Tag Archivio per: Rampini

Quanti conduttori dei talk smentiti dai loro ospiti

Tira un’aria strana, da qualche tempo, nei salottini trendy della tv de noantri. Un’aria mista d’incertezza e insicurezza, una latenza di precarietà. La si avverte quando ci si sintonizza sui talk show, il genere nel quale l’operazione propaganda è più esplicita (Corrado Formigli due sere fa: «Lo dico subito, io alla manifestazione promossa dal mio amico Michele Serra ci vado» – e adesso siamo più tranquilli). È una sensazione che promana dalle conversazioni di Otto e mezzo e di DiMartedì, programmi di punta di La7. Ma anche da certi talk di Rete4 dove si osservano zelanti corse al riallineamento (tendenza Marina).

Che cos’è successo?

La prima scossa si è registrata nel giugno scorso quando, con lo spostamento a destra dell’asse europeo, i grandi timonieri dell’Ue hanno preso una tranvata alle urne. Indifferenti all’avvertimento, Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron e Olaf Scholz hanno fatto spallucce. E, con loro, si è messa a fischiettare anche gran parte degli anchorman di casa nostra. Cinque mesi dopo, con i riporti arancione di Donald Trump, è arrivato il terremoto vero e proprio.

Ora, mentre tutto cambia, per i rappresentanti del Teleconduttore unico, il kolossal resta invariato. Come se   Giovanni Floris, Lilli Gruber e David Parenzo fossero fermi al livello precedente del videogioco, dove i sessi non sono ancora tornati a essere due e il green deal è in auge. Chissà, forse bramano l’avvento di qualche Supereroe che pigi il tasto back e li svegli dal brutto sogno. Al momento non se ne hanno avvisaglie ed è netta la sensazione di assistere a due sport diversi, davanti a gente come Federico Rampini, Lucio Caracciolo, Michele Santoro o Massimo Cacciari.

Qualche sera fa, Floris faceva il portavoce della Von der Leyen: c’è l’emergenza, il pericolo, Putin ci attacca. E Santoro gli ha smontato il copione un pezzo alla volta: «Con questa emergenza stiamo facendo una delle cose che alla fine della Seconda guerra mondiale avevamo escluso: dare il via libera alla Germania per diventare di nuovo da sola una grande potenza militare, moltiplicando i pericoli». Floris voleva fargli dire che la Meloni si sta adeguando al modello trumpiano. «Nel mondo», ha spaziato invece l’ex conduttore di Annozero, «la politica conta sempre meno e conta sempre di più l’economia, la finanza. I grandi oligopoli che circondano Trump. In Cina, in Russia, in India, conta ancora la politica che controlla i cambiamenti. In Occidente, la ricchezza non la produce il lavoro ma i soldi». Questo sarebbe il ruolo dell’Europa? «L’Europa dovrebbe diventare un soggetto politico che influenzi l’andamento del mondo. Ma non può farlo mettendo regole sul cacao e sul parmigiano e altre stronzate. Soprattutto non può farlo partendo dall’esercito», ha chiuso Santoro.

Sebbene sembrino due partite diverse, la telesceneggiatura non cambia. Trump, nuovo dittatore globale, potrà mai favorire la pace in Ucraina con i suoi modi così brutali e quella tintura impresentabile? Vuoi mettere l’eleganza di Ursula e di Macron (sì, è vero, sono un po’ guerrafondai – ma che charme)? Ed Elon Musk, simbolo della tecnodestra? Uno che agita la motosega come quel diavolo di Javier Milei (sì, è vero, ha risollevato l’Argentina segando l’inflazione e facendo schizzare il Pil – ma sono bazzecole, e poi quei basettoni…).

Forse in quanto titolare di una striscia quotidiana, la primatista di sconfessioni in diretta è Dietlinde Gruber. Clamorose quelle del lapidario Lucio Caracciolo. Alla conduttrice che scalpitava contro Musk e il possibile accordo sulle telecomunicazioni, il direttore di Limes replicava: «La prospettiva che la Ue abbia un sistema in alternativa a Starlink entro il 2035 è un bluff. E le trattative con Elon Musk sono cominciate prima dell’arrivo di Meloni». Altra delusione un paio di giorni fa, firmata sempre Caracciolo, sull’amata Europa: «Per tutta la nostra storia noi europei ci siamo sparati tra noi. Negli ultimi 80 anni non l’abbiamo fatto anche per merito degli americani. Non vorrei che se gli americani se ne vanno ricominciassimo», l’ha gelata il direttore di Limes.

Smentita totale del Gruber pensiero anche quella siglata da Massimo Cacciari all’indomani del voto in Germania. Con Trump le destre si rafforzano anche in Europa, osserva Lilli. «Ma secondo voi le destre europee si continuano a rafforzare per colpa di Trump? E non perché c’è una certa politica sociale europea e non perché c’è una sinistra europea del cavolo? Se ci fosse stato Biden l’Afd non avrebbe preso il 20%?». Gruber: «Però diciamo che Elon Musk…». Cacciari: «Ma lasci stare Musk, ci sono tendenze di fondo. È il rappresentante di una nuova élite finanziaria… che ha vinto e adesso governa. Non è la barzelletta del saluto fascista». Gruber: «È l’uomo più ricco del mondo e appartiene all’amministrazione Trump che sta licenziando centinaia di dipendenti pubblici». Cacciari: «Questa è la politica di destra che piace anche ai governi di destra. Ma quando non vince, la destra continua a crescere e se la tieni fuori continua a farlo. Come siamo bravi che li teniamo fuori dal governo. Bravi: abbiamo impedito ai fascisti di andare al potere…». Balbettio generale.

