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«Che errore uniformare tutta l’Italia con i decreti»

Professor De Rita, lei ha 88 anni ma conserva lo spirito ribelle dei ventenni: niente app e niente mascherina.

«Nessuno che mi conosca direbbe che ho uno spirito ribelle. Sono un uomo tranquillo, arrivato a 88 anni camminando con passo lento verso la morte, compimento della vita. Il mio detto preferito si trova nel salmo 83: “Cresce lungo il cammino il suo vigore finché compare dinanzi a Dio in Sion”».

Era una provocazione. Capisco la difesa della privacy meno il no al dispositivo di protezione.

«Oltre al fastidio, ci sono due ragioni. La prima è che mi sembra di respirare l’anidride carbonica del mio fiato. Forse proteggerà gli altri, ma a me non pare salubre. La seconda ragione è che la mascherina fa risaltare gli occhi e quando guardo i miei coetanei, diciamo gli over 75, vedo sguardi in parte disperati e in parte inespressivi. Non voglio apparire così».

Ecco: intervistare Giuseppe De Rita vuol dire imbattersi in pensieri originali e motivati. Fondatore e presidente del Censis – il Centro studi investimenti sociali che tutti gli anni ci consegna una fotografia del sistema nervoso del Paese – romano, otto figli avuti da Maria Luisa Bari, scomparsa nel 2014, De Rita è una delle figure più lucide e autorevoli del panorama intellettuale italiano. Un grande saggio. Che, con l’eccezione della partecipazione allo staff di Ciriaco De Mita a fine anni Ottanta, ha sempre mantenuto un’equilibrata distanza dalla politica. Nonostante questo, all’elezione per la Presidenza della Repubblica del 2006 ricevette 19 voti.

Professore, è corretto il confronto di questo periodo con quello della guerra?

«Non direi. Chi lo fa non ha visto le centinaia di quadrimotori americani che sganciavano bombe sulle nostre città. O le motociclette delle SS che attraversavano Roma mitragliando ad altezza d’uomo. Quella di oggi è una paura viscida e indistinta. Perciò anche persone razionali possono non controllarla. Qualche giorno fa a Roma alle 5 del mattino si è avvertita una piccola scossa di terremoto. C’è chi è sceso affannosamente in strada, io no. Una certa paura è stata alimentata dal clima generale di emergenza. C’è stato poco “ragionamendo”, direbbe De Mita».

L’enfatizzazione del pericolo è servita a puntellare un potere fragile?

«Questa mi sembra un’esagerazione. Il fatto è che tutto il sistema italiano era impreparato. E quando si è impreparati si sbanda. La Germania ha risposto diversamente. Ha funzionato il rapporto tra i länder e lo Stato centrale, non ci sono stati problemi per le mascherine e i letti in terapia intensiva. Il muscolo ha assorbito la botta e ha permesso di controllare la paura. Noi siamo abituati ad arrangiarci giorno per giorno. È la virtù dell’Italia. Ma abbiamo copiato la Cina, dicendo che gli altri ci seguivano. Non era vero. Così, alcuni errori ne hanno innescati altri».

Il principale?

«Stare tutti insieme appassionatamente, mentre l’Italia è fatta di differenze. Non era pensabile trattare la Lombardia come la Basilicata o Bergamo come Viterbo. Per differenziare bisognava essere sicuri che la muscolatura avrebbe risposto bene. Non essendolo, abbiamo fatto norme uguali per tutti».

Siamo nella crisi più complessa della nostra epoca governati dai politici più sprovveduti della storia repubblicana?

«Come ha detto Giulio Sapelli, siamo governati da eterni disoccupati. Sarebbe interessante che qualche giornalista consultasse la Navicella parlamentare per studiare i curricula di ministri e sottosegretari e vedere cosa tornerebbero a fare se non rieletti. Ma non è tutta colpa loro».

E di chi?

