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Non siamo soggetti della vita, ma dello storytelling

Del resto, la serie s’intitola Black Mirror e il gioco di specchi tra realtà e realtà virtuale è talmente moltiplicato nelle sue rifrazioni che, alla fine, l’emicrania rischia di essere il fatto più reale di tutti. Rilasciata da Netflix il 15 giugno, la sesta stagione dello show più distopico del pianeta si compone di cinque episodi, ognuno a sé stante. Come già nelle precedenti, anche questa sequenza di storie rappresenta i peggiori incubi causati dall’invadenza della tecnologia e dall’inquietante potere della sorveglianza, spesso confermati e qualche volta persino superati dagli eventi, come abbiamo visto durante la pandemia. Stavolta l’acuto è in Joan è terribile, primo capitolo dell’antologia firmato da Charlie Brooker, che narra di una giovane dirigente d’azienda che divide la sua giornata tra il ménage con il compagno, le responsabilità professionali poco gratificanti e i colloqui con la psicanalista alla quale confida di essere alla ricerca di «una storia di vita» di cui sentirsi protagonista. Forse accettare l’invito dell’ex che si è improvvisamente rifatto vivo è il modo giusto per diventarlo…

Purtroppo, appena rientrata a casa, sintonizzata su Streamberry, cioè Netflix, la giovane dirigente rivede le azioni e i turbamenti di tutta la sua giornata nella serie Joan è terribile interpretata da Salma Hayek. È la famosa intelligenza artificiale che risparmia alla piattaforma il costo degli sceneggiatori trasformando la vita delle persone comuni in altrettanti prodotti televisivi. Non siamo più protagonisti della vita reale, ma soggetti per lo storytelling. Il voyeurismo e la propensione a spiare nel privato degli altri non più dal buco della serratura ma con l’occhio delle telecamere fa il resto. Tutti guardano Joan è terribile e ne disprezzano la protagonista, pedinata dovunque dall’algoritmo finché si scopre che le rifrazioni del reale sono infinite. E allora non resta che andare alla sorgente del flusso e agire con mezzi, in realtà, tutt’altro che virtuali…

Il bersaglio della satira di Brooker è la piattaforma dello streaming (appunto Streamberry) abituata a lavorare in base agli input degli algoritmi, messi sotto accusa anche nel secondo episodio (Loch Henry). Non inganni il tono leggero della denuncia, forse indispensabile affinché Netflix producesse. Curiosamente, è proprio il registro della commedia ad aver deluso parte della critica. Ma anche se l’apocalisse dell’arretramento dell’umano è rappresentato con le chiavi dell’ironia, lo specchio rimane ugualmente nero.

 

La Verità, 22 giugno 2023

Vogue, il cinema: la sinistra si rifugia nell’immaginario

Ha ragione Carlo Freccero nella sua riflessione su Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti pubblicata da Dagospia: la sinistra ha perso, il cinema ha vinto. O forse pareggiato. Detta in sintesi, tralasciando tutto l’armamentario morettiano di canzoni canticchiate in auto, di tic linguistici, di mini lectio magistralis sul cinema (la lunga citazione di Breve film sull’uccidere di Krzystzof Kieslowski) è questa la tesi dell’ex direttore di Rai 2. Ma è chiaro che si tratta di una vittoria consolatoria, ecco perché, in sostanza, di un pareggio. Cioè, di una fuga, una ribellione, un rifiuto della realtà che solo il cinema può permettere. In qualche modo, lo aveva teorizzato Bernardo Bertolucci riproposto dal suo allievo più fedele, il Luca Guadagnino di Chiamami col tuo nome e la serie We are who we are, capisaldi della gettonatissima cinematografia woke, in un’intervista concessa a Marco Giusti: «Luca ed io lavoriamo sul cinema pensando non alla realtà, ma al cinema per arrivare alla realtà». Ecco, c’è tutto: il motore, la sorgente dell’arte non è la realtà, ma il cinema stesso. È così anche in quest’ultima prova dell’autore di Caro diario.

