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«Il no alla legge anti Gpa è un sì al mercato dei bimbi»

Nel dibattito sull’utero in affitto e le politiche in favore della vita alcuni aspetti sono distorti, altri sottaciuti. Ne abbiamo parlato con il ministro per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, Eugenia Roccella.
Ministro Eugenia Roccella, ci mancava il conflitto con l’Ordine dei medici.
«Non c’è nessun conflitto, casomai un dibattito. Riconosco che segnalare le notizie di reato quando un medico ne viene a conoscenza è un problema molto delicato. Non a caso esistono una legislazione e un’ampia letteratura giuridica, oltre che di bioetica, sull’argomento».
Proviamo a dettagliare?
«L’articolo 361 del Codice penale stabilisce che, nelle vesti di pubblico ufficiale, il medico è tenuto a segnalare la notizia di reato. Mentre l’articolo 365 crea un’eccezione, in quanto bisogna salvaguardare il rapporto di cura quando è a rischio la salute della persona che si dovrebbe segnalare».
Bel dilemma.
«È un dilemma che i medici affrontano da sempre, per esempio quando si imbattono in una violenza sessuale o in molte circostanze che si verificano nei pronto soccorso. Oppure quando hanno il sospetto che si sia davanti a un possibile traffico d’organi o di fronte a maltrattamenti o abusi su minore».
Di solito come si comportano i medici?
«Non c’è un comportamento univoco, la responsabilità è di ogni singolo medico nelle diverse situazioni. Da moltissimi anni esiste questa normativa: un articolo che invita a segnalare il reato e un altro che invita a preservare la relazione di cura. Non si tratta di un provvedimento di questo governo né, tantomeno, io ho incitato qualcuno alla denuncia».
La accusano di aver invitato i medici a fare le spie.
«Questo modo di affrontare il problema è banale e semplicistico. E non tiene conto di tutte le implicazioni né di una prassi con regole già in uso. I pronto soccorso da sempre sono tenuti a stilare dei referti. Per esempio, grazie alla legge contro la violenza sulle donne si sollecita l’iniziativa del medico, che può essere risolutiva perché esistono tanti casi sommersi di donne che non denunciano».
Perché di fronte alla maternità surrogata perseguibile anche se praticata all’estero i medici vogliono limitarsi a curare?
«Adesso chi dice che, di fronte a ipotesi di reato, è chiamata in causa la responsabilità del medico passa per illiberale e repressivo. In realtà, secondo me, dietro questo atteggiamento c’è il fatto che l’utero in affitto non è davvero considerato un reato».
Mentre giuristi, legislatori e ordini professionali discutono in punta di diritto, i veri soggetti deboli della vicenda restano i bambini e le madri biologiche?

«È così. Un importante medico e scienziato, ora senatore Pd, ha dichiarato che l’utero in affitto sarebbe addirittura un’azione terapeutica. E una parte dell’opinione pubblica non lo considera un disvalore o un reato, anzi. Manca solo che lo inseriamo nei livelli essenziali di assistenza. Fino a prima della nostra azione, chi tornava in Italia con il nuovo bambino aveva visibilità sulle riviste patinate e in tv che inneggiavano alla bellezza di essere genitori. Chissà perché questa bellezza non si sottolinea mai per i genitori naturali».
Né si sottolinea la condizione della madre che si presta alla Gpa.
«È terribile. Una persona che viene cancellata dopo essere stata usata e non potrà continuare la relazione simbiotica e fondante la personalità del bambino stesso, iniziata nel suo grembo».
L’espressione «reato universale» che sembra uno stigma planetario è una debolezza della nuova legge?
«La legge che vieta la maternità surrogata è in vigore dal 2004. Noi abbiamo visto che il divieto veniva aggirato e la Gpa sempre più normalizzata dalle fiere della procreazione assistita che promuovono l’opzione della compravendita dei gameti e dell’utero in affitto. La legge vieta anche la propaganda della maternità surrogata, ma non si è mai verificato se in quelle fiere veniva violata o no».
Reato universale però rimane un’espressione poco felice.
«È semplificatoria e non l’ho mai usata. Abbiamo corretto una legge vigente per evitarne l’aggiramento e perseguire il medesimo reato quando commesso all’estero».
Sembra che persino il Dipartimento di Stato americano sia preoccupato.
«È una legge italiana e la perseguibilità all’estero riguarda solo i cittadini italiani».
Qualcuno sostiene che non è applicabile perché in molti Paesi si può praticare.
«Ricordo che per certi reati la perseguibilità all’estero è automatica, noi in questo caso l’abbiamo resa esplicita per la gravità dell’azione. Esiste una rete internazionale che ha esultato di fronte alla nostra iniziativa – che, ribadisco, è solo un’estensione – perché vorrebbe abolire la Gpa in tutto il mondo rendendolo davvero reato universale».
L’aggiramento della legge italiana è così diffuso?
«Ovviamente, riguarda una piccola minoranza. Ma essendo un fenomeno in crescita ovunque, era necessario intervenire».
Come funziona?
«C’è un’organizzazione transnazionale che mette in contatto alcuni centri di procreazione assistita con quelli che praticano la Gpa. Così può accadere che si comprino i gameti in un paese dell’Est, vengano conservati in una biobanca del Nord Europa e si vada a fare l’inseminazione in un terzo Paese. C’è un’organizzazione di consulenti legali intorno all’intero sistema perché la caratteristica di questa genitorialità è il contratto. Si diventa genitori attraverso un passaggio di denaro».
Non proprio un dettaglio.
«Che nasconde un’altra ipocrisia. Comprare un bambino già nato è reato in tutto il mondo, mentre ordinarlo da committente in alcuni Paesi non lo è. Perché puniamo la compravendita di un bambino, ma ordinarlo va bene? Credo che il mercato si debba fermare: non si comprano, non si vendono e non si affittano gli esseri umani».
Come avviene l’ordinazione?
«Sui cataloghi dove si privilegiano gli ovociti di donne belle e giovani che trasmettono il dna del nascituro. Si scelgono anche le caratteristiche e il colore della pelle, con un’azione che ha un risvolto razzista perché gli ovociti delle donne di colore costano meno».
Nichi Vendola l’ha definita un ayatollah in gonnella dicendo che non sa niente di lui, di suo marito e del loro bambino?
«
Non giudico mai le persone singole e che io non sappia niente è ovvio. Purtroppo, non sappiamo niente nemmeno della madre che gli ha venduto gli ovociti né di quella che ha partorito il bambino».
Il ricorso alla maternità surrogata riguarda molte coppie eterosessuali.
«Certo, il punto fondamentale è la pratica. Ma anche nella galassia Lgbtqia+ ci sono associazioni che non la approvano, come Arcilesbica, e persone singole come Anna Paola Concia o Aurelio Mancuso, notoriamente contrarie».
Le femministe vi hanno appoggiato quanto speravate?
«Un’ampia parte del movimento internazionale ci appoggia. Un’altra parte è appiattita sulla sinistra che è in forte imbarazzo su questo tema. Infine, c’è il transfemminismo più giovanile che è favorevole in nome dell’autodeterminazione di genere e dell’idea che “il corpo è mio”. Queste organizzazioni chiedono: perché se posso donare un rene non posso donare l’utero? In realtà, sulla donazione di cellule del corpo umano esiste una legislazione molto puntuale. Non si può vendere nulla e anche la donazione solidaristica è fortemente regolata. In nessun Paese al mondo, invece, esiste una Gpa davvero solidaristica».
Perché?
«Perché quell’organizzazione transnazionale è molto radicata e coinvolge professionalità diverse che richiedono un pagamento molto consistente. A cominciare dalla consulenza legale e proseguendo con le altre operazioni nei laboratori, nelle banche del seme e dei medici».
Non ci sono singole donne che si prestano gratuitamente per la gravidanza?
«Se avviene in un rapporto di fiducia, in una relazione di condivisione, non serve una legge né un contratto. Nella realtà, il committente vuole essere garantito e quindi chiede il contratto».
I bambini già concepiti con la maternità surrogata come saranno trattati?
«Come tutti i bambini. L’ha riconosciuto anche la Corte europea, respingendo i ricorsi sul tema e attestando che in Italia i diritti dei bambini sono garantiti. Come lo è la riconoscibilità dei partner come genitori tramite la cosiddetta adozione in casi particolari».
Come funziona?
«Secondo una certa narrazione è diventata improvvisamente lenta e farraginosa. In realtà, è una procedura in vigore dal 1983 per la quale sono passate tante donne che avevano un figlio non riconosciuto dal padre o il cui padre era morto».
Il governo che cosa sta facendo per contrastare la denatalità?