«La ventata anticasta si è trasformata in lotta contro il merito e l’esperienza. Un risvolto disastroso. Quando governava la Dc c’era un lungo percorso di formazione, da vicesindaco ad assessore regionale fino a deputato. Una volta alla Camera, i primi anni si trascorrevano a imparare. Se appena arrivati si va al governo è inevitabile che i governanti siano inadeguati».

Di conseguenza?

«Il dilettantismo genera improvvisazione e semplicismo. Non si mette in quarantena una società complessa come la nostra senza tener conto della specificità di situazioni e corpi intermedi, dalla Chiesa alle filiere produttive, dalle categorie professionali ai sindacati. È come andare avanti chiudendo gli occhi per evitare di vedere il pericolo».

Vede anche lei una sovrapposizione della comunicazione sulla politica come appare da una certa strategia degli annunci?

«La pandemia ha accentuato la verticalizzazione delle decisioni. Tutto si concentra al vertice: Protezione civile, Comitato tecnico scientifico, due o tre ministri con il premier. Quando prevale l’angoscia, il potere si concentra. Il risultato è che anche il rilancio è statalizzato. Ma questo non è un meccanismo privo di conseguenze».

Quali, per esempio?

«Avrà notato che non c’è stata beneficenza privata, se si eccettua l’iniziativa di Gaetano Caltagirone in favore del Gemelli e dello Spallanzani. Per il resto, niente appelli dei giornali o della Chiesa. Tutta la beneficenza è andata allo Stato attraverso l’app della Protezione civile».

Qualcuno veramente c’è stato… E la prevalenza della comunicazione?

«Verticalizzando e statalizzando si crea una distanza che si colma attraverso gli eventi. I famosi decreti, i provvedimenti poderosi. Gli eventi sono il terreno della comunicazione. Oggi si sottolinea il ruolo dei social, della Bestia di Salvini, del portavoce del premier, innalzandolo ad artefice. In realtà, Rocco Casalino dipende da un processo più strutturale».

L’approccio sanitario all’epidemia doveva essere complementare a una visione sociologica che è mancata?

«Non vorrei che la mia sembrasse una critica antagonista. Anche il ruolo quasi esclusivo avuto dai virologi nell’emergenza fa parte del processo di verticalizzazione. Il Comitato tecnico scientifico è composto in un certo modo. Cardiologi, animatori e altri specialisti sono rimasti al margine. Solo ora con le autopsie si inizia a vedere che non si muore di coronavirus, ma di altre complicazioni. Se domina la virologia il corpo umano è ridotto a portatore del virus e si perde di vista una visione completa».

Come giudica il decreto Rilancio?

«La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire».

Ha visto la chat privata fra alcuni magistrati che attaccano Matteo Salvini? Quanto la cultura inquisitoria che domina nel M5s e nella magistratura può aiutare la ripresa?

«Tra Tangentopoli e post-Tangentopoli siamo diventati un Paese inquisitorio. Personalmente non amavo Francesco Saverio Borrelli, ma era un signore che aveva una storia familiare e suonava il pianoforte. Quelle espressioni fanno parte del protagonismo di magistrati che inseguono il protagonismo di Salvini. C’era anche in Borrelli, ma non in queste forme scomposte. Il degrado inquisitorio dipende dalle persone che interpretano ruoli e leggi. Non credo che potrà ostacolare la ripresa del Paese. L’Italia è meglio della magistratura che si precipita nelle Rsa nel pieno della tragedia».

Come possono sentirsi i piccoli e medi imprenditori di fronte al ricorso al prestito statale di Fca con sede nel Paese europeo a noi più ostile?

«Se si fa una società liberale e liberista si stabiliscono criteri che valgano per la richiesta Fca di oggi o per quella del Censis di domani. La Sace e la banca fanno le istruttorie tecniche e concedono il prestito in base a valutazioni oggettive. Ognuno fa il proprio mestiere. Se invece si introducono elementi politici si nega il prestito ai Benetton a causa dei morti del ponte Morandi e alla Fiat perché ha la sede in Olanda. Ma così non si gestisce più nulla».