Ogni volta che Federico Rampini si collega dagli States il copione dev’essere riscritto. Ne sa qualcosa Corrado Formigli, smentito quando gli ha chiesto se in America fosse in atto «un golpe mascherato». La magistratura sta fermando parecchi provvedimenti, il federalismo è un anticorpo istituzionale, la stampa fa il suo dovere e il New York Times dalla prima all’ultima pagina contesta l’amministrazione Trump. «Piuttosto», ha concluso il giornalista, raggelando anche Massimo D’Alema presente in studio, «stupisce che non ci siano manifestazioni e proteste di piazza come ci furono contro il Trump 1, perché l’opposizione non si è ancora ripresa, non ha capito le ragioni della disfatta e non ha fatto autocritica».

Il più spiazzato di tutti è David Parenzo. «Mentre attendevo il mio turno», ha premesso Rampini, «ho sentito dire che Trump c’entra anche con l’operazione Monte dei Paschi di Siena – Mediobanca. Tra un po’ se i treni arrivano in ritardo in Italia sarà colpa di Trump». Parenzo allargava le braccia. «Sull’immigrazione, certo, sta facendo sul serio. Incatenare i detenuti ripugna al nostro senso europeo dei diritti umani, ma in America è pratica comune per i criminali di qualunque nazionalità, anche se sono cittadini statunitensi. Quelle che troppi di voi chiamano deportazioni, e sono rimpatri con il consenso dei paesi di provenienza, a milioni sono già stati fatti dalle amministrazioni Biden e Obama di nascosto».

Dopo il confronto fra Trump e Zelensky, altro smacco per il povero Parenzo. «Se uno si guarda tutti i 45 minuti e non solo gli ultimi tre del faccia a faccia», ha scandito Rampini, «vede uno Zelensky molto aggressivo – anche perché aveva appena incontrato esponenti democratici – che ha fatto di tutto per costringere Trump a dire che Putin è il colpevole, l’aggressore, un criminale. Se si vuol avviare una trattativa queste espressioni non le devi usare».

Che strana aria tira nella rete dell’Aria che tira.

 

 

 La Verità, 15 marzo 2025

 

 

«Giovani ansiosi a causa del lavaggio del cervello»

Un osservatore autorevole della globalizzazione e delle sue storture: Federico Rampini le analizza dalla postazione privilegiata di New York, dove vive e lavora, dopo averlo fatto a Parigi, Bruxelles, San Francisco e Pechino. La stortura che in questo periodo lo motiva maggiormente è la denigrazione ad alta gradazione ideologica dell’Occidente, come spiega nell’ultimo libro: Grazie, Occidente! (Mondadori), appunto.

Che cosa ha sbloccato questo saggio?

«Vivo a New York nel cuore di una cultura conformista che processa l’Occidente come la civiltà più malvagia, e impone che ci si genufletta quotidianamente davanti al resto del mondo per le sofferenze che abbiamo inflitto. Nel corso di un viaggio in Tanzania, osservando le tribù dei Masai, ho visto da vicino questo paradosso: loro non hanno dubbi sui benefici che il nostro progresso gli porta. Ma c’è sempre qualche turista occidentale afflitto da snobismo imbecille, che storce il naso di fronte ai segni della modernità, rimpiange che i Masai non rimangano al loro stile di vita arcaico e romanticizza un passato segnato dalla fame e dalle malattie».

Un titolo con il punto esclamativo è una provocazione o la manifestazione del piacere di andare controcorrente?

«Siamo caduti in basso, se insegnare la storia vera diventa una provocazione. L’Occidente è stato protagonista di tre secoli meravigliosi in cui abbiamo accumulato una quantità sbalorditiva di scoperte, invenzioni – nella medicina, nelle tecniche di coltivazione, nell’industria – i cui benefici immensi sono stati diffusi all’umanità intera. Senza la nostra medicina che ha debellato la mortalità infantile ed ha allungato di decenni la longevità umana, senza la nostra agronomia che ha moltiplicato i raccolti, oggi non sarebbero vivi miliardi di cinesi, indiani, africani. Tutti i miracoli economici asiatici sono avvenuti copiando la nostra tecnologia, la nostra economia di mercato, e importando conquiste occidentali come l’istruzione di massa».

Perché l’Occidente «è l’imputato messo alla sbarra per avere soggiogato e impoverito le altre civiltà»?

«Da parte di alcune classi dirigenti, come la nomenclatura comunista cinese, c’è un calcolo geopolitico. Dopo avere copiato la modernità occidentale la Cina la usa contro di noi, aizza le classi dirigenti dei paesi emergenti in nome dell’anticolonialismo, oscurando il fatto che la stessa Repubblica Popolare è uno degli ultimi imperi coloniali, avendo soggiogato Tibet Xinjiang e Mongolia interiore. Ci sono oligarchie del Terzo mondo che accusano l’Occidente per nascondere le proprie ruberie e i propri fallimenti. Poi abbiamo l’antioccidentalismo di casa nostra, che ha una lunga storia e spesso si ricollega a tre grandi famiglie politiche ben rappresentate in Italia: comunismo, cattolicesimo, fascismo. Infine, c’è la variante più aggressiva, fabbricata dalle élite protestanti americane: i movimenti puritani di autoflagellazione, di espiazione collettiva delle proprie colpe, vere o presunte, sono una costante della storia americana dall’Ottocento».

