Quante cose succedono sulla scacchiera di Beth

Scriveva Thomas Henry Huxley che «la scacchiera è il mondo e gli scacchi sono i fenomeni dell’universo». E, in effetti, quante cose succedono sulle tavole bianconere di Beth Harmon, la magnetica protagonista di La regina degli scacchi, la miniserie di Netflix interpretata da Anya Taylor-Joy, ideata e diretta da Scott Frank con la supervisione del campione Gary Kasparov e tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis (The Queen’s Gambit), già autore dello Spaccone, insomma uno che con le storie di giochi di qualità ci sa fare. Dunque, dentro e attorno a questa scacchiera succede di tutto, ma principalmente avviene l’emancipazione da un’infanzia disgraziata – separazione dei genitori, incidente della madre, ingresso nell’orfanotrofio – di questa bambina dai capelli rossi che, dopo il divorzio anche dei genitori adottivi, crescerà ammaliante e inevitabilmente ribelle.

La scacchiera, dunque. È nel seminterrato del custode del rigido istituto – siamo nel Kentucky dei primi anni Sessanta – che Beth impara a conoscerne gli infiniti segreti, rivelando subito la sua formidabile predisposizione. «Quelle come te non hanno vita facile», preconizza il burbero ma paterno custode. «Sei due facce della stessa medaglia; da una parte il talento, dall’altra il prezzo da pagare. Non si può dire quale sarà il tuo di prezzo, avrai il tuo momento di gloria, ma questo non durerà, tu hai così tanta rabbia dentro, devi fare attenzione».

Calda, coloratissima, ritmata, piena di ottima musica e perfettamente confezionata nel vintage di abiti, rossetti, drink e arredi, c’è chi ha visto nella Regina degli scacchi «una Wonder woman senza superpoteri» che, superando il lastrico delle mortificazioni e delle dipendenze da tranquillanti e alcool, si impone in un mondo ossessivo nel quale le primedonne sono sempre gli uomini. Oppure c’è chi ha sottolineato «la rivalsa rispetto a come ha visto i mariti del tempo trattare le mogli». Tutto vero, certamente. Al punto che, a volte, la parabola del riscatto sconfina nella favola (l’adunata degli avversari da lei umiliati pronti ad assisterla). Ma forse l’originalità della storia è rintracciabile in ciò che succede nella tavola quadrettata, dove la protagonista riversa la sua rabbia forgiata di prodigioso talento. Così che la scacchiera, senza essere territorio per adepti, diventa esercizio di strategia, storia fantasy, thriller e, nelle partite lampo, spartito rap. O, più spesso, psichedelico, grazie all’additivo di quelle irrinunciabili capsule verdi, il famoso «prezzo da pagare». Perché, purtroppo, anche stavolta, non c’è genio senza la molto comprensibile sregolatezza.

 

La Verità, 14 novembre 2020