«Intanto, inserendo la natalità nelle funzioni del ministero l’abbiamo messa al centro dell’agenda politica. Finora era un tema rimosso e parlarne era considerato un po’ da fascisti. Se ne occupavano solo alcuni esperti e demografi che ogni tanto lanciavano l’allarme. Noi abbiamo stanziato 1,5 miliardi nella prima finanziaria, 1 miliardo nella seconda e 1,5 in questa».
Concretamente?
«Abbiamo messo al centro la conciliazione tra vita e lavoro. Cioè, asili gratis dal secondo figlio, congedi parentali potenziati, aumento dell’assegno unico, decontribuzione per le madri lavoratrici e, in questa finanziaria, il bonus per i nuovi nati. Tuttavia, ricordiamo che in tutto il mondo le nascite diminuiscono nei Paesi a maggior livello di benessere».
Quindi l’inverno demografico è causato dalla scarsità di aiuti in favore della procreazione o da un’idea di vita radicata nelle giovani coppie basata sul tempo libero e i weekend lunghi?
«Le cause sono diverse. Sul piano personale e del progetto di vita, il fatto di avere dei sostegni economici e di servizi, e un clima amichevole nel posto di lavoro verso chi è genitore, in particolare le donne, incide parecchio. È a questo livello che i governi possono intervenire. Poi resta da esplorare in profondità la connessione tra benessere e denatalità: l’Europa e l’Occidente ma anche la Cina e molti Paesi asiatici sono in pieno inverno demografico».
È la cultura dei diritti a renderci così fragili? Avere figli in qualsiasi modo o, al contrario, rifiutarlo interrompendo la gravidanza, sono davvero diritti?
«Non penso che avere un figlio o non averlo si possano configurare come diritti. Sono delle libertà che dobbiamo garantire, ma non tutte le libertà possono tradursi in diritti veri e propri. Certamente, c’è una cultura che, in qualche modo, non incoraggia. Penso che si facciano figli come sovrabbondanza di vita, che i figli derivino da un sentimento di felicità dell’essere al mondo. Perciò dobbiamo capire perché questa felicità si sta così accartocciando su sé stessa».

 

La Verità, 26 ottobre 2024

«Le donne vere vittime del neofemminismo»

Irrequieta e dinamica, Annina Vallarino ha cambiato spesso città: Genova, Bologna e Milano, poi Londra, dove ha conseguito il master al London college of communication, e ora il sud della Francia. In mezzo a tanti spostamenti, il suo centro di gravità è il lavoro di editor e la scrittura con una predilezione per le questioni femminili. Ha appena pubblicato Drama (Neo edizioni), il suo primo romanzo e, subito dopo, il saggio Il femminismo inutile. Vittimismo, narcisismo e mezze verità: i nuovi nemici delle donne (Rubbettino editore).
Come mai un titolo così controcorrente?
È un titolo che, molto umilmente, si rifà a Il sesso inutile, scritto da Oriana Fallaci nel 1961. Esprime il mio pensiero sul neofemminismo odierno: dannoso e quindi inutile.
Che cosa le ha fatto fare una simile follia?
Ho vissuto a lungo a Londra e visto da vicino l’evoluzione del neofemminismo. Ho letto saggi critici inglesi, americani, francesi, ma nessuno osava proporne uno per il pubblico italiano. Così, l’ho visto come una necessità. Poi ho incontrato i dirigenti della casa editrice Rubbettino…
Le neofemministe sono il suo movente?
Il conformismo paralizza il pensiero. Se una donna dice qualcosa che non rientra nel canone prestabilito è considerata una traditrice. Da post-femminista ritengo necessario guardare avanti, mentre su molti fronti stiamo assistendo a una regressione culturale.
È per questo che alcune neofemministe sostengono che «non è un bel momento per essere donne»?
No. Lo dicono perché serve a creare l’«esercito di spaventate». Il catastrofismo rimpolpa le platee di lettrici e di seguaci. Questo non significa che non ci siano problemi reali, ma da qui a dire che siamo una classe di oppresse c’è un oceano.
L’arma principale di questo movimento è il vittimismo?
Essere vittime rende intoccabili e innocenti. Oggi è impossibile attribuire una pur minima corresponsabilità anche alla vittima. Una volta si diceva «se l’è cercata», oggi per fortuna non più. Ma siamo precipitati nell’atteggiamento opposto: se si danno consigli di prudenza alle ragazze scatta subito l’accusa di victim blaming. Niente discernimento, parlare di prudenza equivale a colpevolizzare le ragazze.
La vittima ha ragione a priori, se poi è donna ha un potere illimitato: perciò sembra che le donne abbiano solo diritti?
Si dà sempre ragione ai bambini capricciosi e ai matti. Le neofemministe sentenziano che una donna non può criticare un’altra donna. Ma è un approccio regressivo che nega alle donne lo status di persone e individui completi, prima che di donne.
La vittimizzazione è un metodo di affermazione: «soffro quindi esisto». Cosa pensa delle interviste con la rivelazione incorporata del trauma infantile o adolescenziale patito?
In inglese si chiama oversharing, eccesso di condivisione. Oggi l’eroe è chi condivide il trauma con il pubblico non colui che svela come l’ha superato. Per questo racconto la storia di Samantha Geimer, la ragazzina tredicenne violentata da Roman Polanski che si è stancata del ruolo di vittima nel quale i media l’hanno imprigionata. Dice: ok, mi è successo, ho sofferto, ma sono ripartita. Le neofemministe la considerano una «povera inconsapevole».
Oltre a quella rappresentata dalle tante donne al potere, anche questa è femminocrazia?
La soluzione alla maschiocrazia non è certo la femminocrazia. Abbiamo bisogno di politici bravi e capaci che parlino a tutti. Le donne devono entrare nell’agorà come individui.
Che ruolo hanno le star di Hollywood e le donne dell’upper class americana?
Sono state fondamentali per il Metoo, che negli ultimi tempi è diventato una sorta di marketing della sofferenza che premia le donne che si mostrano vulnerabili.
Come mai pur avendo successo ed essendo esaltate dai media sono così frustrate?

