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Delitto, castigo e riscatto narrati da Franca Leosini

Onore a Franca Leosini. In un sistema della comunicazione che non coltiva la memoria e fagocita tutto e tutti senza farsi troppe domande, interrogarsi, molti anni dopo, su quale sia stato il cammino dei protagonisti di Storie maledette è, in sé stesso, un merito. La Leosini lo fa in Che fine ha fatto Baby Jane? (Rai 3, giovedì, ore 21,15, share del 4,5%, quasi un milione di telespettatori). Nella prima puntata al centro del racconto c’era il matricida Filippo Addamo che la conduttrice aveva incontrato nel 2004, ventitreenne, nel carcere di Bicocca a Catania. Per ricostruire la vicenda basta ricorrere alle teche di quell’intervista che già illuminava le ombre del delitto. La madre Rosa, avvenente moglie di un camionista, ma già nonna a 36 anni, non si rassegna alla vita ingrigita di «sartina» e cede alla corte del molto più giovane Benedetto, presentatole proprio da Filippo… Gelosia, senso di tradimento, delitto d’onore, squilibrio o tutto insieme, si compie il più insopportabile dei crimini. Filippo viene condannato a 24 anni, ridotti a 17 in Cassazione, scontati nei penitenziari di Brucoli, Porto Azzurro, Pianosa. Oggi ha 41 anni, si è sposato con Eleonora, dalla quale ha avuto un figlio, e vive libero in Belgio, dove lavora come muratore per mantenere la famiglia.

Che fine ha fatto Baby Jane? segue un copione definito nei minimi particolari e appuntato sul quadernone che la Leosini scorre fedelmente. Una clessidra separa i flashback dall’incontro con il nuovo Filippo.

Delitto, castigo e riscatto. La sceneggiatura si snoda in numerosi capitoli – dall’antefatto all’omicidio, dalla pena all’amore fino al presente – che, insieme a brevi docufiction e graphic novel, aiutano i telespettatori a seguire la vicenda. E poi c’è lei, Franca Leosini, figura di culto e non solo del crime italico: con la sua acconciatura sapientemente demodé, il suo linguaggio barocco, l’abbondante e colorita aggettivazione, la capacità di abbassare o alzare la tensione emotiva del racconto. La conduttrice prende per mano il pubblico, aiutandolo a inerpicarsi sui tornanti di un percorso, forse un tantino lungo, del quale lei sola conosce e controlla il finale. Un finale che non risparmia le domande giuste al suo interlocutore: «Pensa che riuscirà a dire a suo figlio di aver ucciso sua madre?»; «Lei ha saldato i conti con la giustizia, quelli con sé stesso li ha saldati?». La vicenda di Filippo Addamo è diventata anche traccia di un romanzo di Walter Siti (La natura è innocente – Due vite quasi vere), intervistato nel corso della puntata.

 

La Verità, 7 novembre 2021

Quante cose succedono sulla scacchiera di Beth

Scriveva Thomas Henry Huxley che «la scacchiera è il mondo e gli scacchi sono i fenomeni dell’universo». E, in effetti, quante cose succedono sulle tavole bianconere di Beth Harmon, la magnetica protagonista di La regina degli scacchi, la miniserie di Netflix interpretata da Anya Taylor-Joy, ideata e diretta da Scott Frank con la supervisione del campione Gary Kasparov e tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis (The Queen’s Gambit), già autore dello Spaccone, insomma uno che con le storie di giochi di qualità ci sa fare. Dunque, dentro e attorno a questa scacchiera succede di tutto, ma principalmente avviene l’emancipazione da un’infanzia disgraziata – separazione dei genitori, incidente della madre, ingresso nell’orfanotrofio – di questa bambina dai capelli rossi che, dopo il divorzio anche dei genitori adottivi, crescerà ammaliante e inevitabilmente ribelle.

La scacchiera, dunque. È nel seminterrato del custode del rigido istituto – siamo nel Kentucky dei primi anni Sessanta – che Beth impara a conoscerne gli infiniti segreti, rivelando subito la sua formidabile predisposizione. «Quelle come te non hanno vita facile», preconizza il burbero ma paterno custode. «Sei due facce della stessa medaglia; da una parte il talento, dall’altra il prezzo da pagare. Non si può dire quale sarà il tuo di prezzo, avrai il tuo momento di gloria, ma questo non durerà, tu hai così tanta rabbia dentro, devi fare attenzione».

Calda, coloratissima, ritmata, piena di ottima musica e perfettamente confezionata nel vintage di abiti, rossetti, drink e arredi, c’è chi ha visto nella Regina degli scacchi «una Wonder woman senza superpoteri» che, superando il lastrico delle mortificazioni e delle dipendenze da tranquillanti e alcool, si impone in un mondo ossessivo nel quale le primedonne sono sempre gli uomini. Oppure c’è chi ha sottolineato «la rivalsa rispetto a come ha visto i mariti del tempo trattare le mogli». Tutto vero, certamente. Al punto che, a volte, la parabola del riscatto sconfina nella favola (l’adunata degli avversari da lei umiliati pronti ad assisterla). Ma forse l’originalità della storia è rintracciabile in ciò che succede nella tavola quadrettata, dove la protagonista riversa la sua rabbia forgiata di prodigioso talento. Così che la scacchiera, senza essere territorio per adepti, diventa esercizio di strategia, storia fantasy, thriller e, nelle partite lampo, spartito rap. O, più spesso, psichedelico, grazie all’additivo di quelle irrinunciabili capsule verdi, il famoso «prezzo da pagare». Perché, purtroppo, anche stavolta, non c’è genio senza la molto comprensibile sregolatezza.

 

La Verità, 14 novembre 2020