Da cosa deriva l’eccesso di burocrazia che ci affligge? E perché siamo così impotenti nel combatterla?

«Si sottolinea la burocrazia statale, ma anche in banca e nei commissariati chiedono decine di firme. La burocrazia è il prodotto della diffidenza dell’italiano medio nei confronti del proprio simile. Se va in campagna un contadino non le parla bene del suo vicino. Moltiplichi questa diffidenza cellulare nelle relazioni più complesse, tra enti e organismi, ci aggiunga dieci anni di cultura del Vaffa, e avrà la burocrazia che ci sommerge».

Si può estendere il modello del ponte Morandi senza Codice degli appalti alla ripresa post-coronavirus?

«A Genova hanno applicato quello che a Roma si dice “famo a fidarse”. Sindaco e presidente della Regione si sono fidati, consapevoli di rischiare. Se fosse caduto un calcinaccio e qualcuno avesse aperto un’inchiesta… Non credo si possa agire in deroga per rifare le strade di Roma».

Il ponte Morandi mi ha ricordato l’Autostrada del Sole completata in anticipo di tre mesi.

«E anche il traforo del Monte Bianco, realizzato sulla spinta del conte Dino Lora Totino. Era un clima diverso, c’erano entusiasmo collettivo, gioia di vivere, voglia di crescere. Oggi non riusciamo a fare dieci chilometri di Tav. Se serve la firma del funzionario a ogni metro la gioia di vivere è finita».

In questa crisi i vecchi hanno mostrato di avere più carte di tanti giovani sprovveduti. Dopo la rottamazione è il momento di ricorrere all’usato sicuro?

«Persone come Sabino Cassese e il presidente Sergio Mattarella hanno fatto la ricostruzione e il boom economico, ma appartengono a una generazione che ha dato quello che poteva dare. Al massimo può consigliare chi deve decidere. Non però come le task force che stabiliscono i metri di distanza tra marito e moglie. Ho letto l’invito di Sapelli a coinvolgermi. Ma per far cosa?».

Il presidente della Repubblica, visto che già nel 2006 qualcuno la votò.

«Ne parleremo alla prossima intervista».

 

La Verità, 23 maggio 2020

«Con app e droni saremo come formicai cinesi»

Ha previsto il dominio della finanza e la crisi dei subprime (L’elenco telefonico di Atlantide, Sironi, 2003). Ha anticipato la dipendenza dalla tecnologia e dal Web (Lo stato dell’unione, Sironi, 2005). Ha preconizzato l’ascesa della destra (La ragazza di Vajont, Einaudi, 2008). Tra gli autori apocalittici, Tullio Avoledo è quello che ci prende di più quando ci sono da tratteggiare mondi futuri, minacciati da rigurgiti nazisti o soggiogati da dittature cupe. L’ultimo suo romanzo, Nero come la notte (Marsilio), è la storia di un ex poliziotto rozzo e fascista che rinasce in una comunità di accoglienza nella periferia di una città immaginaria del Nordest. Friulano, 63 anni, nel 2018 ha aderito al Patto per l’Autonomia, formazione nelle cui liste si è candidato al Consiglio regionale non risultando eletto per una manciata di voti. Vive e lavora a Pordenone. La critica lo definisce «scrittore di genere» perché si muove fra noir, thriller, horror e distopie varie. Stavolta però, come ha confessato a una recente presentazione online, la pandemia lo ha colto a metà del romanzo. Bel paradosso per uno abituato a prevedere il domani.

Impossibile tirare dritto e far finta di niente?

«Impossibile. Come si fa a scrivere una storia ambientata nel 2021 in una stazione balneare dell’alto Adriatico senza tener conto del Covid-19?».

Ha dovuto ricominciare da capo?

«Un po’ sì. Ho immaginato la nuova logistica facendomi venire delle idee, non le barriere in plexiglass di cui si parla. In questa situazione depressa è difficile immaginare la gente in vacanza».