Lo sono davvero? Non essendoci più il rapporto verticale con il pubblico, la star vuol farci credere di essere come noi.
E noi ci cadiamo in pieno?
Anche perché il racconto del trauma diventa subito intrattenimento. Ci piace farci gli affari delle celebrity. Inoltre, parlando di molestie, il sesso vende.
Tutto questo cosa c’entra con l’emancipazione femminile?
Niente. È un femminismo elitario, di lusso, degli affari marginali. Settimane a parlare di Giorgia Meloni che vuole farsi chiamare premier con l’articolo maschile… Utilità per la vita quotidiana delle donne? Zero.
Ma si combatte il sessismo della grammatica italiana.
Altro tema molto middle class, come direbbero gli inglesi, il cui unico scopo è far vendere libri e aumentare i follower. Questo controllo del linguaggio mi ricorda le suore di una volta che pretendevano il parlare pulito.
Che cosa accomuna il neofemminismo propugnato da Michela Murgia, Laura Boldrini e Rula Jebreal?
Il fatto di essere maternaliste. Si propongono come fari della massa. Parlerei di influencer più che di intellettuali, perché tendono a dire quello che molte donne vogliono sentirsi dire. Invece, gli intellettuali sanno essere scomodi a costo di deludere la loro platea.
Il maternalismo gemello del paternalismo?
Condannano il paternalismo, ma lo sostituiscono rivolgendosi a delle bambine, non a persone adulte.
Il neofemminismo intersezionale è molto ambizioso perché allarga la sua sfera d’azione?
È un’espansione illusoria. L’intersezionalità trascura pilastri fondamentali come la laicità, baluardo dei diritti femminili, e la dimensione di classe. Non è in grado di parlare a tutte le donne, ma solo alle sue adepte che comunicano fra loro con un lessico cifrato. Le intenzioni sono nobili, la messa in pratica no. Il 7 ottobre le intersezionali hanno optato per il mutismo davanti alle donne ebree violentate. Nella loro mappa di oppressione non erano le vittime perfette.
Che cos’è la noia di essere libere?
Nel mondo odierno, dove la sopravvivenza non è più la nostra principale preoccupazione e il tempo libero abbonda, è quasi naturale, in assenza di nemici reali, crearne di immaginari. A me molte di queste accese discussioni su inezie sembrano il sintomo di donne fortunate, che hanno tanto tempo libero e nessun problema serio da affrontare.
Un’altra regola delle neofemministe è non pretendere da loro la coerenza, così possono avere ascelle non depilate per ribellarsi ai canoni occidentali e al contempo indossare abiti firmati.
Viviamo felicemente in un momento di libertà. Ma se ci si pone come guide del pensiero femminista bisogna accettare di rispondere a delle domande. Invece, si rifiuta il dibattito. No debate è uno slogan di questo movimento.
Messo in pratica anche impedendo al ministro Eugenia Roccella di parlare?
L’intolleranza non è un fenomeno solo italiano, basta guardare cos’è accaduto in Gran Bretagna a J. K. Rowling. Le femministe storiche sono tacciate come Terf (Femministe radicali trans escludenti ndr) perché pensano che l’identità sessuale non debba essere soppiantata da quella di genere.
«Cultura dello stupro», «mascolinità tossica», «patriarcato sistemico»: c’è anche una nuova lingua?
Sono espressioni di moda nate nei college americani, versioni pop del linguaggio accademico. Servono a far sentire esperti chi le usa. Per esempio, una locuzione come «cultura dello stupro», non è solo usata dalla ragazzina con le amiche o dall’influencer nelle slide, ma anche dai giornalisti e dai media. E spesso viene accettata senza capire bene cosa c’è dentro.
E cosa c’è?
È un termine bulldozer che descrive un generico ambiente culturale e ormai racchiude tutto il ventaglio di ciò che opprime le donne, dallo sguardo insinuante fino al femminicidio. Ma nella sua malleabilità dimostra la sua vaghezza.
Nel libro parla dello statistichese neofemminista.
Sono le mezze verità. Per esempio, la disparità salariale raccontata come un furto. Nessun economista ne parla così, ma come di un fenomeno complesso, legato alle scelte dei campi lavorativi, al fatto che molte donne optano per il part-time o che devono assentarsi per la maternità o la cura della famiglia.
Infine c’è l’antagonismo nei confronti degli uomini, dipinti a volte come ontologicamente colpevoli.
Siamo ancora in piena ideologia nordamericana. Queste accuse sono un boomerang perché alimentano gli influencer maschili che rispondono all’odio misandrico con l’odio misogino. Il risultato è la polarizzazione del dibattito, fino all’incomunicabilità.
Perché l’attore Timothee Chalamet è così idolatrato?
Perché, se il nuovo obiettivo è decostruire il maschio, lui è l’immagine dell’uomo riformato che deve somigliare alla donna.
È l’icona globale della fluidità del Terzo millennio?
Credo lo sia per un gruppo ristretto di donne. Nei sondaggi, la gentilezza e la vulnerabilità non svettano tra i motivi che presiedono alla scelta di un uomo, mentre lo sono la protezione e la ricerca di sicurezza. Perché poi, non di rado, nella vita reale, le donne si innamorano degli uomini che le infastidiscono.

 

Panorama, 10 luglio 2024

«La femminocrazia è qualcosa d’insopportabile»