Come spieghi che, sebbene vivano in una condizione di benessere, i nostri giovani siano «la generazione ansiosa»?

«Hanno subito un lavaggio del cervello. Quando gli si insegna la rivoluzione industriale è obbligatorio associarla con l’imperialismo coloniale, il razzismo, lo schiavismo, la distruzione del pianeta, l’inquinamento. Se si aggiungono le influenze di Hollywood, delle élite culturali, l’indottrinamento è a senso unico: la storia occidentale raccontata come un grande romanzo criminale. In questa versione si omette che le altre civiltà hanno praticato lo schiavismo quanto noi, che gli altri imperi sono stati oppressivi quanto i nostri; ma solo noi abbiamo inventato i vaccini e gli antibiotici. La Generazione Z dopo aver subito questo indottrinamento è segnata da punte di infelicità, ansia, depressione. Il mio libro è un antidepressivo».

Perché sembra che certi ambienti siano attraversati da un’isteria distruttiva?

«Pensano che denunciare la nostra cattiveria sia il segno di una moralità superiore. Le élite, in questo modo, perpetuano il proprio ruolo: ci sono caste intellettuali che devono la propria legittimazione a una missione sacerdotale, guidano le masse nei riti del pentimento collettivo. Magari sono atei e si credono modernissimi, in realtà ripetono delle liturgie medievali. Così come è oscurantista e antiscientifico un ambientalismo apocalittico che demonizza il progresso e annuncia la fine del mondo dietro l’angolo. Queste predicazioni fanatiche danno potere, culturale e politico, a chi le dirige».

C’è chi vede segnali di stanchezza della cultura woke: i campus universitari americani sono contendibili?

«Tanti giovani non sono né stupidi né passivi e fra loro è cominciata una ribellione, la battaglia per ricostruire un pluralismo e una libertà di espressione anche nei campus universitari. Non sarà facile, però, perché nel frattempo si è sedimentata una mastodontica burocrazia woke, pagata per disciplinare, censurare, imporre le quote etniche e sessuali…».

Perché la Rivoluzione industriale e l’avvento dell’energia fossile sono viste solo in una luce negativa?

«Perché tanti che si autodefiniscono ambientalisti urlando nelle piazze non hanno mai aperto un manuale di chimica o di fisica. Nel libro cito grandi scienziati, il mio prediletto è Vaclav Smil, uno studioso canadese che è un vero ambientalista, convinto che il cambiamento climatico sia reale e che noi dobbiamo adoperarci per contrastarlo, mitigarlo, e adattarci. Smil spiega l’intera storia della specie umana collegandola ai diversi tipi di consumo di energia, di alimenti, di materiali. In questo contesto la Rivoluzione industriale segna il passaggio verso forme di consumo energetico meno distruttive di quelle precedenti. Se ci scaldassimo ancora con il legname produrremmo molta più CO2 nell’atmosfera, rispetto a quella generata da carbone, gas, petrolio. Demonizzare il progresso è una mania degli ignoranti, l’energia solare, eolica, lo stesso nucleare che stanno riducendo le emissioni di CO2, sono tutte tecnologie occidentali. La lotta al cambiamento climatico procede grazie alle scoperte avvenute in Occidente».

Uno dei temi della tua riflessione riguarda la gestione dell’immigrazione. I Paesi europei e il Nordamerica devono accogliere i migranti senza regolamentarne i flussi per espiare le colpe del colonialismo?

«All’origine c’è un’idea semplice, accattivante e sbagliata: che noi siamo ricchi perché abbiamo reso poveri gli altri. Questo luogo comune calpesta decenni di studi sulle vere cause del sottosviluppo. Ignora la realtà che il colonialismo lo hanno praticato altri più a lungo di noi: in Medio Oriente i turchi ottomani. Ignora che Singapore fu colonia inglese e divenne indipendente nello stesso anno di molti Stati africani, ma oggi ha un reddito più alto di quello britannico. Diffondere tra i migranti l’idea che hanno diritto a nutrire rancore nei nostri confronti e a rivendicare risarcimenti perpetui è la ricetta sicura per impedire la loro integrazione. Questa cultura del vittimismo sta sfasciando perfino l’America, che aveva avuto una società multietnica funzionante».

Perché le comunità islamiche sono più ostili di quelle di altre etnie verso gli Stati che le accolgono?

«La decadenza delle civiltà islamiche fin dall’Ottocento ha generato una cultura dell’invidia e del risentimento verso l’Occidente. I più recenti fallimenti delle loro classi dirigenti, da Nasser a Khomeini e Khamenei, da Gheddafi a Saddam, hanno alimentato la ricerca di un capro espiatorio nell’Occidente. In particolare, dopo il 1979 si è scatenata una concorrenza perversa tra iraniani e sauditi, i cui petrodollari hanno finanziato moschee e madrasse fondamentaliste nel mondo intero, dove si predicava l’odio verso l’Occidente. Una novità positiva è che di recente l’Arabia saudita si è chiamata fuori da questo gioco».

A Kamala Harris conviene parlare d’immigrazione nell’ultimo mese di campagna elettorale?

«Kamala Harris ha operato un voltafaccia, oggi promette una politica di duro controllo alle frontiere».

Le misure adottate dagli ultimi governi britannici, dalla Danimarca, dalla Germania di Olaf Scholz e dai governi svedesi e olandesi, anch’essi progressisti, confermano un nuovo orientamento sull’immigrazione?

«Buona parte della sinistra occidentale si accorge di avere sbagliato sull’immigrazione e sta operando una revisione drastica».

