«Le partite? Preferisco seguirle alla radio»
Qualche sera fa un milione di telespettatori ha rivisto su La7 Italia Francia, finale mondiale del 2006, con la sua telecronaca. Era il giorno dell’inaugurazione di Russia 2018, esclusiva Mediaset. Quale occasione migliore per colmare un triplo sentimento orfano? Gli italiani senza Nazionale, La7 senza partite, i telespettatori senza la voce di Bruno Pizzul. Il quale, com’è noto, non è mai riuscito a commentare in diretta la vittoria italiana di un mondiale. L’ha fatto, in replica, per Germania 2006, quand’era già in pensione dalla Rai.
Da un anno Pizzul è tornato a Cormons, Gorizia: terra di confine, di buoni vini e di allenatori. Quando arrivo alla sua villetta con vista sul Collio, la troupe di Telecapodistria, storica emittente slovena, si sta congedando al termine dell’intervista. Come si fa tra colleghi ci diamo del tu.
Ti sei riascoltato su La7?
«No, non sapevo che avrebbero ritrasmesso Italia Francia. Non mi riascoltavo neanche quando lavoravo».
Da quanto sei tornato quassù?
«Da un anno. Avevo sempre in animo di tornare, anche se il cordone ombelicale non si era mai reciso. Una volta al mese ci venivamo anche prima».
Nonostante la provincia, hai sempre una vita movimentata…
«Ho tanti amici ai quali è difficile dire di no. L’altra mattina mia moglie borbottava: ≤Esiste la Provvidenza… perché sei nato uomo. Se fossi nato donna, con i sì che dici a tutti si potrebbe pensar male…≥».
La vita di provincia più tranquilla è un’idea da sfatare?
«È tranquilla, ma vivace. Ogni paese ha la sagra, il torneo di calcio, tante manifestazioni. Poi c’è il Collio».
Patria del vino.
«I vignaioli della mia generazione lavoravano le viti e poi aspettavano i triestini in gita. Adesso hanno capito che, oltre che farlo bene, il vino bisogna promuoverlo con le tecniche del marketing moderno. Il Collio si è riempito di tedeschi e inglesi come il Chianti in Toscana».
Viva la provincia, ma le trasferte continuano. Nell’ultima hai ricevuto il Premio Ischia per il giornalismo sportivo.
«Un premio che mi ha lusingato. Quando mi hanno chiamato pensavo fosse come calciatore, perché da giovane ho giocato nell’Ischia».
Come accadde?
«Al Catania, serie B, mi ero infortunato a un ginocchio. Così mi mandarono in prestito a Ischia, dove c’era un’équipe specializzata per la riabilitazione. Anche senza infortunio non sarei diventato un campione».
Come mai un ragazzo di Cormons finisce al Catania?
«Mi vendette la Pro Gorizia. I calciatori friulani andavano di moda. Un anno in Serie A c’erano sei calciatori di San Lorenzo Isontino, neanche mille abitanti. Al Catania invece eravamo 6 o 7 friulani: in spogliatoio si parlava furlàn. Il cronista sportivo della Sicilia brontolava: “Va bene che ci hanno sempre invaso… turchi, arabi, normanni. Ma minchia! Ci mancavano i friulani…”. Era Candido Cannavò».
Perché il Friuli è stato laboratorio di calciatori?
«Abbiamo sopportato le invasioni. Siamo figli di contadini, alti, robusti, abituati ai sacrifici, disponibili agli allenamenti».
E terra di allenatori? Nereo Rocco, Enzo Bearzot, Cesare Maldini, Fabio Capello, Dino Zoff…
«Gigi Delneri, Edy Reja… Rocco parlava di razza Piave. Anche se precisava: “Mi son de Francesco Giuseppe”. Nel dopoguerra c’era tanta povertà. È la fame che ti fa fare bene le cose. Il calcio è stato un riscatto. Oggi con la pancia piena e i telefonini in mano ci si impigrisce. I giocatori più forti sono meridionali».
Quanto è scomodo fare questo mestiere senza la patente?
«Abbastanza. Però, non sono un caso isolato. Non ce l’avevano Indro Montanelli, Maurizio Mosca, Adriano De Zan. È un fatto di pigrizia e di circostanze. A 18 anni, quando hai la fregola della macchina, ero a Catania e non ce la facevano usare. A Ischia non serviva. E nemmeno da militare. A un certo punto è diventato un vezzo. A Milano ero il più puntuale perché con la bicicletta non patisci il traffico».
Parlando di puntualità, alla prima telecronaca, Juventus Bologna, finale di Coppa Italia a Como, arrivasti un quarto d’ora in ritardo.
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