Questa è un’intervista maschilista, meglio scoprire subito le carte. Quando l’ho proposta ad Annamaria Bernardini de Pace, titolare dello studio legale specializzato in diritto della persona e della famiglia più importante d’Italia, ha accettato con entusiasmo. E, siccome Abdp è una persona di rara schiettezza, si sconsiglia la lettura agli amanti dei se e dei ma.
Signora Annamaria Bernardini de Pace, devo chiamarla avvocata o avvocato?
Odio avvocata. Voglio essere scelta per il ruolo non per il sesso.
Da dove viene questo lungo nome e cognome che lei abbrevia in Abdp?
L’abbreviazione sta per Amore baci denaro passione.
C’è tutto.
Ci sono le mie predilezioni e tutto quello che gli uomini faticano a dare alle donne.
Pessimista?
Sì. Ma chi lo sa più di me che in 40 anni ho incontrato e assistito più di 10.000 coppie.
E nella vita privata com’è andata?
Ho avuto uomini tirchissimi di passioni, ma generosi d’amore.
Allora non malissimo?
No, ma nella passione ci si scatena di più. Mi piace essere desiderata. Avrei voluto uomini gelosi, appassionati di cucina, di arte.
Di sesso no?
Anche. Ho avuto tanto amore contemplativo. Avrei voluto uomini amanti dei viaggi; ho chiesto che mi portassero a Marrakech, ma nessuno l’ha fatto.
Un bilancio in chiaroscuro?
La verità è che poi sono stata tradita perché ci sono donne capaci di fare la raccolta differenziata dei rifiuti altrui. Alcune in particolare dei miei.
Se si trattava di rifiuti non dovrebbe dispiacersene troppo.
Li ho dovuti rifiutare quando ho capito che queste donne si accontentavano più di me e così gli uomini si sentivano più forti. Con me c’era troppa parità.
Che cosa pensa della femminocrazia italiana?
Che è insopportabile. Non solo per le donne che sono nei luoghi di potere istituzionale – era ora! – ma per la mentalità femminile di oggi, in forza della quale pretendono di avere diritti che non hanno.
Per esempio?
Il diritto all’aborto che non è un diritto per niente. Basta conoscere la legge che offre un’opportunità di scelta da quando l’aborto è stato depenalizzato come reato… Anche in casa le donne sono convinte di avere un diritto di vita e di morte sui figli, mentre la legge parla di diritto dovere alla bigenitorialità.
Vuole scatenare un putiferio?
Lo scateno tutti i giorni, ma la femminocrazia continua a imperare. Le donne ritengono che quando denunciano qualsiasi cosa devono essere credute in quanto donne.
Nelle cause di matrimonio?
E di violenza sessuale. Credono di aver ragione a priori. Sono loro ad avere una mentalità patriarcale.
In che senso?
Dicono che l’uomo mente, che l’uomo è forte e perciò «noi donne dobbiamo essere credute». Partono da una posizione patriarcale. Invece, le donne sono più intelligenti, più scaltre, più manipolatrici, più attente psicologicamente agli altri e quindi più forti.
Concordo dalla seconda in poi.
Sono anche più intelligenti. Solo che hanno un’intelligenza emotiva e non razionale. Comunque sia, non c’è il patriarcato, ma il matriarcato.
Cosa glielo fa dire?
Il fatto che hanno posizioni di potere nella famiglia. Poi, certo, ci sono situazioni di violenza maschile nella famiglia e nella società.
Giorgia Meloni ed Elly Schlein le conosce?
Mai incontrate. Io sono un’antica liberale, radicale, attualmente anarchica, ma stimo molto Giorgia Meloni e penso che sarebbe una vera svolta se desse una sterzata alla sanità e alla giustizia.
Ci sta lavorando.
Ha iniziato la curva, ma serve una sterzata decisa.
A cena con chi fra le due?
Con la Meloni tutta la vita. La Schlein mi sembra che interpreti una parte.
In che senso?
Non mi sembra che creda in ciò che dice, mentre la Meloni è fin troppo autentica.
Si riferisce a quando si è presentata come «stronza» al governatore Vincenzo De Luca?
Avrei fatto la stessa cosa.
C’è chi sostiene che non lavori per il bene delle donne.
Questa è la femminocrazia insopportabile. Siccome c’è la prima premier si pretende che lavori per le donne. Mentre lei lavora per tutti.
Anche in Europa c’è la femminocrazia: Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, Roberta Metsola.
Gliel’ho detto, le donne sono più intelligenti e scaltre. Adesso che hanno lo spazio se lo prendono.
In Francia Marine Le Pen insidia Emmanuel Macron.
Io non approvo le idee di Marine Le Pen, anzi. Però sarebbe ora che quel bambino viziato fosse scalzato da qualcuno.
Paola Cortellesi è la donna italiana dell’anno?
Ha fatto un film furbissimo ed è una bravissima attrice.
Dopo quell’epoca con la protagonista del film che invece di scappare…
Ecco: quello mi ha deluso; sognavo vincesse l’amore, non la politica.
Le vede le bocche storte?
E chissenefrega?
Dicevo: dopo l’epoca raccontata nel film c’è stata la stagione delle lotte femministe. Lei era in prima linea?
Altroché. Con Marco Pannella, per il divorzio, la pari dignità, l’aborto. Eravamo femministe serie che si battevano per problemi reali. Quelle di oggi sanno solo combattere contro gli uomini.
Il femminismo attuale è amico o nemico delle donne?
Nemico assoluto.
Perché?
Abbiamo conquistato quasi tutto: che senso ha combattere l’uomo dopo che abbiamo voluto essere alla pari?
Alcune femministe contrastano l’utero in affitto.
Lo faccio anch’io. Però non è una prerogativa del femminismo, ma di uomini e donne che hanno sensibilità e rispetto dei bambini. Mi fa impressione che una donna faccia un bambino, lo espella e lo venda.
Poi c’è il femminismo che impedisce al ministro Eugenia Roccella di parlare in pubblico.
Ero con lei al Salone di Torino per presentare quel libro bellissimo, ma non ha potuto dire una parola. Glielo ha impedito la violenza delle femministe ignoranti che credono che sia contro l’aborto quando anche lei ha combattuto le battaglie con Pannella.
Perché il suo studio legale difende più uomini che donne?
Perché le donne sono così feroci che sanno difendersi da sole. E le vere vittime, a parte quelli schifosamente violenti, sono gli uomini.
Una causa che avrebbe voluto seguire e le è sfuggita?
Quella di Berlusconi che mi voleva, ma gliel’hanno impedito. Sono stata tre giorni a parlare con lui dei suoi problemi e ho apprezzato un uomo intelligentissimo e affascinante, diverso da quello che ci raccontavano.
Chi gliel’ha impedito?
Non lo so, mi ha detto che c’erano delle resistenze.
Nemmeno lui così potente era totalmente indipendente?
Sono stata felice di non avergli mandato la parcella per quella consulenza perché ho avuto il piacere di parlare con una persona che capiva qualsiasi cosa e la rendeva più interessante, rispiegandola.
Perché ha rinunciato alla difesa di Francesco Totti?
Perché mi piacciono le cause che portano all’affermazione del miglior interesse per i figli. Invece quella rischiava, come poi è successo, di essere una causa mediatica con l’affermazione dell’interesse di tutti tranne che dei figli.
I femminicidi sono espressione di potere o di impotenza maschile?
Secondo me, di impotenza. Gli uomini sentono il bisogno di vendetta. Sono mossi dal narcisismo come affermazione di sé, dall’invidia della donna, dall’incapacità di gestire l’umiliazione. Quindi da una debolezza, non da una forza.
Molti femminicidi avvengono quando la donna li lascia.
Se non sai reggere all’umiliazione, uccidi. È l’inammissibilità di sentirsi inferiori, rifiutati.
Perché sono abituati ad avere tutto?
Non sono abituati a una relazione paritaria.
Questo sarebbe patriarcato.
No, se uno è impotente non è patriarcato, ma coglionaggine, cattiveria che porta a uccidere.
Oltre alla mascolinità tossica esiste anche la femminilità tossica?
Ha voglia!
Come si manifesta?
In quelle donne che, educate male, viziate e prepotenti, sono incapaci di fare qualsiasi cosa di concreto. Pensi come rendono la vita di un uomo, pensi se ce l’avesse lei una donna così. Poi ci sono anche donne violente, che uccidono i figli. Violente non solo psicologicamente, ma anche fisicamente con i mariti che però si vergognano a denunciarle come una volta si vergognavano le donne.
Si può dire qualcosa se certe ragazze si vestono come cubiste o è sessismo?
Trovo vergognoso che non abbiano dei genitori in grado di educarle soprattutto quando in giro ci sono uomini violenti di natura, non educati, uomini di tutte le razze e le religioni. Non sopporto le femministe che dicono: mi posso vestire come voglio senza che venga interpretato come una provocazione. Invece, lo è.
Che idea si è fatta del caso Ferragni?
Non posso parlarne.
La sua avversaria è stata un’altra donna.
Un’altra famiglia distrutta dalla più fervida giustiziera che abbiamo in Italia.
Selvaggia Lucarelli.
L’ha detto lei.
E la sorellanza?