Pensi che la sinistra italiana, dal Pd ad Avs, tardi a prendere coscienza di questo cambiamento?

«Seguo poco la politica italiana. Però non mi pare di aver colto delle svolte nette come quelle di Kamala Harris, Keir Starmer e Olaf Scholz».

L’Occidente ha fatto solo cose buone?

«Ha commesso crimini orrendi. Come tutte le altre civiltà. Ma noi li riconosciamo, gli altri no. Non si è mai sentito un leader arabo chiedere scusa per la tratta degli schiavi africani».

Quando abbiamo voluto esportare la democrazia in Afghanistan, in Iraq e in Libia non è andata benissimo.

«Era andata bene in Germania e in Giappone. La democrazia deve maturare nei popoli e nelle culture locali, è una faticosa conquista. Richiede anche una battaglia contro oligarchie oppressive».

Per una ripresa della diplomazia in Medio oriente e in Ucraina, è più auspicabile una vittoria di Donald Trump o di Kamala Harris?

«Volodymyr Zelensky si muove per un negoziato subito dopo l’elezione Usa, quello che cambierebbe è il suo potere contrattuale, un po’ inferiore con Donald Trump alla Casa Bianca. In Medio Oriente il sostegno americano a Israele rimarrà bipartisan».

Un altro limite della civiltà occidentale è aver cancellato le sue radici greche, romane e cristiane?

«Siamo il frutto di influenze molto diverse, la filosofia greca è compatibile con l’ateismo; Roma ci ha dato la prima Repubblica e un’idea dello Stato di diritto; il cristianesimo è un credo egualitario. La rivalità Stato-Chiesa e la pluralità di attori geopolitici continentali ci hanno preservato dai grandi imperi verticali. È un mix di ingredienti miracoloso che ha consentito la nascita della liberaldemocrazia qui e non altrove. La distruzione delle radici l’abbiamo cominciata presto. L’università di Stanford, nel cuore della Silicon Valley, eliminò il corso sulla storia della civiltà occidentale nel 1962».

Rispetto ad alcuni anni fa alcune tue posizioni sono cambiate: che cosa ha prodotto questa mutazione?

«Il grande economista John Maynard Keynes diceva: gli eventi cambiano, io cambio le mie opinioni, e voi?».

 

La Verità, 28 settembre 2024

Dopo lo scoiattolo, la volpe di Palazzo. E Pierfurby…

L’inizio delle elezioni per la presidenza della Repubblica un pregio sicuramente ce l’ha: si parla un po’ meno di Omicron, vaccini e green pass. E sebbene resista l’eccezione di Matteo Bassetti che discetta anche sul Quirinale, sfumano in secondo o terzo piano le sagome delle virostar. Un po’ di ossigeno, finalmente. Ha scritto Federico Rampini su Facebook, avendo viaggiato durante le vacanze di Natale «ho notato che il livello di ossessione monotematica dei media italiani… non ha eguali nel resto del mondo». L’infodemia ci avvolge e sovrasta. Aiutooo.

Detto del merito dell’avvento quirinalesco, bisogna ahinoi rilevarne anche il difetto. Riciccia l’ex democristiano nei panni di vecchia volpe del palazzo. Nella nebbia, nel mare delle schede bianche, nel surplace dei partiti, si bussa ai politici di lungo corso per avere lumi e trovare qualche indizio tattico o strategico su cosa accadrà nella partita del Colle. Accendi la tv a qualsiasi ora e su qualsiasi canale e ne trovi sempre uno. Il più presente è Clemente Mastella, anche se per la prima volta dopo alcuni lustri non è un grande elettore. Però accompagna la moglie, la senatrice Sandra Lonardo. Nella sua carriera, il sindaco di Benevento ne ha viste parecchie e quindi eccolo a Quarta Repubblica di Nicola Porro, ad Agorà, all’Aria che tira… Nella Prima repubblica i partiti contavano eccome, i governi tecnici non erano la norma come nel Terzo millennio e l’elezione del Capo dello Stato, Mastella dixit, era «un po’ carsica». Nelle discussioni da bar della politica l’ex dc dà profondità storica all’analisi e garantisce spessore alla chiacchiera. Anche Paolo Cirino Pomicino, altra eminenza grigia del fu scudocrociato si accomoda volentieri negli studi tv esibendo la nota ironia. In altri casi le vecchie volpi si va a stanarle nei loro studi privati. Così Vincenzo Scotti e persino Gerardo Bianco sono compulsati come oracoli. Anche se poi, alla fine, più di tanto non si sbilanciano: potrebbe andare così, ma potrebbe andare anche colà. Perché l’elezione del presidente rimane anche oggi «un po’ carsica» e di grandi geologi in giro non se vedono, tanto più se cominciano a interferire i mercati e le diplomazie internazionali. Il colpo vero lo farà chi riuscirà a scovare il sindaco di Nusco, il novantatreenne Ciriaco De Mita. Però, intanto, tra un ex dc e l’altro, pian piano si delinea all’orizzonte il profilo di Pier Ferdinando Casini. Dopo il tramonto dell’operazione scoiattolo sta a vedere che spunta la strategia della vecchia volpe. Casini non è Pier Furby? Aiutooo…

 

