Quando arrivai al Milan di Maldini e Schiaffino dissi che ero venuto per imparare. A 38 anni partecipai alla partita Anderlecht contro Resto del mondo per l’addio al calcio di Paul Van Himst, il Pelè bianco. L’attacco del Resto del mondo era formato da Amancio, Eusebio, Altafini, Pelé e Cruijff».

Perché Pelè è il più grande?

«Rasentava la perfezione. Era veloce, giocava bene di testa, destro e sinistro erano uguali al 100%. Chi ha giocato con lui non può paragonarlo ad altri».

S’impose con la ginga, che cos’era esattamente?

«Era una tecnica della capoeira. Ma è un’invenzione di quel film che lui usasse la ginga. Una falsità insieme ad altre».

Tipo?

«Che sua madre lavorava a casa mia perché io ero di famiglia ricca. Non abitavo neanche nella sua città ed ero povero quanto lui. Ero suo amico, tra noi non c’era rivalità come insinua il film. Lo ammiravo allora come adesso».

Come mai suo zio le fece da procuratore?

«In Brasile c’erano già i procuratori, in Italia no. Mio zio fu uno dei primi e mi ha assistito per il contratto con il Milan».

Ha fatto qualche errore o lei è stato troppo poetico nella gestione dei soldi?

«Non è questione di essere troppo poetico. In un anno non guadagnavo quello che oggi si guadagna in un mese. I contratti erano lordi, con le tasse al 42%. Con quello che restava dovevo aiutare la mia ex moglie. L’altro sbaglio è stato il contratto in cruzeiro che si svalutò subito».

Tornasse indietro che cosa non farebbe?

«Molte cose. Ho fatto 309 gol, avrei potuti farne un centinaio in più. Sarei più consapevole e rispettoso delle società per le quali gioco. Ero un ragazzino e di qualcosa sono pentito, ma in quel momento ero felice».

Questo è molto brasiliano.

«Basta pensare a Ronaldinho e Adriano. Se fossi stato loro assistente avrei saputo consigliarli. Ti ricordi Edmundo o Animal quando giocava nella Fiorentina? Spariva per il Carnevale. Se dà i consigli giusti il procuratore può far guadagnare tanti soldi ai suoi giocatori».

Ora è una figura poco popolare.

«Ci sono mamme e mogli che prendono decine di milioni di commissioni sul contratto del figlio o del marito».

Poi c’è il caso di Gigio Donnarumma.

«A volte i procuratori provocano la rottura con la società per far vendere il giocatore e guadagnare».

Mino Raiola segue anche Zlatan Ibrahimovic, un grande campione che ha giocato in tutti i grandi club, ma a forza di cambiare non ha mai vinto la Champions.

«Per la bravura di certi procuratori si vedono cose strane. Cristiano Ronaldo alla Juventus è costato un patrimonio e non ha vinto la Champions. Dani Alves a 38 anni è tornato al Barcellona. Una volta presidenti come Andrea Rizzoli, Angelo e Massimo Moratti, Dino Viola e Paolo Mantovani rispondevano dell’andamento della società perché mettevano i loro soldi. Ogni acquisto era verificato. Oggi comandano i manager che se ne vanno con la società in deficit e prendono lo stesso la liquidazione».

La sua carriera di commentatore avrebbe potuto durare di più?

«Penso di sì, ma in Italia a volte si guarda più all’età che alla competenza. Raimondo Vianello prima e adesso Maurizio Costanzo dimostrano che conta di più la competenza. La Rai ha accantonato Bruno Pizzul che sarebbe ancora migliore di tanti giovani. Io ho lavorato in tutte le televisioni. Ho cominciato a Telealtomilanese con Luigi Colombo, poi sono andato a Telemontecarlo. Siamo stati i primi a fare la telecronaca a due voci».

Ha inventato il golaço.