Mi piacerebbe tanto che ci fosse; da 40 anni il mio studio è basato sulla sorellanza. Ho quasi solo collaboratrici, resistono due uomini, una quota azzurra minima. Insegno a solidarizzare e chi non fa come dico io sparisce dagli studi.
Alla faccia del patriarcato. Marina Berlusconi cavaliere del lavoro?
Giustissimo. Ma non capisco come non sono mai stata nominata io. Certo, lei fattura mooolto più di me.
Lei è anche membro del Giurì di autodisciplina della pubblicità.
Lo sono stata 30 anni, di più non si può. Un’esperienza appassionante.
Che cosa pensa dei mammi e dei massai degli spot?
Certi tiranni del pensiero vogliono promuovere il politicamente corretto.
Le piace Luciana Littizzetto?
Mi diverte.
Maria De Filippi?
Mi impaurisce.
Serena Bortone?
Simpatica. Ci frequentiamo.
Lilli Gruber?
Non la guardo perché mi innervosisce la sua parzialità.
Per chi ha votato alle Europee?
Si figuri se glielo dico. Sono anarchica.
Le hanno mai chiesto di candidarsi?
Tutti gli schieramenti.
E?
Non mi basterebbero gli stipendi proposti.
Mi svela un suo segreto, un libro, una serie tv, una persona che adora?
Vorrei rinascesse Giorgio Gaber.

 

Panorama, 26 giugno 2024

«Più che un diritto l’aborto è una tragica necessità»

Tornare ai fondamentali» sono le prime parole di «Ma io ti ho sempre salvato», il nuovo libro di Luciano Violante, sottotitolo: La maschera della morte e il nomos della vita (Bollati Boringhieri). Un centinaio di pagine dense e commoventi soprattutto nel capitolo finale, dedicato a «Le mie morti». I «fondamentali», infatti, sono la vita e la morte. Alla cui dialettica inesauribile l’ex magistrato, già presidente della Camera e attuale responsabile della Fondazione Leonardo – Civiltà delle macchine, dedica la sua attenzione più ancora che all’altra coppia di categorie, guerra e pace, solitamente ritenuta prioritaria.
Presidente Violante, questo libro è una riflessione filosofica, civile o esistenziale?
Soprattutto civile.
Mossa da cosa?
Dalla mia età. Hai la possibilità di guardare attorno. Viviamo circondati dalla morte, sia a causa delle guerre sia per gli annegamenti dei migranti. C’è una grande campagna per la dignità della morte; ne manca una analoga per la dignità della vita.
Chi era sua madre?
Una donna di grande determinazione e forza di volontà. Garbo e fermezza nel rapporto con gli altri.
Che cosa vuol dire il titolo del saggio «Ma io ti ho sempre salvato»?
È una frase che mi ha detto negli ultimi giorni di vita quando sono stato con lei in ospedale. Dai suoi deliqui ho capito le aggressioni che ha subito, prima nel campo di concentramento inglese in Etiopia dove sono nato, e poi nel percorso da Napoli al paese di mio padre, in Puglia, quando lui, comunista,  era ancora prigioniero degli inglesi. Mi guardava, sorridendo: «Ma io ti ho sempre salvato», diceva. Nel campo di Dire Dawa  alcune amiche l’avevano invitata ad abortire, «Vuoi far nascere tuo figlio in questo immondezzaio?». Ma lei mi aveva salvato, facendomi nascere. Allora penso a tutte le madri che non possono dirlo perché hanno perso i loro figli, magari annegando in mare. Mi ha colpito molto sapere che sui fondali marini si trovano cadaveri di madri stretti a quelli di bambini piccoli.
Perché, mentre incombono due conflitti che turbano il mondo invece che sul dualismo guerra-pace si dedica a quello tra vita e morte?
La dialettica tra guerra e pace riguarda gli Stati, quella tra vita e morte riguarda le persone, quindi è più profonda. Se ci battessimo per la vita piuttosto che per la pace saremmo ascoltati di più.
«Le questioni della vita e della morte andrebbero giudicate non con la miserabilità del metro giuridico, ma con quello del destino dell’uomo»: ammette che può stupire scritto da lei, uomo di diritto?
Chi conosce il diritto, ne conosce anche i limiti.
Li conosceva anche 20 o 30 anni fa?
Con l’andare del tempo matura una visione più profonda delle cose grazie alle esperienze su cui la vita ci fa riflettere.
Che cos’è la «biopolitica» e come può rinnovare l’impegno per il bene comune?
La biopolitica si compone delle riforme che favoriscono la dignità della vita. Noi abbiamo una politica degli asili diversa da quella della scuola, a sua volta diversa da quella del lavoro e della salute. Un governo dovrebbe saperle promuovere insieme, collegandole organicamente le une alle altre.
Che cosa pensa del fatto che la sinistra, un’appartenenza che non so se per lei è ancora valida… Anzi, si considera ancora un uomo di sinistra?
Assolutamente sì.
Che cosa pensa del fatto che aborto, eutanasia, suicidio assistito, i diritti per cui si batte la sinistra, hanno a che fare con la morte?

Non si batte solo per questi, ma anche per il salario minimo e per una sanità efficiente.
Ma i diritti civili sembrano avere questa inclinazione.
Noto un allargamento importante ai diritti sociali.
Cosa pensa dell’impegno del presidente francese Emmanuel Macron, il leader intellettuale dell’Unione europea, nell’introdurre l’aborto come diritto nella Costituzione continentale dopo averlo fatto in quella del suo Paese?
Non credo che l’aborto possa definirsi  un diritto;  può essere in alcune circostanze una tragica necessità. Comunque noi uomini su questo tema dovremmo lasciare la parola alle donne.
Concorda con la convinzione diffusa che, siccome incombono conflitti, catastrofi ambientali e pervasivi domini tecnologici, è meglio non procreare?
Non concordo. È una forma di egoismo che ci fa consumare tutte le risorse che abbiamo a disposizione.
C’è anche chi ipotizza un contenimento delle nascite per non peggiorare lo stato del pianeta.
Il problema è gestire la presenza umana in modo tale che non provochi danno all’ambiente. Se ci sono meno esseri umani, ma ci si comporta male ugualmente, la situazione non migliora.
I giovani di «Ultima generazione» lamentano l’eco-ansia: oltre a causare nuovi protagonismi, i toni apocalittici causano anche nuove patologie?
Mi colpiscono le rivendicazioni dei giovani attorno ad alcuni grandi temi. Che a Gaza sia in corso un massacro è difficile negarlo. Apprezzo anche la mobilitazione dei ragazzi che in Georgia si ribellano alla legge russa che pretende di controllare le associazioni culturali.
Si può parlare davvero di un nuovo Sessantotto?
No. Il Sessantotto esprimeva una teoria generale contro il potere, oggi siamo di fronte a mobilitazioni su fatti specifici attorno ai quali si costruisce consenso e dissenso.
Anche se in alcuni casi il dissenso è poco tollerato da questi giovani.
Chi esercita un potere politico si espone e sa che può essere oggetto di critiche. Anche a me è capitato. Una volta, a Genova, un gruppo che dissentiva da quello che dicevo mi svuotò una bottiglia d’acqua in testa.
Non piacevole, però dissentivano da qualcosa che era riuscito a dire. Oggi accade che s’impedisca di parlare.
I comportamenti che abbiamo visto attuare nei confronti del ministro per la Famiglia Eugenia Roccella, che conosco e stimo, sono sbagliati. Tuttavia il politico deve mettere in conto la critica anche aggressiva. Ma impedire di parlare a chi la pensa diversamente è inaccettabile.
Secondo lei l’inverno demografico è causato dalle scarse politiche di sostegno alle famiglie o da un’idea disimpegnata della vita delle giovani coppie?
Credo che il costo della crescita di un bambino, calcolato in 600 euro al mese, sia in molti casi insostenibile.
Perché negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, in condizioni di maggior povertà, si è comunque verificato il boom demografico?
Eravamo più abituati a essere poveri perché lo eravamo tutti. Non ci sentivamo obbligati a possedere una certa automobile, una certa tv, un certo frigorifero.
Quindi il mantenimento di un certo tenore di vita c’entra.
Reggere un normale tenore di vita e in più spendere 600 euro per un bambino non è alla portata di tutti. Quanto costa oggi in carburante e in trasporti spostarsi quotidianamente dalla periferia al centro?
Scrive che essere intellettuali non è un privilegio, ma una responsabilità. Qual è il ruolo degli intellettuali nella società contemporanea?
Dare un senso a quello che accade.
Un compito ben diverso da come viene interpretato da quelli più gettonati dai media.
Certo, è una cosa diversa. In quei casi siamo nel campo dello spettacolo.
Che cosa pensa del sistema Liguria? Siamo davvero di fronte a una nuova Tangentopoli?
Vorrei capire un po’ tutto. Da qualche stralcio di intercettazioni abbiamo intuito che qualcosa di marcio c’era. Quanto, lo capiremo quando avremo tutti gli elementi in mano.
Troverà mai un equilibrio stabile il rapporto tra politici e magistrati?
È un equilibrio per sua natura instabile. In America Donald Trump è sotto processo, la giustizia francese ha condannato Nicolas Sarkozy e in Spagna è stato fatto il governo grazie all’amnistia, azzerando decine di  condanne.
È ovunque un rapporto travagliato.
Per sua natura: giustizia e politica sono due sovranità in perenne tensione, che hanno i confini in comune.
È favorevole alla riforma per la separazione delle carriere?
È inutile perché sono già separate. In alcuni paesi si ritiene positivo che si passi da una competenza all’altra.
Magari dove la magistratura è meno militante.
In Francia non scherza.
Quando morì una zia ultracentenaria lei disse «è calato il sipario», mentre una suora sussurrò «forse si è sollevato». L’eternità la spaventa?
No. Il punto è questo: come può un qualunque essere umano pretendere di cogliere la  complessità del divino?
Sicuramente non può circoscriverlo come ipotizzava il razionalismo illuminista.
Con la pretesa di spiegare tutto. Dobbiamo essere consapevoli dei nostri limiti.
Presidente, lei cancella dalla rubrica del cellulare i numeri delle persone che non ci sono più?
Quello di mia moglie certamente non lo cancellerò.

