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Chissà cos’avrà pensato la Segre di Ghali chez Fazio

È il momento di Ghali. Dopo quello di Fedez, quello di Mahmood e quello di Achille Lauro (tendenza fluida). E, uscendo dall’intrattenimento, andando un po’ a ritroso, dopo quello di Soumahoro (diritto all’eleganza). Adesso tocca la sinistra riparta da Ghali (tendenza antisemita). Intanto, da lui è ripartita la televisione. La coda lunga festivaliera è un mash-up pacifista, con arrangiamenti filopalestinesi e vibrazioni immigrazioniste.

Festival di Sanremo, Domenica In, Che tempo che fa sul Nove è il triplete mainstream messo a segno dal rapper di origine tunisina che vive nel quartiere Baggio a Milano. Nessuno come lui, quest’anno. Giunto quarto all’Ariston, nella sua Casa mia prometteva: «Di alzare un polverone non mi va». Invece, abbiamo visto cosa succede quando si usano slogan a vanvera come lo «Stop al genocidio» pronunciato da Rich Ciolino, il pupazzone alieno che lo accompagnava nelle sue esibizioni. Interventi dell’ambasciatore israeliano in Italia. Scontri con feriti davanti alle sedi Rai. Minacce all’amministratore delegato Roberto Sergio, messo sotto protezione dal ministero dell’Interno.

Conseguenze della scarsa padronanza del significato delle parole.

Ovviamente, Fabio Fazio non poteva farsi sfuggire l’occasione di vampirizzare la polemicona a scopi di audience. Chissà cosa ne avrà pensato Liliana Segre, sua frequente ospite nonché co-protagonista di serate tv in occasione della Giornata della Memoria. Comunque sia, domenica Ghali era seduto davanti all’acquario per dispensare pillole di pacifismo neanche Che tempo che fa fosse un concorso di Miss Italia qualsiasi. «Viviamo in un tempo strano in cui le cose più semplici diventano indicibili», ha premesso Fazio in veste di artificiere della querelle. «È strano ritrovarsi in un mondo così. Ci hanno insegnato per tutta la vita le cose in un modo e a un certo punto ci dicono che non si possono più dire. Io l’ho sempre fatto di spendermi per la pace», ha echeggiato il cantante, evitando accuratamente di pronunciare il termine «genocidio» che aveva innescato la bagarre. «Le parole sono importanti», ammoniva Nanni Moretti. Ma conduttore e cantante hanno dribblato la faccenda. La sera prima, da Massimo Gramellini su La7, Roberto Vecchioni aveva spiegato che genocidio è stata inventata solo nel 1944 e significa «soppressione di una stirpe». Se fosse stata inventata prima si sarebbe potuta applicare allo sterminio degli indiani d’America o a quello degli aborigeni australiani. Mentre, dimenticandosi regolarmente della strage degli Armeni, è stata usata soprattutto per gli ebrei, massacrati nel corso dei secoli. Da Fazio, Liliana Segre non c’era sebbene sarebbe stato interessante ascoltarla su quell’improvvido «Stop al genocidio». Ma tant’è. Conduttore e cantante hanno preferito intonare il nuovo rap da ceti medi riflessivi: «Stop a tutte le guerre, stop a tutte le ingiustizie, stop ai respingimenti, stop a chi dice aiutiamoli a casa loro. Stop, stop, stop».

Parole, parole, parole.

 

La Verità, 20 febbraio 2024

«Certe serie tv e certi rap influenzano i ragazzi»

Nicola Gratteri è il magistrato più esposto d’Italia. Dopo decenni in prima linea contro la ’ndrangheta a Locri, Reggio Calabria e Catanzaro, dal 20 ottobre è procuratore capo di Napoli. Ha accettato di rispondere alle domande della Verità sulla sua vita, il nuovo incarico e l’influenza dell’industria dell’audiovisivo sulle giovani generazioni.

Dottor Gratteri, quando e perché ha scelto di fare il magistrato?

«È una decisione che ho maturato nel tempo. Quando frequentavo le scuole medie, mi infastidivano gli atteggiamenti dei figli dei boss che facevano i prepotenti. Erano bulli con le spalle coperte, la loro arroganza mi indignava. Non sapevo che ci fossero magistrati, gli unici uomini che per me rappresentavano lo Stato erano i carabinieri, di cui nel mio paese c’era e c’è una caserma. L’idea di fare il magistrato mi è venuta dopo, quando ho capito l’importanza di quel ruolo e della possibilità di fare qualcosa in più per combattere un fenomeno che oggi è diventato dilagante».

Chi erano i suoi genitori?