Cos’è più facile immaginare?

«Una presenza invasiva della Cina, non lo dico necessariamente in senso negativo. I cinesi sono gli unici che hanno una politica estera con gli attributi».

Il morbo ci ha preso in contropiede nonostante gli allarmi di scrittori, di miliardari dell’hi tech, di alcuni scienziati?

«Siamo dentro un’epidemia annunciata. Bastava leggere Spillover di David Quammen, uscito nel 2012. Se fossimo stati preparati non sarebbe andata così. Non dico che ci sarebbe già il vaccino, ma non avremmo avuto tutti questi morti. Il vero virus è l’impreparazione».

Che deriva da?

«Dalla cultura manageriale sconfinata in politica. Il manager fa carriera perché sa ruffianarsi i potenti giusti, le chiamano pubbliche relazioni. In politica si diventa sottosegretari con 20 preferenze sul web».

Lei ha sempre anticipato le crisi, stavolta deve rincorrerla?

«È più scomodo, ma più divertente. Quando si anticipa si ha più libertà, anche se poi ti chiedono conto di qualcosa che non hai azzeccato. Spero che la pandemia non renda obsoleto il nuovo romanzo».

Nel quale andrà tutto bene?

«Mica tanto. Finita l’epidemia temo si affaccerà un governo di destra».

Previsione o pericolo?

«Entrambi. Non è difficile immaginare che, dopo questo governo che ha limitato la libertà individuale, gli elettori preferiranno chi promette la fine della prigionia».

La destra al potere per reazione alla reclusione?

«Credo di sì. Potrebbero farsi strada anche soluzioni autonomistiche che rimettano in discussione l’unità d’Italia. Lo dico da esponente del Patto per l’Autonomia».

Ma l’autonomia non era una battaglia di destra?

«E chi l’ha detto? Catalogna e Scozia dimostrano che non è così. Si cerca identità in un mondo che non ne ha più».

E la radiosa globalizzazione?

«Se siamo a questo punto è per causa sua. Fortuna che in queste settimane le regioni hanno fatto il controcanto al governo centrale. L’Europa, invece, non credo possa essere rifondata. È una burocrazia che si autoalimenta, come ci ha dimostrato Christine Lagarde. Americani, russi e cinesi sono quello che sono, ma almeno hanno l’orgoglio della madre patria e il senso del futuro».

E noi europei?

«Il testo più distopico che mi è capitato di leggere è stato una direttiva europea del 1991. Fissava le misure di un bullone di un trattore e contemporaneamente definiva l’Europa come un’unione di 300 milioni di consumatori. Come si fa a sperare in un modello così? Paradossalmente ci sono più motivi per sognare qualcosa di positivo adesso che allora».

La realtà supera l’immaginazione?

«Finora ognuno la interpretava a modo suo. La pandemia è una vicenda drammatica e condivisa come le trincee della Grande guerra. Ci sta costringendo a pensare insieme. Resta da vedere se riusciremo anche a sviluppare una visione condivisa del futuro. Una delle tante cose su cui concordo con Michel Houellebecq è la convinzione che questa disgrazia, per qualcuno, sia un’occasione ghiotta».

Per i colossi dell’economia digitale?

«Quando le risorse si esauriscono si possono fare le prove di controllo della popolazione. Per esempio, portandoci a votare per via telematica. Questo è il paradiso dei 5 stelle. Che le anime candide della sinistra da apericena avallano. Mentre gli Stati sono impreparati i big della new technology si fregano le mani. Amazon non è stata certo penalizzata. Nel terziario la modalità di lavoro a distanza era già in atto».

La vita è sempre più digitalizzata.

«Nell’Ombra dello scorpione, Stephen King narrava un mondo nel quale il virus si trasmetteva attraverso le banconote. Io pago tutto con il bancomat o la carta di credito e provo fastidio se dal panettiere devo usare i contanti perché non gli funziona il pos. I rapporti a distanza prevalgono sul contatto umano. Ci stiamo abituando al fatto che se il governo ci controlla che male c’è».