 

Panorama, 22 maggio 2024

Ecco il sequel, che non si farà, di C’è ancora domani

Il cinema italiano non ha attributi, manca di coraggio, originalità, gusto dello sberleffo. Al contrario, è conformista, prevedibile e chiuso in consorterie. Mi spiace dissentire da Claudio Siniscalchi e Gian Piero Brunetta, accademici e autorità assolute in materia, che pochi giorni fa hanno previsto un radioso futuro per la settima arte in auge nella nostra Italietta: «Per il cinema italiano c’è ancora (molto) domani», hanno scritto sul Giornale, e si noti l’ottimistica parentesi. Siniscalchi e Brunetta sono partiti da una vecchia intervista di Giovanni Grazzini a Federico Fellini nella quale il maestro di 8 e ½ smontava con il suo stile tra lo snob e il pop l’abitudine a lamentarsi prevedendo la rapida morte del cinema, in realtà, sempre pronto a rinascere dalle sue ceneri. Anche in questi mesi è successo dopo che, a causa della pandemia, si erano registrate la chiusura di molte sale e il radicarsi dell’abitudine alla visione domestica sulle piattaforme. Invece no. Barbie e Oppenheimer a parte, è arrivato C’è ancora domani di Paola Cortellesi che ha trascinato la rinascita e una nouvelle vague italiana, con Io capitano in corsa per l’Oscar. Matteo Garrone compone con Paolo Sorrentino e Roberto Andò il trio delle meraviglie del futuro radioso. E va bene, chi si accontenta gode.

Personalmente vado in direzione ostinata e contraria alla rosea previsione. Non solo perché, come già osservato, salvo rare eccezioni il cinema italiano è appannaggio di dieci registi e dieci registe, dieci attori e dieci attrici, sempre gli stessi e le stesse. E oltre il quale, la stragrande produzione di film e filmetti d’autore, pur confortata dai fondi pubblici, viene proiettata in sale semideserte. No, non è per questo che sostengo che il nostro cinema è tendenzialmente conformista. Lo dico in riferimento alle storie, ai contenuti, all’angolazione delle trame. E perdonerete la lunga premessa, ma serve a spiegare il punto di vista dal quale avanzo la critica.

Vengo al dunque. C’è un romanzo che narra la storia vera, drammatica e particolare di un’importante famiglia della politica, raccontata con la voce di una bambina, poi adolescente, ragazza e donna matura, che attraversa cinquant’anni d’Italia. Questa storia è il sequel reale e non di fantasia di C’è ancora domani. Perché, mentre il film di Cortellesi è ispirato ai «racconti delle nonne», il libro di cui parlo ha al centro la vita vissuta delle mamme. Tuttavia, nessuno ne farà la trasposizione cinematografica perché è una storia non allineata, non ortodossa.

La vicenda muove nei primi anni Cinquanta da Riesi, un paesino della Sicilia profonda dove una bambina viene lasciata dai genitori alla zia, sorella del padre, che la cresce amorevolmente nell’educazione cristiana. L’abbandono è ovviamente traumatico e causa di disturbi dell’alimentazione – lo sarà ancor di più per la sorellina più piccola che morirà desolatamente sola, in ospedale. Quando per la bimba arriva l’età scolare, i genitori, atei convinti che vivono tra Bologna e Roma per dedicarsi alla politica e all’arte, allo scopo di preservarla dai bigottismi della scuola statale decidono di iscriverla a un istituto inglese della capitale. Per lasciarla andare, però, la zia pretende che venga battezzata perché, pensa, il battesimo è un sigillo perenne, antidoto contro il male. Il padre acconsente, ma a sua volta decide che il padrino sarà un suo amico, inveterato anticlericale, militante del Partito radicale di cui il papà è storico fondatore. La faccenda si ripete al momento della cresima cui, dopo la frequentazione della scuola laica ma con insegnamento della religione, la bambina chiede paradossalmente di accedere. La madre dà il consenso e la invita a scegliere una donna con la quale abbia un rapporto di confidenza. In mancanza di alternative, la ragazzina sceglie Liliana Pannella, sorella di Marco. Il quale è, a sua volta, amico del padre e frequenta assiduamente la casa di famiglia. Dove le serate si animano di discussioni fra politici e intellettuali, di utopie, strategie, rivoluzioni dei costumi. Albeggiano i Settanta, la bambina, ora adolescente, si abbevera al carisma degli adulti e partecipa con la madre alle battaglie del Movimento per la liberazione della donna. È una stagione entusiasmante e coinvolgente. I diritti civili, dal referendum sul divorzio alla legalizzazione dell’aborto, sono conquiste faticose, dirompenti e ancora sanamente prive della mielosa patina woke di oggi. La soffitta di Marco Pannella in via della Panetteria, dietro Fontana di Trevi (venduta pochi giorni fa), è meta di politici, poeti, artisti, semplici militanti. Un laboratorio di idee e vite irregolari. Non tutto fila liscio come l’olio, però. Affiorano i primi dissidi perché l’influente padre della ragazza vorrebbe trasformare i radicali in un partito che possa governare, mentre Pannella lo vuol mantenere corsaro e antipotere. Il leader si trasferisce a Parigi, manda lunghe lettere, tenta il suicidio…

Tutto è raccontato nel libro-sceneggiatura di cui sopra. Ci sono i primi segnali di crisi. C’è il congresso del 1975, l’intervento di Pier Paolo Pasolini (letto da Vincenzo Cerami perché PPP è stato ucciso due giorni prima) che mette in guardia dal pericolo di imborghesimento e dal tradimento degli intellettuali. La ragazza ha ora 22 anni e inizia a prendere le distanze dagli eccessi dell’«ideologia edonistica» e dalla «falsa tolleranza». Quando la madre, attrice, pittrice e femminista, si ammala gravemente, l’allontanamento diventa definitivo. Anche perché, assistendola, la figlia si ritrova segretamente a pregare e, lentamente, riaffiora in lei quella fede che da bambina aveva coltivato di nascosto, trasgredendo il regime antireligioso dei genitori.