«L’ho importato dal Sudamerica. Il telecronista deve fare spettacolo. Quando ero a Sky una volta Fedele Confalonieri mi chiese: “Josè, oggi che manuale di calcio usi?”. “Presidente, perché non mi chiama a Mediaset?”. Ma quando incontrai il direttore dello sport mi disse che non poteva prendere uno della mia età perché non avrebbe saputo come giustificarlo a Pier Silvio. Berlusconi ha aiutato tanta gente, non me. Ma non sono indispettito, la mia è una vita bellissima…».

Le telecronache di oggi le piacciono?

«Alcuni commentatori sono preparati, ma non hanno fantasia. Io dicevo che dove giocava Roberto Baggio nascono i fiori».

Come mai nel giro di tre mesi la Nazionale ha perso il filo del gioco?

«Mancini sta facendo un bel lavoro, però manca un po’ di esperienza. Ci siamo adagiati sugli allori, è tipico dei giovani. Anche a me è capitato, ma ho avuto la fortuna di incontrare campioni e uomini veri. Ricordo che giocavo nel Palmeiras e adoravo Zizinho, nazionale della Seleçao 1950. In una partita eravamo avversari, lui a 38 anni, io ragazzino. Prendo la palla a centrocampo e lui mi atterra, ma allunga la mano e mi aiuta a rialzarmi: “Scusa ragazzo, dovevo farlo”. La semplicità e la modestia non s’impara sui libri».

Quella semplicità c’è ancora?

«Non c’è più. Ultimamente ho rivisto Baggio e ci siamo abbracciati. Con Cristiano Ronaldo non sarebbe possibile. È ammiratissimo, ma distante. I campioni di oggi sono blindati, ci sono gli sponsor, gli agenti, gli uffici stampa. Noi quando uscivamo da Milanello passavamo in mezzo alla folla…».

In Italia ci sono troppi stranieri e si fatica a far crescere i nostri talenti?

«Anche in Europa. Quanti giocatori di colore ci sono? Senegalesi, congolesi, ivoriani… non tutti valgono il prezzo. Tanti stanno in panchina e non entrano mai, li prendono per far girare i soldi».

È per questo che attaccanti come Gigi Riva, Pierino Prati e Pippo Inzaghi stentano a emergere?

«Dobbiamo plasmare un centravanti che si faccia rispettare anche con il fisico, come Ibrahimovic. Balotelli potrebbe, ma non ha la testa».

Lei aveva potenza e astuzia, qual è la dote principale di un bomber?

«Il goleador ha l’istinto. Inzaghi non partecipava alla manovra, CR7 neanche, eppure… Pelè giocava con la squadra, quando aveva la palla sul destro teneva il difensore a sinistra e viceversa. Una volta ho detto a Riva: “Se avessimo giocato con questi palloni e questi campi, quanti gol avremmo fatto?”».

Chi è l’allenatore che le piace di più?

«Il migliore del mondo è Guardiola. In Italia Trapattoni, Capello e Lippi sono stati molto bravi».

Il suo pronostico per lo scudetto?

«Si decide a marzo. Ci sono tante variabili, i giocatori infortunati, gli allenatori che sbagliano. Per me l’Inter è più forte dell’anno scorso. Poi bisogna vedere se il Milan riesce a gestire i giovani e il Napoli tiene. La Juventus mi sembra troppo indietro. Ma tu devi dirmi una cosa…».

Prego.

«Questo non è coccodrillo, vero?».

 

La Verità, 20 novembre 2021

«Le partite? Preferisco seguirle alla radio»

Qualche sera fa un milione di telespettatori ha rivisto su La7 Italia Francia, finale mondiale del 2006, con la sua telecronaca. Era il giorno dell’inaugurazione di Russia 2018, esclusiva Mediaset. Quale occasione migliore per colmare un triplo sentimento orfano? Gli italiani senza Nazionale, La7 senza partite, i telespettatori senza la voce di Bruno Pizzul. Il quale, com’è noto, non è mai riuscito a commentare in diretta la vittoria italiana di un mondiale. L’ha fatto, in replica, per Germania 2006, quand’era già in pensione dalla Rai.