Come sottolineato dai critici più accorti, l’ispirazione del Sol dell’avvenire è 8 e ½ di Federico Fellini. Anche qui il protagonista è un regista in crisi che stenta a trovare il bandolo. Ma nel lavoro del più autarchico dei nostri cineasti, l’autoreferenzialità si dispiega in tutta la sua potenza, dalla voce monocorde ed esortativa che abbiamo imparato a conoscere con Michele Apicella, alle ridondanze della propria filmografia (il giro per il quartiere Prati in monopattino, il pallone calciato verso il cielo, le comparsate amichettistiche, l’amore per i dolci, la pallanuoto, i sabot…). Tuttavia, ciò che più conta è la ribellione, l’insurrezione ideologica: «La storia non si fa con i se… e chi l’ha detto?». È il punto di svolta del film. Freccero cita il Giorgio Gaber di «La mia generazione ha perso», ma Moretti non ci vuole stare, e con lui il suo alter ego, il regista che sta girando un film sulla storia della sinistra, quella nella quale per un certo periodo il Moretti militante, il Moretti cittadino, provò a entrare con i girotondi: «Con questi leader non vinceremo mai». La stessa sinistra su cui si era macerato in Palombella rossa e Aprile: «D’Alema, di’ una cosa di sinistra». A Fabio Fazio che gli chiedeva se pronuncerebbe di nuovo quella frase, il regista ha risposto: «Sudo, sudo». Nel Sol dell’Avvenire c’è questo sudore, questo impaccio. Come sarebbe stata diversa la storia se, nel 1956, al momento dell’invasione di Budapest, i dirigenti del Pci si fossero ribellati all’Orso sovietico. Se avessero tirato su la testa, rifiutato di allinearsi, stracciato l’acquiescenza. Tutto sarebbe andato diversamente e il mondo progressista sarebbe andato incontro al futuro radioso rappresentato dal Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo con tutti i suoi attori sorridenti, inebriati, sognanti, estasiati.

Non è andata così e non è un dettaglio. Un’oligarchia si era già impadronita dei sogni di riscatto del proletariato. E, nonostante il revisionismo cinematografico di Moretti (e del Veltroni di Quando), il Pci obbediva alla nomenklatura del Cremlino. Per definire l’epopea sovietica di quegli anni non va scordato che al sostantivo «socialismo» si abbinava l’aggettivo «reale». I sogni stanno a zero. Non è la sinistra ad avere perso, ma la realtà. Dodici anni dopo l’invasione di Budapest altri carri armati invasero Praga per stroncare la Primavera di Dubcek. E fu in seguito a quella repressione che Jan Palach scelse di immolarsi davanti alla statua di San Venceslao.

Se la realtà fa obiezione non resta che rifugiarsi nel cinema. Anche in Il ritorno di Casanova di Gabriele Salvatores c’è un regista in crisi (interpretato da Toni Servillo). Si fa cinema sul cinema. O televisione sul cinema. Come in Call my agent, la serie imperniata su un’agenzia alle prese con i tic e le ossessioni degli attori. Il cinema è la bolla della realtà, nella quale si può dar libero sfogo all’invenzione. «Il cinema può risolvere qualsiasi dramma perché non ha debiti col reale», scrive Freccero. E così può diventare il doppione riveduto e corretto della storia. Il luogo dei sogni, dell’utopia, dell’immaginario. La riserva nella quale metabolizzare le sconfitte. Si vive nell’immaginario e dell’immaginario. Lo si scambia, lo si confonde, con il reale. È così che si fa politica. È così che si fa comunicazione. È così che si mantiene l’egemonia. Quando Elly Schlein, che ha debuttato in società in una cena a casa Baglioni tra registi e cantautori, incarnando trent’anni dopo la trama della Terrazza di Ettore Scola, concede la sua prima intervista da segretaria del Pd a Vogue – non al Manifesto o a Repubblica o a Micromega (Rinascita chiuse nel 1991) – afferma ciò che è realmente. Delinea il suo universo di riferimento, le classi sociali a cui si rivolge, il suo modo di fare politica e di parlare a quella che considera la sinistra. Non c’è da scandalizzarsi per la frequentazione del lusso, né da stracciarsi l’eskimo in preda a rigurgiti novecenteschi e pauperistici. C’è solo da prendere atto che il cerchio si è chiuso. E che la simpatica Elly è diventata ciò che è: «un personaggio perfetto di un film di Guadagnino».

 

La Verità, 1 maggio 2023