Questa storia vera, questa sceneggiatura che ha la grazia della letteratura, è un viaggio dai Cinquanta al Terzo millennio che illumina la stagione della militanza radicale, del primo femminismo e racconta un’insolita conversione religiosa. Insomma, è un faro sull’altra gioventù. Purtroppo, nessuno la porterà al cinema. Perché il cinema stesso è figlio del pregiudizio ideologico che tuttora soffoca le casematte della nostra cultura. Lo abbiamo visto nell’accoglienza che (non) ha avuto questo romanzo – scritto durante il lockdown, poco letto e non recensito – quando ne è stata impedita la presentazione nel luogo canonico delle presentazioni, ovvero il Salone del libro di Torino, proprio da un gruppo di neofemministe che, invece, avrebbero avuto molto da imparare se si fossero disposte ad ascoltare. Tutto ciò perché il romanzo è Una famiglia radicale (Rubbettino editore) e l’autrice è Eugenia Roccella, oggi ministro per la Famiglia del governo Meloni.

Il cinema italiano manca di coraggio perché questa storia, che anche la sua protagonista oggi ha rinunciato a proporre, resterà chiusa in un cassetto. Lo dico a ragion veduta, avendo provato a contattare qualche grande produttore e qualche importante regista, ricavandone cortesi e, in qualche caso, motivati rifiuti. Quelli di destra, schematizzo per capirci, non lo possono fare per non esporsi all’accusa di fare propaganda, realizzando una pur grande opera dal libro di un ministro. Quelli di sinistra non lo riescono a fare perché troppo scomodo e poco gestibile con i loro abituali attrezzi del mestiere. Insomma, servirebbe troppo di tante cose per sbloccare la paralisi. Troppo coraggio, troppo idealismo, troppa onestà intellettuale. Tutto ciò che manca al nostro cinema. Per il quale il domani non è così radioso.

 

La Verità, 29 febbraio 2024

«La sinistra non propone nulla, sa solo dire no»

Due anni e mezzo fa, dopo un periodo di penombra da pensatoio, Marcello Pera aveva ritrovato visibilità e attenzione dei media. Ma quando lo intervistai chiedendogli se, di fronte allo stato dell’Italia, si sentiva come il poliziotto richiamato dalla pensione per risolvere un caso disperato, abbozzò: «Non sto rientrando in politica», disse. Invece, ora l’ex presidente del Senato, autore di saggi sull’Occidente, il liberalismo e la modernità del cristianesimo, siede a Palazzo Madama nelle file di Fratelli d’Italia. «Sì, ha avuto ragione lei», concede. «Solo sul fatto che fossi in pensione non ce l’aveva. In questi anni mi sono dedicato a studiare la riforma dello Stato, un tema che mi sta a cuore».

Dopo il confronto fra la premier e le opposizioni di qualche giorno fa, come procede la riflessione su presidenzialismo o cancellierato?

«Ho visto che proseguono le audizioni per iniziativa di Giorgia Meloni al fine di trovare un testo condiviso. Mi auguro che quanto prima lo si trovi».

Se oggi dovesse tenere il discorso sullo stato dell’unione dell’Italia che immagine userebbe?

«L’immagine positiva di un Paese che sta crescendo e che ha voglia di lavorare».

Qualcuno ha parlato di un Paese infiammato, in preda a un’infezione.

«Non vedo niente di tutto questo. Vedo invece una presidente del Consiglio sempre più autorevole, in Italia e fuori. Poi c’è la contestazione della sinistra che continuando ad agitare la bandiera scolorita dell’antifascismo si mostra incapace d’immaginare un programma di governo. Perciò cerca ogni occasione per innescare una manifestazione di protesta o l’altra. È la dimostrazione di grande debolezza».

Questa infiammazione viene accesa da chi paventa il pericolo del ritorno del fascismo?

«È un’arma sempre più spuntata. Quando la premier va in giro per il mondo e in Europa nessuno si attarda su questi problemi di retroguardia».

L’ultimo appiglio è la nomina di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione Antimafia perché ritratta in una fotografia con un condannato per la strage di Bologna.

«È il tentativo di trasformare un piccolo caso nella dimostrazione di un teorema. A che serve una polemica che dura un giorno?».

È soprattutto il mondo intellettuale a ribadire queste accuse?

«Trovo che il mondo intellettuale di sinistra sia pigro, incapace di produrre idee nuove e invece molto ripetitivo di formule e parole d’ordine che non hanno seguito nella società civile. Nessuno in Italia si infiamma per la rinascita del fascismo. Ci sono temi ben più concreti. Per esempio, qualche giorno fa al Senato si è parlato del ponte sullo stretto di Messina e mi chiedo come il Pd abbia potuto votare contro una struttura che modernizza e unifica il Paese, liberando la Sicilia dalla condizione insulare».

Qualche esponente istituzionale come il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano o il presidente del Senato Ignazio La Russa potrebbe essere più misurato nelle sue esternazioni?

«Probabilmente sì. È anche vero che, insomma, sono persone sempre attese al varco e qualsiasi espressione usino viene sezionata e utilizzata per altri fini. Nelle sue iniziative, il ministro Sangiuliano si mostra sempre aperto alla discussione e non fazioso».

Sembra anche a lei che il conflitto sia più acceso sul terreno della cultura e dell’antropologia che su quello dell’attività di governo in senso stretto?

«Tra i due schieramenti ci sono differenze culturali e politiche non sanabili in materia di legislazione etica, sulla quale il governo pone giustamente dei confini che non possono essere superati. La ministra Eugenia Roccella fa bene a insistere su questo punto: un governo conservatore non può violare i principi della tradizione. Di più: non usare gli altri come mezzo di soddisfazione dei propri desideri è un principio laico. Che, nel caso della pratica dell’utero in affitto, viene palesemente violato dalla trasformazione delle donne in incubatrici».

Il dibattito non avviene in Parlamento perché la maggioranza è blindata e l’opposizione manca di leader all’altezza?

«L’opposizione mostra di non avere progetti concreti alternativi. Salvo alcuni no pregiudiziali, nulla viene elaborato e portato in Parlamento dalla sinistra. L’esempio più macroscopico è quello delle riforme istituzionali. Sulle quali il Pd è arretrato anche rispetto alle stesse posizioni del suo recente passato. È come se rinnegasse la necessità di fare queste riforme e avesse scelto come unica alternativa il dire no».

Come giudica la novità rappresentata da Elly Schlein?

«Personalmente trovo che questa novità non sia ancora sbocciata. Non si sia palesata. Non ho capito a che tipo di partito Elly Schlein stia lavorando. Ridurlo alle battaglie per i diritti delle minoranze, al gender, le famiglie arcobaleno e la maternità surrogata mi sembra troppo poco per un partito di opposizione di tradizione socialista. Davvero troppo poco».