Piattaforme, droni e app facilitano la quotidianità e garantiscono sicurezza.

«Mi son venuti i brividi quando ho sentito un ministro dire che lo Stato è benevolo. Siccome alla nostra privacy abbiamo già rinunciato andando su Facebook, allora…».

Il futuro sarà questo tanto più se i pericoli per la sopravvivenza aumenteranno?

«Nel novembre scorso sono stato una settimana a Pechino, megalopoli di 36 milioni di abitanti in cui tutto bene o male funziona. Il prezzo è un controllo totale. A me pare un passo indietro, mimetizzato con l’illusione di entrare nel futuro. Il modello è il formicaio? So che molti risponderebbero affermativamente a un questionario che prospettasse questo scenario. Per me è spaventoso».

Anche lei come Houellebecq dubita che da questa esperienza nasceranno libri interessanti?

«Sì, totale sintonia. Per quanto mi sforzi non riesco a vedere qualcuno che abbia colto la straordinarietà della situazione. Sulla Sars non ricordo un titolo significativo, solo instant book e affini».

Come giudica il fatto che Stephen King ha retrodatato il nuovo romanzo?

«Mi sembra una furbata per aggirare l’ostacolo. È difficile immaginare il futuro dopo la pandemia, il binario è ostruito da una montagna. Non basta scrivere di auto elettriche dovunque e di cellulari portentosi. Penso che ci si rifugerà nel passato. Vedremo film e leggeremo libri ambientati negli anni Ottanta o Novanta, perderemo contemporaneità».

Oppure la pandemia potrebbe essere una fonte ispirativa.

«Dopo la pandemia la gente avrà voglia di leggere storie sulla pandemia?».

Preferirà evadere?

«Penso di sì. Anche perché sento sempre di più parlare di privilegi. Si dice che per gli scrittori, che hanno la casa grande, è facile esercitarsi sul lockdown».

Non è vero?

«Qualcosa di vero c’è. Ma ognuno pensa di soffrire più degli altri. O di avere la trovata più geniale degli altri».

Tipo?

«La giunta regionale del Friuli Venezia Giulia sta pensando di trasformare una nave da crociera in ricovero per gli anziani malati di Covid-19, dismettendola finita l’emergenza. Il modello è la nave ospedale ormeggiata davanti a New York. Solo che quella è nata come ospedale, la nostra no. È la mentalità dei manager».

Ancora lei.

«Ha presente I viaggiatori della sera di Umberto Simonetta? I figli li accompagnavano sulla nave da crociera che poi tornava vuota. Una società che ammette il sacrificio dei più deboli perché non più idonei al lavoro è mostruosa. Come chi dice: riprendiamo a lavorare tanto muoiono solo i vecchi».

Più che essere narrata in modo esplicito, la convivenza con il virus diventerà una sensibilità, un contesto?

«Sono pessimista. Tra un anno nella top ten ci sarà un romanzo con la storia di una coppia durante la pandemia: lei bloccata a New York e lui a Bergamo fanno sesso in chat. E uno su come si sopravvive in montagna al tempo del coronavirus».

Alcuni suoi colleghi hanno scritto che stanno imparando l’attenzione agli altri. Lei?

«Io tendo ad avere più paura degli altri. Voglio dire: non sei sicuro se gli altri non hanno la tua stessa cautela. La sicurezza è una catena di responsabilità, bastano gli aperitivi sui Navigli a rovinare tutto. Imparare a essere responsabili è positivo. Come anche che possiamo essere più che semplici consumatori».

Come?

«Ho imparato a fare il pane in casa e ne vado fiero. Oppure si possono leggere o rileggere i libri che abbiamo già, senza comprarne compulsivamente di nuovi».

In molti romanzi distopici incombe il ritorno del nazismo. È una minaccia reale o un artificio narrativo?