La Verità, 26 gennaio 2022

Lunga vita alle interviste dell’anima di Tv2000

Due volti uno di fronte all’altro, e basta. I due volti sono quelli di Monica Mondo, intervistatrice e conduttrice di Soul (tutti i sabati e le domeniche su Tv2000 alle 20,50, canale 28 del digitale e 157 della piattaforma Sky), e quello dell’intervistato. Una scrittrice, un regista, il ministro generale dei Frati minori, un giornalista, uno psichiatra… Soul è un «programma senza». Senza contorni, contesti, pose e concessioni alle mode. Soul è un «programma con». Con curiosità e capacità di ascolto, base di partenza per un dialogo vero che si svolge nel ping-pong di domanda e risposta. Le puntate, ora arrivate alla ragguardevole cifra di 500, sono incontri dell’anima, appunto. Essenziali come la scenografia, uno sfondo blu privo di orpelli. La formula ricorda il «Faccia a faccia» del Mixer di Giovanni Minoli, ma interpretata in modo più pacato e meno ansiogeno. Al centro c’è l’altro, il «tu» dell’altro. Per renderlo interessante, occorre saper fare le domande, anche quelle scomode. E saper rispettare chi si ha di fronte, pur provando a illuminarne le zone d’ombra.

Monica Mondo non insegue necessariamente i protagonisti della stretta attualità, ma persone che abbiano qualcosa da dire, in qualche caso da testimoniare. Se intervista Massimo Fusarelli, ministro generale dell’ordine dei Frati minori, e si parla del prossimo giubileo per l’ottavo centenario di San Francesco, coglie l’opportunità di precisare che «era cristiano, perché qualche volta sembra che vada bene per tutte le stagioni e per tutte le fedi». «E per tutte le mode… mentre era discepolo di Gesù Cristo», sottolinea Fra’ Fusarelli. «E anche le letture laiche, pensiamo all’ecologia e alla pace, colgono una parte di Francesco. A noi spetta ricordare che il codice per conoscerlo è il Vangelo», precisa il religioso. Se intervista il giornalista e scrittore Federico Rampini, autore di Fermare Pechino (Mondadori), la conduttrice riesce a fargli dire che il ceppo Han, il gruppo etnico largamente maggioritario in Cina, «è razzista». Che i tre figli cinesi che ha adottato con sua moglie ha dovuto lasciarli nel luogo in cui vivevano perché a Pechino sarebbero stati trattati «come animali». E, infine, che se volesse tornare in Cina difficilmente gli sarebbe concesso il visto.

Storie vere, si diceva. Venticinque minuti con l’aiuto di un quaderno nel quale è appuntata la scaletta delle domande, sempre rivista in diretta per cogliere uno spunto o una rivelazione, seguendo lo stimolo della curiosità. Altri spazi simili in televisione non vengono in mente, perciò lunga vita a Soul di Monica Mondo.

 

La Verità, 30 novembre 2021

«Nella storia ci sono le ricette contro le crisi»

Essendo stato corrispondente da alcune metropoli e megalopoli – Parigi, Bruxelles, San Francisco, Pechino e New York, dove ora vive – Federico Rampini può esercitare uno sguardo distaccato e globale sul presente. Se poi, a queste postazioni privilegiate, si aggiungono le buone letture sulle grandi catastrofi nel corso dei secoli, ecco che l’editorialista di Repubblica, spesso ospite di Stasera Italia di Barbara Palombelli, può consegnarci I cantieri della storia (Mondadori), istruttiva carrellata di come l’umanità abbia reagito a pandemie, crolli di imperi, guerre epocali, ripartendo, ricostruendo, rinascendo attraverso quelli che spesso sono stati chiamati «miracoli». «La buona notizia», dice Rampini, è che «siamo capaci di farlo».

Le rinascite dopo le crisi più tragiche sono opera innanzitutto di grandi leader o di grandi popoli?

«I leader fanno la storia quando riescono a mobilitare le energie dei loro popoli, a ispirare sforzi collettivi, a ricostruire l’autostima, la coesione, la solidarietà dei cittadini. Un altro tratto comune dei leader che racconto nel libro – Franklin Delano Roosevelt o Charles De Gaulle, George Marshall o Deng Xiaoping – è il pragmatismo. Copiare chi ha avuto risultati migliori, cambiare ricetta quando la propria non funziona».

Dopo la caduta dell’Impero romano, archetipo dei crolli delle superpotenze, i monaci riuscirono a mettere le basi del Rinascimento perché erano un soggetto con una vocazione speciale?

«Molti monaci venivano dal profondo Nord, erano di origini irlandesi, celtiche. Studiare il latino e il greco era stato così arduo che sentivano quel patrimonio culturale come una conquista preziosa. Conservarono Aristotele, la matematica e l’astronomia greca, senza le quali non avremmo avuto il Rinascimento».

Lei scrive: «Tutti vorrebbero un nuovo Roosevelt», a me è tornato in mente un vecchio motivetto popolare: «Si è rotta la macchinetta». È così?

«Una qualità dei Roosevelt è diventata introvabile: Theodore, Franklin, Eleanor appartenevano a una élite che pagava di persona per servire la nazione. I loro figli morivano in guerra, anziché imboscarsi da raccomandati».

In America, nel pieno della crisi del 1929 iniziò la costruzione dell’Empire state building. Le rinascite avvengono con le grandi opere pubbliche, vedi Autostrada del Sole. Quanto può ostacolare il fatto che uno dei partiti di governo teorizza la decrescita?

«La decrescita felice è un vecchio mito malthusiano, caro agli ambientalisti fin dalle origini. L’abbiamo sperimentata nel 2020, se l’economia si paralizza scende l’inquinamento, rallenta la crescita delle emissioni carboniche, e si rischia la depressione. L’unico paese ricco che ha trovato un suo equilibrio in una decrescita apparente è il Giappone. In realtà il suo reddito pro capite sale grazie al calo della popolazione. E vorremmo tutti avere le infrastrutture giapponesi».