«Due persone esemplari: oneste e coerenti. Mi hanno insegnato molte cose sull’essenzialità della vita, sulla correttezza. Mi hanno insegnato anche ad amare la terra, a coltivarla, facendomi capire che solo i sacrifici rendono liberi. Mio padre faceva il camionista, poi ha gestito un piccolo negozio di generi alimentari. Mia madre era casalinga ed esigente, rigorosa e amorevole, ma senza tradire troppo le emozioni».

Da ragazzo chi erano i suoi idoli?

«Amavo la musica, ma non penso di avere avuto qualche cantante come idolo. I miei idoli erano tutti all’interno della mia famiglia. Due zii sacerdoti, uno zio avvocato, i miei genitori. Mio zio Antonio, canonico, uomo di grande generosità e umanità. Lo zio Nino, avvocato civilista, comunista, uomo di grande etica, cultura e umanità. Mio zio Francesco, uno dei due sacerdoti, mi ha sempre affascinato per la sua sconfinata cultura. Negli anni Settanta, quando faceva il parroco a Gioiosa Ionica, nella Locride, denunciò apertamente i legami della ’ndrangheta con certa politica e certa imprenditoria, evidenziando l’importanza delle relazioni esterne che da sempre costituiscono l’ossatura del potere mafioso».

Vivere in caserma è una scelta obbligata?

«È una scelta obbligata, non sarebbe facile garantire le stesse condizioni di sicurezza in un contesto diverso da quello in cui attualmente vivo. Mi trovo bene. D’altronde vi passo solo poche ore, dormo poco».

Come descriverebbe 35 anni sotto scorta?

«Una missione vissuta con la consapevolezza di fare qualcosa di utile per la mia terra e per la società in cui viviamo. Un viaggio che continua grazie anche alla dedizione e al sacrificio di tanti agenti che mi proteggono dal 1989».

Quanto le pesa aver condizionato la vita dei suoi famigliari?

«Mia moglie è stata minacciata quando ancora eravamo fidanzati. Hanno sparato alcuni colpi di pistola contro la sua abitazione, dicendole, al telefono, che stava per sposare un uomo morto. Non si è tirata indietro. I figli invece hanno scelto strade diverse dalla mia e ci hanno dato molte soddisfazioni, senza mai lamentarsi. Sono due validissimi professionisti».

 Che accoglienza ha avuto a Napoli? È presto per un primo bilancio?

«Mi trovo benissimo. Ho trovato un ottimo ambiente di lavoro. All’inizio sono stato accolto con qualche scetticismo da alcuni settori della stessa magistratura e dell’avvocatura, ma oggi ritengo di aver instaurato con tutti un buon dialogo. Ho provveduto a riorganizzare l’ufficio, distribuendo gli incarichi e ho cominciato a studiare i vari fenomeni che interessano il territorio. È presto per fare un bilancio, ma sapendo di poter contare su colleghi professionalmente molto validi e su una polizia giudiziaria di altissimo livello, sono certo che faremo un buon lavoro. C’è tanto da fare».

Perché la ’ndrangheta è la più potente delle mafie?

«Le ragioni sono tante, ma ritengo che sia riuscita a crescere nel silenzio, essendo stata a lungo considerata una mafia stracciona, rispetto alle altre, ma soprattutto a Cosa nostra. È cresciuta di importanza per aver gestito enormi traffici di droga, quando lo Stato era particolarmente coinvolto nella lotta alla mafia siciliana dopo la fase stragista. Grazie alla sua struttura familistica, ha avuto poche defezioni e ha acquisito un prestigio internazionale, facendosi apprezzare da altre organizzazioni criminali per la sua solvibilità e per la sua forte coesione interna».

È più credibile perché è più sofisticata?

«Ha sempre avuto lo sguardo presbite, la capacità di guardare oltre il presente. Oggi è molto sofisticata, ci sono clan riconducibili a questa organizzazione che hanno capito l’importanza dell’innovazione tecnologica e informatica. Alcune inchieste hanno accertato la presenza di hacker in Calabria in grado di minare criptovalute, di investire enormi capitali su piattaforme clandestine di trading e usare tecnologia sofisticatissima per comunicare in modo sempre più sicuro, al riparo dalle intercettazioni che sono comunque necessarie ed essenziali in un mondo sempre più interconnesso».

Che cosa rappresenta l’impegno delle istituzioni a Caivano?

«Una testimonianza forte per cercare di cambiare le cose, di liberare i territori dalla paura e dal bisogno. Non bastano però le parole, sono necessari fatti concreti. Bisogna sostenere tutte quelle iniziative che cercano di raccontare in maniera diversa il territorio. Che resistono, che lottano quotidianamente per cambiare le cose, oltre a migliorare le condizioni socio-economiche e culturali di questo territorio».

Perché va nelle scuole a parlare ai giovani?

«I giovani hanno bisogno di testimonianze, di esempi coerenti. Da oltre trent’anni uso le mie ferie per andare a parlare con loro, ma anche con chi è meno giovane e non è insensibile alle tematiche di cui mi occupo».