«Credo sia un pericolo reale. Credo ci siano in giro soldi che non sappiamo dove sono finiti. Il nazismo conserva un fascino iconico, come per altro l’ideologia sovietica. Sono miti fondativi forti, che potrebbero tornare anche in forme sincretiche, come auspicava quel pazzo di Eduard Limonov».

Enfatizzarne la possibilità è un modo per sentirsi dalla parte giusta?

«Mai pensato di essere dalla parte giusta. Qualche giorno fa ho visto in Parlamento il leader della Lega con una mascherina nera e il tricolore. I richiami ci sono. Fascismo e nazismo propongono formule che in tempi di carestia possono essere vincenti. Nel mondo animale quando la pozza dell’acqua si restringe, scatta la solidarietà tra gli animali feroci contro quelli più deboli».

Grazie a Dio siamo esseri umani.

«Ma dopo questa pandemia dobbiamo ripensare il mondo. Per la prima volta, dopo tanto tempo, abbiamo vissuto qualcosa che ci accomuna a livello mondiale».

 

La Verità, 9 maggio 2020

«Se ingoieremo il Mes saremo un protettorato»

Un sito che si chiama La Fionda. Un blog no global nell’era dei giganti del web, delle piattaforme, di Instagram. Fresco di nascita, il 31 marzo scorso, ma già ricco di interventi e approfondimenti di una trentina di autori, tra i quali Carlo Galli e Umberto Vincenti. Diretti da Geminello Preterossi, toscano, laureato alla Normale di Pisa, docente di filosofia del diritto e storia delle dottrine politiche a Salerno, autore di studi sulla democrazia, sul populismo, su Carl Schmitt e direttore dell’Istituto italiano per gli studi filosofici. Uno che si definisce «di sinistra», anche se, ormai, per l’evoluzione subita negli ultimi decenni, «dire sinistra è quasi dire una parolaccia».

Invece l’idea della Fionda è romantica. Ce la spiega?

«È un sito-rivista, espressione di una comunità di studiosi di politica e diritto, insegnanti, informatici, semplici appassionati. Persone sparse in tutta Italia, impegnate fuori dai partiti tradizionali. Dalla crisi del 2008, primo scossone alla globalizzazione, abbiamo approfondito le istanze di ciò che viene chiamato populismo. Ribellandoci all’espropriazione della sovranità democratica e riproponendo i diritti sociali e del lavoro».

Una comunità orientata a sinistra?

«Una comunità plurale, convinta che la sinergia tra neoliberismo e globalizzazione abbia effetti esiziali».

Chi è Davide e chi è Golia?

«Golia sono i giganti digitali e la grande finanza. Ciò che il sociologo Luciano Gallino chiamava “il finanzcapitalismo”. Se i colossi finanziari, che non rispondono alla comunità politica, impongono ovunque l’ordine mondiale neoliberale, il risultato è il caos con strati crescenti di popolazione inferiorizzata».

E Davide?

«Sono le comunità, i cittadini. Direi il popolo, se non sembrasse una provocazione. Davide è qualcuno che non ha paura di mirare dritto. Il popolo è fatto di tanti interessi e componenti, ma una cosa lo caratterizza, oggi: è tutto ciò che non è establishment. Sono gli esclusi, in aumento nel sud Europa e nel ceto medio».

Nell’editoriale d’esordio ha scritto che uno degli obiettivi è mostrare «l’inconsistenza della filosofia global-progressista»: come?

«Smentendo l’idea che globale è bello di per sé. E smontando l’illusione che, sulle ali della tecnologia, dalla famiglia e dalla tribù si arrivi direttamente alla dimensione planetaria. In mezzo ci sono le città, gli Stati e gli imperi, le strutture reali della convivenza».

L’esplosione della pandemia rafforza le visioni globaliste e l’universalismo politico?