Parlando di New Deal, il nostro governo, debitore della Rivoluzione francese, ha convocato gli Stati generali e annunciato, in inglese, il Green New Deal. Ma con le formule non si risolvono i problemi perché, alla prima pioggia, i ponti continuano a cadere in italiano.

«Da italiano espatriato vent’anni fa negli Stati Uniti, quello che mi colpisce nell’approccio del governo Conte alla ricostruzione è la prevalenza dei burocrati. Il Green New Deal potrebbe ammodernare il paese e le sue infrastrutture con un’attenzione alla sostenibilità. Ma se viene affidato alla pubblica amministrazione così com’è, la burocrazia saprà sabotarlo».

La più incompleta tra le ricostruzioni che analizza è quella in tema di razzismo dopo la guerra civile americana?

«Abraham Lincoln voleva ricostruire il Sud dopo averlo sconfitto. Capiva che i perdenti andavano trattati con magnanimità per non alimentare vittimismi, rancori, revanscismi. Dopo il suo assassinio la ricostruzione del Sud ebbe un’impronta diversa: da quel cantiere mezzo fallito derivano i problemi irrisolti oggi».

Proprio questo 2020, con la morte violenta di George Floyd, il movimento Black Lives Matter e il successivo abbattimento delle statue di Lincoln e Theodore Roosevelt, campioni dell’antischiavismo, ci fa capire che rimane molta strada prima di comprendere la storia?

«La storia è maestra di vita se non la manipoliamo per le battaglie politiche di oggi. La piaga del razzismo è reale in America. Ma Black Lives Matter ha voluto riscrivere tutta la storia americana come un unico romanzo criminale. È assurdo, e ha portato voti a Trump».

I cantieri del futuro possono essere costruiti sotto l’impulso di rigurgiti ideologici come quelli che hanno portato alle epurazioni in alcune testate liberal americane di chi non pensa in modo conforme?

«Nel mio libro paragono le purghe operate dalla sinistra radicale dei campus universitari ad altri fanatismi di massa: la rivoluzione culturale di Mao, i talebani. C’è anche un’eredità del puritanesimo protestante, che ha conosciuto dei “risvegli” integralisti a ondate ricorrenti. Quando si censura il dissenso, come avviene nell’industria culturale progressista in America, non si costruisce nulla di nuovo».

Dal suo osservatorio privilegiato conferma che l’Italia è un modello virtuoso di risposta al coronavirus mentre l’America di Trump, incentrata sulla sanità privata, è un esempio nefasto?

«No. L’Italia come modello virtuoso è stata una leggenda creata quest’estate da un paio di articoli del New York Times. Io, al contrario, mi sono stupito che tanti italiani ci abbiano creduto. I numeri dei contagi e dei decessi smentivano quel mito, ancor prima che giungesse la seconda ondata. Gli unici modelli sono in Estremo Oriente: Giappone, Corea del Sud, Taiwan. Quasi nessuno li studia».

Spesso si confronta il Recovery fund con il Piano Marshall che aiutò la ripresa degli sconfitti della Seconda guerra mondiale. Anche il ritardo e l’approssimazione dell’Italia nella capacità di spesa è paragonabile a quella di 70 anni fa?

«Quel Piano Marshall finanziamenti a fondo perduto, mentre quelli del Recovery fund sono prestiti, tuttavia le dimensioni teoriche di quest’ultimo sono molto superiori. Potrebbe dare un contributo alla rinascita italiana, ma i problemi sono gli stessi di 70 anni fa. Nel 1948-50 gli americani lamentavano ritardi dell’Italia nel presentare progetti validi perché temevano corruzione e assistenzialismo».

Considerato che in questi mesi il risparmio privato italiano è salito a 1.680 miliardi perché è indispensabile il ricorso al Mes e al Recovery fund? Non si può agire attraverso l’emissione di titoli di Stato?

«Il problema non cambia. Se non abbiamo progetti convincenti, capacità di spesa, e uno Stato efficiente nel realizzare i progetti, i risparmiatori italiani saranno ancora più diffidenti di Bruxelles».

Le rinascite sono anche frutto del lavoro delle élite come mostra la storia di Amedeo Giannini, italiano fondatore della Bank of Italy poi divenuta Bank of America, fondamentale durante la Grande depressione. Le élite di oggi sono all’altezza del compito che la pandemia impone?

«Le élite economiche in questa crisi si arricchiscono e distanziano gli altri: penso agli azionisti di Amazon, Apple, Microsoft, ai giganti della finanza di Wall Street. Molte élite hanno perso i contatti con un mondo del lavoro che soffre. L’Italia ha un problema specifico: l’élite pubblica, l’alta dirigenza dello Stato, è tra le più scadenti d’Occidente».

Perché la sinistra mondiale che per decenni ha contestato le ambizioni di superpotenza dell’America ora ne critica l’autoriduzione nei propri confini accusandola di isolazionismo?

«C’è sempre stata una vena antiamericana, per cui lo Zio Sam sbaglia a priori: quando s’impiccia degli affari degli altri, o quando si fa i propri».

Crede che Joe Biden riporterà gli Stati uniti a un diverso interventismo internazionale, magari puntando sull’industria bellica?

«Con Biden ha vinto l’establishment, comprese le correnti più tradizionali delle forze armate e della diplomazia americana, affezionate a un ruolo globale. Però Biden deve pensare a uscire dalla pandemia e ad aiutare i disoccupati; la politica estera non sarà la sua priorità. Nel 2021 l’America affronterà un mondo nuovo, con una Cina più forte. Se qualche tensione può creare le premesse di una nuova guerra, la situerei nel Mare della Cina meridionale, nei dintorni di Taiwan».