Da un anno Pizzul è tornato a Cormons, Gorizia: terra di confine, di buoni vini e di allenatori. Quando arrivo alla sua villetta con vista sul Collio, la troupe di Telecapodistria, storica emittente slovena, si sta congedando al termine dell’intervista. Come si fa tra colleghi ci diamo del tu.

Ti sei riascoltato su La7?

«No, non sapevo che avrebbero ritrasmesso Italia Francia. Non mi riascoltavo neanche quando lavoravo».

Da quanto sei tornato quassù?

«Da un anno. Avevo sempre in animo di tornare, anche se il cordone ombelicale non si era mai reciso. Una volta al mese ci venivamo anche prima».

Nonostante la provincia, hai sempre una vita movimentata…

«Ho tanti amici ai quali è difficile dire di no. L’altra mattina mia moglie borbottava: ≤Esiste la Provvidenza… perché sei nato uomo. Se fossi nato donna, con i sì che dici a tutti si potrebbe pensar male…≥».

La vita di provincia più tranquilla è un’idea da sfatare?

«È tranquilla, ma vivace. Ogni paese ha la sagra, il torneo di calcio, tante manifestazioni. Poi c’è il Collio».

Patria del vino.

«I vignaioli della mia generazione lavoravano le viti e poi aspettavano i triestini in gita. Adesso hanno capito che, oltre che farlo bene, il vino bisogna promuoverlo con le tecniche del marketing moderno. Il Collio si è riempito di tedeschi e inglesi come il Chianti in Toscana».

Viva la provincia, ma le trasferte continuano. Nell’ultima hai ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo sportivo.

«Un premio che mi ha lusingato. Quando mi hanno chiamato pensavo fosse come calciatore, perché da giovane ho giocato nell’Ischia».

Come accadde?

«Al Catania, serie B, mi ero infortunato a un ginocchio. Così mi mandarono in prestito a Ischia, dove c’era un’équipe specializzata per la riabilitazione. Anche senza infortunio non sarei diventato un campione».

Come mai un ragazzo di Cormons finisce al Catania?

«Mi vendette la Pro Gorizia. I calciatori friulani andavano di moda. Un anno in Serie A c’erano sei calciatori di San Lorenzo Isontino, neanche mille abitanti. Al Catania invece eravamo 6 o 7 friulani: in spogliatoio si parlava furlàn. Il cronista sportivo della Sicilia brontolava: “Va bene che ci hanno sempre invaso… turchi, arabi, normanni. Ma minchia! Ci mancavano i friulani…”.  Era Candido Cannavò».

Perché il Friuli è stato laboratorio di calciatori?

«Abbiamo sopportato le invasioni. Siamo figli di contadini, alti, robusti, abituati ai sacrifici, disponibili agli allenamenti».

E terra di allenatori? Nereo Rocco, Enzo Bearzot, Cesare Maldini, Fabio Capello, Dino Zoff…

«Gigi Delneri, Edy Reja… Rocco parlava di razza Piave. Anche se precisava: “Mi son de Francesco Giuseppe”. Nel dopoguerra c’era tanta povertà. È la fame che ti fa fare bene le cose. Il calcio è stato un riscatto. Oggi con la pancia piena e i telefonini in mano ci si impigrisce. I giocatori più forti sono meridionali».

Quanto è scomodo fare questo mestiere senza la patente?

«Abbastanza. Però, non sono un caso isolato. Non ce l’avevano Indro Montanelli, Maurizio Mosca, Adriano De Zan. È un fatto di pigrizia e di circostanze. A 18 anni, quando hai la fregola della macchina, ero a Catania e non ce la facevano usare. A Ischia non serviva. E nemmeno da militare. A un certo punto è diventato un vezzo. A Milano ero il più puntuale perché con la bicicletta non patisci il traffico».

Parlando di puntualità, alla prima telecronaca, Juventus Bologna, finale di Coppa Italia a Como, arrivasti un quarto d’ora in ritardo.

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