«Ci sono forze che spingono verso questa omologazione. Una grande convergenza, svincolata dai popoli, ognuno con la propria storia. Credo che al posto di universo, si dovrebbe parlare di multiverso o pluriverso. Ci sono identità, tradizioni, interpretazioni. In passato c’erano la Nato e i Paesi del Patto di Varsavia. Poi c’è stata l’ondata neoliberista con Margaret Thatcher e Ronald Reagan. C’era comunque un grande dibattito. Dopo l’avvento di Tony Blair e Bill Clinton si è immaginata una prospettiva irenica universale, che appiattisce le differenze e cancella la mediazione dei conflitti. I quali, teoricamente, dovrebbero scomparire. Invece aumentano…».

Se il virus non conosce confini lo si può combattere solo in una prospettiva globale?

«Il virus è globalista, non sovranista. È l’inveramento della globalizzazione finanziaria. Il virus ha bloccato il motore della globalizzazione, riproponendo la necessità del ruolo dello Stato».

Il virus ha messo in evidenza anche la fragilità dell’Europa. Le scuse di Ursula von Der Leyen sono un’inversione di tendenza reale?

«Per carità, con quel profilo da visitor… Guardiamo ai fatti, non alla retorica. I fatti sono che ogni Paese guarda a sé stesso. A partire dalla Germania che si è fatta il bazooka di 550 miliardi fuori dal bilancio dello Stato. C’è una banca centrale senza uno Stato unitario. Si dovevano costruire gli Stati Uniti d’Europa, ognuno con la propria autonomia, ma non è andata così. La tecnocrazia non può sostituire la politica. Gli Stati del nord rifiutano la condivisione dei rischi. Lo si è visto durante la crisi della Grecia. Lo stiamo vedendo oggi. L’emissione degli eurobond sarebbe un inizio di condivisione del rischio. Ma non ci sarà».

Invece ci sarà il Meccanismo europeo di stabilità?

«Alla fine ce lo faranno ingoiare. Ci sono spinte forti, tutto l’establishment italiano – Pd, Italia viva, Forza Italia – è favorevole. Anche se accettassimo la parte che riguarda la sanità, il trattato di base ci porterà la Troika sull’uscio di casa. Ci sarebbero conseguenze nefaste sul welfare, le pensioni, l’occupazione. Non credo che i fautori del Mes non sappiano che su questa strada diventeremo un protettorato votato al vincolo esterno, imposto dall’economia tedesca che privilegia la lotta all’inflazione su quella alla disoccupazione».

E allora perché insistono?

«Per due motivi. Uno ideologico: l’illusione globalista contraria alle identità e fautrice dell’omologazione. L’altro strategico: il timore che l’unica alternativa sarebbe finire in mano ai populisti».

Di che cosa è sintomo la proliferazione in Italia di commissioni, comitati, task force a tutti i livelli?

«La sensazione di una delega ai tecnici è molto più di una sensazione. Personalmente sono convinto che il potere decisionale deve rimanere in capo alla politica, titolare di una visione complessa e dell’opera di bilanciamento fra le varie componenti».

Crede anche lei che siamo di fronte a una sorta di clonazione del governo?

«Di fronte a questo evento inedito la compagine governativa ha mostrato i suoi limiti. Ma c’è anche una tendenza che viene da lontano. Nel sistema neoliberista, lo Stato si funzionalizza e spoliticizza, mentre, al contrario, le tecnocrazie si politicizzano. Così, però, i cittadini non si ritrovano perché con il voto legittimano dei rappresentanti, ma le decisioni le prendono altri».

Si ricorre ai tecnici quando il gioco si fa duro?

«Sulla scorta dell’illusione che siano neutrali. L’abbiamo già visto con il governo di Mario Monti».

Arrivato come il salvatore…

«In realtà, si è comportato come un emissario straniero. Per caso ha ridotto il debito pubblico? Semmai ha ridotto il debito con l’estero e i salari. Per non parlare del disastro degli esodati. I tecnici non sono mai neutrali. Dietro l’aura dell’oggettività, fanno passare una visione».