 

Panorama, 16 dicembre 2020

«America divisa, Biden dovrà trattare su tutto»

Buongiorno Federico Rampini, innanzitutto come sta, visto che ha contratto il coronavirus?

«Sono ufficialmente guarito nell’Election Day, martedì 3 novembre ho avuto il primo tampone negativo dopo tre settimane. Avevo avuto sintomi lievi, e mi sentivo già guarito».

Una volta scoperto il contagio, avrebbe preferito farsi curare in Italia o la sanità americana si è comportata bene?

«Non posso fare paragoni perché non uso la sanità italiana da vent’anni. Su quella americana ho collezionato impressioni negative, è costosa e talvolta anche inefficiente. Da qui a descriverla come un inferno – uno stereotipo tra gli italiani – ce ne corre. Non si spiegherebbe perché tanti nostri connazionali vengono a curarsi qui in ospedali di eccellenza dove lavorano anche bravissimi dottori italiani, cervelli in fuga. In particolare la lezione del coronavirus è stata appresa, la reazione sia federale sia dello Stato di New York ha dato miglioramenti evidenti. I tamponi sono facili da fare, con poche attese, risultati veloci, gratuiti per tutti».

Federico Rampini vive negli Stati Uniti da vent’anni. Ha da poco pubblicato Oriente e Occidente. Massa e individuo (Einaudi). I suoi interventi a Stasera Italia su Rete 4 e soprattutto le sue corrispondenze per Repubblica sono state un osservatorio privilegiato per seguire le elezioni americane.

La probabile vittoria di Joe Biden possiamo definirla vittoria zoppa o vittoria di Pirro?

«Vittoria zoppa. Non c’è stata l’Onda blu che molti democratici si aspettavano. La presidente della Camera, la leader democratica Nancy Pelosi, era convinta di guadagnare seggi, invece pur conservando la maggioranza ha perso dei parlamentari. Molti parlavano addirittura di una conquista democratica del Texas: una favola. Ma soprattutto i democratici hanno fallito il sorpasso al Senato. Biden dovrà negoziare tutto con i senatori repubblicani, dalle manovre economiche alle nomine. Forse gli fa piacere perché gli consente di “sterilizzare” l’ala sinistra di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Però l’equilibrio politico che esce da questo voto, se tradotto nei criteri europei, assomiglia quasi a un governo di coalizione rossoblu».

La battaglia di Trump arriverà fino alla Corte Suprema a maggioranza repubblicana?

«È la sua speranza, soprattutto in Pennsylvania. Qui però c’è un paradosso. Grazie alle nomine da lui effettuate la Corte ha una soverchiante maggioranza repubblicana: sei contro tre. Però la cultura giuridica della destra in America è molto legata al federalismo, rispetta fino all’estremo l’autonomia e le prerogative dei singoli Stati. Le leggi elettorali sono di competenza locale, non esiste una regola federale su come si contano le schede o sul voto per posta. I giudici di destra dovrebbero fare violenza ai propri principi, andando a immischiarsi nel conteggio dei voti».

Come le proteste delle «due Americhe» di questi giorni potranno trovare una conciliazione?

«Non sono ottimista. Da un lato abbiamo avuto un meraviglioso spettacolo di partecipazione di massa: hanno votato 160 milioni, il 67% degli aventi diritto, un massimo storico da oltre cent’anni. D’altro lato questa grande mobilitazione non è all’insegna della rappacificazione. L’affluenza è salita sia tra i democratici sia tra i repubblicani perché ciascuna delle due Americhe è convinta di doversi difendere dalle prevaricazioni dell’altra. Questo rifiuto di dialogare, lo vedo crescere dal giorno in cui mi trasferii a vivere in questo Paese, ormai più di vent’anni fa. Abitavo in California quando ci fu l’elezione contestata in Florida nel 2000, Bush-Gore. L’ostilità tra le due Americhe era aspra già allora, non è legata al personaggio Trump. Lui ne è un risultato».

Come giudica la decisione delle reti televisive di tagliare in diretta la denuncia di Trump di brogli e la censura cui l’ha sottoposto Twitter?

«Sono decisioni senza precedenti, nel paese del Primo emendamento dove perfino l’apologia del nazismo è consentita. Però è senza precedenti anche un presidente che dichiara corrotto e illegittimo il sistema elettorale del suo Paese. Se Trump si ostina a descrivere gli Stati Uniti come il Venezuela, scatena reazioni di autodifesa che sono estreme ma comprensibili».

Che lezione si può trarre dal fatto che anche stavolta sondaggisti e media hanno clamorosamente sbagliato le previsioni?

«Non hanno imparato nulla dalla débâcle del 2016. Fino alla vigilia del voto assegnavano la Florida a Biden, per esempio. Tutti i numeri erano sbilanciati in favore di Biden, mai nell’altra direzione. Una vergogna. Il disastro del 2016 poteva essere spiegato dall’anomalia del fenomeno Trump. Perseverare quattro anni dopo nella sottovalutazione del suo consenso è imperdonabile».

Scambiano i loro desideri per fatti?