Perché dice loro che fare il mafioso non conviene?

«Ad arricchirsi è solo l’élite delle mafie. Gli altri sono utili idioti, portatori di acqua al pozzo del capo. Vengono assunti con l’obbligo di non mettere mai in discussione gli ordini che ricevono. Non devono pensare, devono solo obbedire. Guadagnano meno di un bravo artigiano e rischiano di finire in carcere o al camposanto. Penso basti a far capire che quella del mafioso è una scelta di vita poco conveniente».

Che cosa pensa della cinematografia che narra la vita dei boss, da Al Capone a El Chapo?

«Spesso è una narrazione che sfocia nell’epica, facendo diventare eroi dei criminali che non sono mai stati dalla parte dei deboli contro i forti e dei poveri contro i ricchi, come amano far credere. Certe serie televisive esprimono una mitologia della camorra che si prende tutta la scena, senza un barlume di positività a farle da contraltare».

Serie come Gomorra e Suburra hanno creato una mitologia della violenza?

«Bisognerebbe andare oltre il conflitto tra il male e il peggio».

I giovani hanno assunto questi modelli?

«Certe narrazioni diventano modellizzanti, soprattutto quando gli audiovisivi sono l’unico mezzo di conoscenza dei fenomeni criminali, come quelli che incidono sui nostri territori. Le serie televisive finiscono per influenzare le conoscenze di chi non ha mai letto un libro o investito il proprio tempo per aiutare il prossimo».

Non dobbiamo fidarci della loro capacità di distinguere il bene dal male?

«Il male è seduttivo, molto più del bene. Bisognerebbe avere un concetto etico della scrittura. Non si può scrivere e far finta di non vedere. Vale per la scrittura in generale quello che Pippo Fava sosteneva del giornalismo. “Ritengo che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana” scriveva nell’ottobre del 1981, qualche anno prima di essere ucciso dalla mafia, “il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente in allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”».

Cosa pensa del fatto che nelle loro canzoni i rapper napoletani inneggino ai camorristi che ostentano Suv e orologi d’oro?

«È una narrazione molto discutibile, quando penso a Napoli mi vengono in mente Pino Daniele, i fratelli Bennato, James Senese, Enzo Avitabile. Molti sostengono che quella dei trapper sia una voce di protesta, ma quando assumono atteggiamenti misogini o si fanno riprendere con un kalashnikov in mano non mi sembrano molto credibili o educativi».

Che idea si è fatto del fenomeno Geolier che ha spopolato al Festival di Sanremo?

«Preferiscono non rispondere».

Che cosa può dire un magistrato che conosce la criminalità giovanile a chi ha compiti educativi nella società di oggi?

«L’istruzione taglia l’erba sotto i piedi dei mafiosi, e la cultura brucia il terreno su cui la malapianta cresce. Famiglia e scuola sono fondamentali nella formazione e nell’educazione dei giovani. È risaputo: la mafia teme più la scuola che la giustizia. La magistratura, le forze dell’ordine possono fare molto, ma se non contrastiamo le mafie anche sul piano culturale, i clan si rigenerano. Come ho più volte ripetuto, gli arresti sono importanti, ma non risolvono il problema. Ci sarà sempre chi andrà a coprire i vuoti. Cambieranno le facce, i nomi, ma non i numeri e la sostanza. L’etica non va insegnata, va praticata, testimoniata e trasmessa. Solo con la coerenza si può coltivare nei giovani il senso di una responsabilità capace di lottare per una società migliore. Ma poi bisogna anche risolvere i mali sociali, ridare speranza ai giovani che cercano un’occupazione, dare risposte a un territorio per lungo tempo abbandonato e lasciato nelle mani di chi non aveva alcun interesse a cambiarlo. Tutti devono assumersi la propria responsabilità».

Lei non divenne ministro della Giustizia del governo Renzi per il diniego del capo dello Stato Giorgio Napolitano. Poi è arrivata la riforma Cartabia e ora si attende quella di Carlo Nordio. Se fosse ministro quale sarebbe il suo primo provvedimento?

«Non sono ministro e ne sono felice perché faccio il magistrato, un lavoro che ancora oggi mi appassiona. Avevo detto sì a Renzi perché mi aveva promesso carta bianca e in testa allora avevo tante idee per migliorare il settore della giustizia, delle carceri. Ho già detto che uno dei primi provvedimenti da adottare è quello di abolire la riforma Cartabia e di convocare attorno a un tavolo tutte quelle persone che possono realmente contribuire a dare forma e sostanza a una riforma utile e necessaria. Non stiamo andando nella direzione auspicata».

È credente?

«Sono cresciuto in una casa con due sacerdoti. Mi hanno insegnato l’importanza dell’onestà, dell’altruismo e della generosità».

 

La Verità, 17 febbraio 2024