Per esempio?

«Se ci si occupa solo di domanda estera significa che si privilegiano le grandi imprese a scapito di chi vive di domanda interna, piccole aziende, commercianti, partite Iva».

La soluzione?

«Dev’essere la politica a guidare».

Anche se è di tutta evidenza che i governanti attuali non siano all’altezza di questa situazione?

«Nella prima fase di fatto hanno governato i virologi. Ora avanzano priorità economiche, strategiche, psicologiche, di orientamento».

Per questo è nata la task force per la ricostruzione guidata da Vittorio Colao.

«Persona stimata, come lo sono gli altri esperti».

Forse un po’ tantini… La ricostruzione del dopoguerra la guidò Alcide De Gasperi, che non era un tecnico.

«Nemmeno Pietro Nenni e Palmiro Togliatti lo erano. Siamo in presenza dell’ennesima delega: dicci come dobbiamo fare».

Per il dopo si sente molto parlare di Mario Draghi.

«Lo vuole un bel pezzo di establishment, apparati dello Stato, il Pd, Italia viva. Non credo che Lega e Fratelli d’Italia approvino un governo tecnico. Forse potrebbe servire a liberarsi del premier attuale. Personalmente, auspicherei un governo di unità nazionale».

Ci sono le condizioni?

«Probabilmente no. Resta la via maestra del voto, il bagno di democrazia. Quando si devono affrontare sfide alte la legittimazione popolare è fondamentale. Se non c’è, il limite strutturale viene a galla. E poi dobbiamo tener conto di un altro fattore».

Quale?

«Che dopo ogni governo tecnico, come abbiamo visto con Monti, la divaricazione tra élite e popolo aumenta».

Anche il conflitto tra regioni e governo non fa ben sperare.

«La riforma del Titolo V della Costituzione fatta dal centrosinistra è venuta al pettine. È mancata una definizione delle competenze. Infatti, la Corte costituzionale non fa che occuparsi di questo. Dove ci sono regioni più organizzate come al nord, l’Emilia Romagna e la Toscana, ci si salva. Altrove la situazione è tragica. La sanità della Calabria e della Sicilia sono perennemente commissariate. L’attivismo del governatore della Campania serve a mascherare gravi responsabilità nella gestione del sistema ospedaliero».

L’ultima task force nata è quella delle Donne per il Nuovo Rinascimento. Serviva?

«Mi sembra un’operazione simbolica, piuttosto retorica. Se si vogliono dare segnali forti serve ben altro».

Per esempio?

«Sono favorevole alla riapertura di cinema e teatri. Ovviamente nel rispetto delle normative. Meno pubblico nelle sale e opere con pochi attori, ma sarebbe un segnale forte. Anche la riapertura di osterie e trattorie lo sarebbe, non siamo il Paese di McDonald. Ma se quelle attività resteranno chiuse un anno, potranno non riaprire più. Inoltre, la riapertura di scuole e università è fondamentale. Non bisogna trasmettere l’idea che far didattica online sia più figo. No, la cultura è un’esperienza incarnata, di relazioni reali. Paesi arrivati dopo di noi stanno già riaprendo».

La sinistra di governo sta pensando alla patrimoniale e alla regolarizzazione degli immigrati per l’agricoltura.

«Si comincia con la tassa sopra gli 80.000 euro e si arriva al prelievo nei conti conti correnti che sono il risparmio delle famiglie. Le vere ricchezze su cui intervenire sono nei paradisi fiscali. Questo è il momento di mettere denaro, non di toglierlo».

E la regolarizzazione degli immigrati?

«Per carità, buona cosa. Ma mi sembra il modo per buttare la palla in calcio d’angolo e parlar d’altro. Per regolarizzare gli immigrati servono vere politiche sociali. Che non si stanno facendo per nessuno. Altrimenti dopo averli regolarizzati li abbandoneremo nelle periferie e alimentando il degrado sociale».

 

La Verità, 19 aprile 2020