«Questa tornata elettorale ha smentito una rappresentazione dell’America che da quattro anni prevale sui media progressisti: Cnn, New York Times, Washington Post. Hanno raccontato una vasta reazione di rigetto verso Trump, che non c’è stata. Hanno annunciato svolte epocali a ripetizione, ciascuna delle quali doveva affondare questo presidente: lo scandalo del Russiagate, l’impeachment, il coronavirus, la recessione, le proteste contro il razzismo dopo l’uccisione di George Floyd. La geografia elettorale invece è stabile. Grosso modo i rapporti di forze dei due schieramenti sono rimasti al 2016, come se nulla fosse accaduto. Trump è sempre rimasto un presidente di minoranza, i suoi consensi oscillano attorno al 45% a livello nazionale, ma quel consenso è intatto. Gli spostamenti, dove ci sono stati, sono modesti. Il più significativo per assegnare la Casa Bianca a Biden, è la parziale riconquista di voti operai nell’Upper Midwest: Wisconsin e Michigan. È la “missione compiuta” del vecchio Joe, il salvatore dopo la sconfitta di Hillary Clinton. Però la maggioranza degli operai ha continuato a votare Trump».

Perdono di vista l’America profonda?

«La maggior parte degli intellettuali progressisti e dei giornalisti di sinistra non prova neppure a capire l’America profonda. Preferisce giudicarla, usando categorie morali: razzista, ignorante, fascista, bigotta. Ha perso ogni curiosità. Sia chiaro, anche dall’altra parte dominano stereotipi e pregiudizi. Fox News ha dei commentatori che descrivono New York e la California come Sodoma e Gomorra. Purtroppo questo fa bene al conto economico di tv e giornali, per cui nessuno ha interesse a cambiare atteggiamento».

Perché l’onda del Black Lives Matter non ha fatto crescere l’Onda blu di Biden?

«Trump è andato un po’ meglio del previsto anche tra gli afroamericani, a dispetto di tutta la retorica sulla “rivoluzione antirazzista” di Black Lives Matter. Certi afroamericani considerano positivo il bilancio economico dei primi tre anni di Trump, e non gli addebitano il disastro della recessione post-pandemia, anzi pensano che le sue ricette siano più adatte a tirare fuori l’economia da questa crisi. Le proteste antirazzismo in certe zone hanno danneggiato la sinistra. Se sei afroamericano e commerciante, o piccolo imprenditore, o proprietario di ristorante, e hai visto gli spacciatori e i capi gang del tuo quartiere mettersi le magliette di Black Lives Matter, impugnare le mazze da baseball, spaccare le vetrine per svuotare i negozi, giustamente voti per chi sta dalla parte della polizia. Lo slogan “togliamo fondi alla polizia”, pur sconfessato da Biden, è stato gridato nelle piazze per mesi, ha l’appoggio della sinistra radicale, ed è realtà nelle due maggiori metropoli americane grazie ai loro sindaci democratici: Bill de Blasio a New York, Eric Garcetti a Los Angeles».

Quanto Trump ha pagato la gestione superficiale e altalenante della pandemia?

«Di sicuro chi ha votato per Biden mette in testa alle priorità una risposta più efficace alla pandemia».

C’è la possibilità che dopo pochi mesi Biden si dimetta per far subentrare la sua vice Kamala Harris?

«Non ci credo. Questo rientra nei sogni di quella sinistra ultra politically correct che non accetta un presidente bianco, maschio, anglosassone e pure anziano. Fin dalla sua scelta di Kamala l’hanno voluta descrivere come la vera presidente. Biden non si farà da parte, finché la salute lo assiste. Quel che è molto probabile, è che non intenda ricandidarsi per un secondo mandato. Kamala aspetti il 2024».

L’identità progressista non sfonda perché è una «coalizione delle minoranze»?

«Trump ha avuto successo tra gli ispanici in Florida. L’idea che gli ex immigrati siano naturalmente di sinistra è un’illusione del partito democratico. Gli ex immigrati venuti da Cuba ma anche dal Messico o da Portorico, se hanno avuto qualche successo economico diffidano di una sinistra che istintivamente cura ogni problema a colpi di tasse e spesa pubblica. Se hanno ottenuto la cittadinanza americana nel rispetto delle leggi, diffidano di una sinistra radicale che vuole aprire le frontiere anche a chi entra violando le leggi».

Paul Auster che ha detto che per i suoi elettori «Trump è un culto religioso, lo seguono come i tedeschi seguivano Hitler».

«Ci sono dei filonazisti tra i seguaci di Trump. L’atteggiamento da culto religioso esiste, ma c’è il fenomeno speculare a sinistra. Certi ultrà di Black Lives Matter, o i pasdaran del politically correct che fanno le purghe dei moderati nelle redazioni dei giornali, sono eredi dei grandi risvegli protestanti puritani dell’Ottocento”.

Secondo lei, Biden, sensibile ai diritti civili, che politica adotterà nei confronti della Cina?

«Nessuno sconto alla Cina, ormai anche i democratici la giudicano un rivale minaccioso, da fermare. Però Biden investirà in una politica delle alleanze con Europa, Giappone, Corea del Sud».

Come spiega il fatto che in Cina oggi l’epidemia sembra sconfitta?

«Una scrittrice dissidente cinese ha appena pubblicato in inglese il suo Diario da Wuhan, la città dove abita. Descrive i metodi autoritari usati nel lockdown, però dà atto anche di una forte adesione volontaria della popolazione».

Quanta responsabilità ha il governo cinese nella mancanza di trasparenza con cui è stata gestita la pandemia?

«Enormi, gravissime, imperdonabili. Però siamo ormai nella seconda fase, dove il bilancio che conta è un altro: l’economia cinese è già ripartita, l’Occidente no».

 

La Verità, 7 novembre 2020