Le è piaciuto il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni?

«Sì, mi è piaciuto. Ma mi ha anche un po’ stupito perché Mattarella ha parlato di diritti individuali diversi dai diritti delle etnie, cioè comunitari o sociali. Questa è una tipica e classica posizione liberale, che stavolta ho sentito propugnare da un uomo di cultura cattolica».

L’autore dei Promessi sposi era contrario alla difesa delle radici e della nazione?

«Non credo, è uno dei padri del Risorgimento italiano. Quindi, come per Manzoni anche per altre figure dell’epoca, la nazione e la patria erano punti fermi irrinunciabili».

In Marzo 1821 l’Italia è vista «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor».

«È l’elogio della patria, madre di tutti gli italiani. L’elogio della nazione italica, un tipico concetto risorgimentale».

La parola tabù è «etnia». Si può difendere la propria identità senza che significhi propugnare «una supremazia basata sulla razza»?

«Sarebbe come dire che una persona che ami la patria e sia perciò un patriota sia necessariamente un suprematista. Non è così. La parola etnia fa riferimento alla storia. Non c’è nulla che riguardi la razza. È come quando, per esempio, si parla, con espressione analoga, di genio italico. È un modo di far riferimento alla caratteristica di un popolo».

Perché parlando di cucina, di ristoranti, di musica, persino di arredamento, l’aggettivo etnico rappresenta un valore aggiunto?

«Perché indica la ricchezza di elementi che qualificano le specificità di un popolo che non hanno nulla di negativo in sé. Tuttavia, come accade, se si parte dal presupposto che una data persona è fascista, qualsiasi espressione usi se ne trova la conferma. Alla fine osservo che la discussione su questi temi è così misera da interessare solo qualche personaggio di bassa levatura».

L’infiammazione diffusa nell’organismo del nostro Paese attraversa le piazze e le istituzioni culturali. Che cosa pensa delle proteste dei giovani di Ultima generazione?

«Sono manifestazioni assai minoritarie che ci sono sempre state ora su un tema ora su un altro. Salvo condannarne le modalità e perseguire i reati quando siano commessi, il resto lo lascerei perdere».

Anche la discussione sulle cause dell’alluvione ha un retroterra ideologico: da una parte ci sarebbe il cambiamento climatico dall’altra l’incuria del territorio.

«È così. In molti dibattiti vedo più ideologia che scienza. Su questi argomenti sappiamo molto poco e tanti scienziati seri come il professor Franco Prodi si affannano a dire che non abbiamo evidenze specifiche forti. Purtroppo questo messaggio di prudenza scientifica non passa perché l’ideologia è prevalente. Oggi l’ecologia è una nuova religione, un atto di fede».

Un altro fronte è la protesta contro il caro affitti condotta dai giovani delle tende. Con i precedenti governi gli affitti erano a buon mercato?

«Non lo erano neanche allora e le famiglie si sono sempre arrangiate. I costi degli affitti per gli studenti sono un oggettivo problema delle nostre università. Occorrerebbero atenei con degli alloggi, ma questo desiderio si scontra con il fatto che le nostre università costano poco e non offrono molto in termini di servizi».

La contestazione di una trentina di attivisti ha impedito di presentare un libro al Salone del libro, il bellissimo Una famiglia radicale di Eugenia Roccella, ma si ripete che il governo non tollera il dissenso.

«Cosa del tutto falsa, perché il ministro Roccella è persona preparata e che merita rispetto soprattutto quando espone le sue idee e chiede un confronto. In quell’occasione un gruppo minoritario e senza particolare valore ha rifiutato di confrontarsi. Ancora una volta mi hanno stupito quelle forze politiche che hanno utilizzato ciò che è avvenuto per dimostrare la natura fascista del governo. Eugenia Roccella porta un messaggio molto semplice e condiviso anche dai laici, e cioè che le donne dovrebbero essere rispettate e non usate».

La mancanza di tolleranza del dissenso da parte del governo sarebbe dimostrata dal tentativo di rimpiazzare l’egemonia culturale della sinistra.

«Se così fosse sarebbe un’operazione legittima, non vedo perché l’egemonia debba essere solo di sinistra. Ma anche in questo caso si ripropone il pregiudizio, ovvero che l’intellighenzia e la cultura siano solo di sinistra. Questo è un paradosso però, perché se sei un uomo di cultura non dovresti sottrarti al dibattito come ha proposto la Roccella».

Si riferisce all’intervento del direttore del Salone Nicola Lagioia?

«Si è comportato in maniera ambigua. Poteva essere più coraggioso e sentire meno il fiato che ha sul collo della cultura di sinistra di riferimento».

Lo spoil system e le nomine in Rai sono un modo per affermare questa nuova egemonia?

«Avevo ancora i pantaloni corti che già si parlava di spoil system».

L’attuale squadra di governo è in grado di reggere culturalmente questo tipo di conflitti?

«Suggerirei all’attuale classe di governo di essere più consapevole di sé e più coraggiosa. Bisogna elaborare posizioni e difenderle. Soprattutto liberarsi dall’idea, che è solo italiana, per cui essere conservatori equivale a essere nostalgici. Talvolta ho l’impressione che anche nell’ambito della destra quando si parla di cultura si individuino figure degne solo tra gli intellettuali di sinistra. E questo è un errore perché è falso».

 

La Verità, 27 maggio 2023

 

 

«L’utero in affitto, orrore che mortifica le donne»

Femminista e cattolica. Da quando Eugenia Roccella è ministro per le Pari opportunità, la natalità e la famiglia del governo Meloni i media ce la disegnano dogmatica e sempre in trincea. In realtà, è figura complessa e sfaccettata. Giornalista, figlia di Franco, già capo dell’Ugi (Unione goliardica italiana) e fondatore del Partito radicale all’interno del quale animò accesi dibattiti con Marco Pannella, anche lei militò in quel partito prima di avvicinarsi alla fede cristiana. Un saggio della sua eleganza si è avuto qualche domenica fa su Rai 3 in quel «vedo che si coinvolge» lasciato cadere davanti all’incontinente Lucia Annunziata: «E fatele queste leggi, cazzo!». Se si vuole provare il piacere di leggere Una famiglia radicale (Rubbettino), oltre a una biografia particolarissima si scoprirà uno spaccato dell’ultimo cinquantennio italiano.

Questo libro è nato prima che si profilasse l’idea di diventare ministro?

«Sì. Pensavo ormai di aver abbandonato la politica e durante il lockdown avevo iniziato a scrivere. Se avessi saputo che sarei tornata con un impegno così importante non credo che l’avrei pubblicato. È un libro molto privato».

Fonte di problemi?

«No, semplicemente comporta un altro tipo di esposizione. Avevo deciso di scriverlo per due motivi. Il primo è che mi veniva spesso chiesto come, da radicale, si possa diventare cristiana. Il secondo motivo è non disperdere la storia soprattutto di mio padre, ma anche di mia madre, nelle vicende del nostro Paese. Lui non ha lasciato quasi niente di scritto, eppure un gran numero di testimoni e di storici come Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina gli riconosce ampio credito intellettuale nella stagione dell’Ugi e del Pr».

Lei ha avuto un’infanzia e un’adolescenza singolari, con un padrino di battesimo e una madrina di comunione leader radicali.

«Non credo che Sergio Stanzani, futuro segretario del Pr, e Liliana Pannella, sorella di Marco, siano entrati altre volte in chiesa dopo averlo fatto per me. La mia è stata un’adolescenza trasgressiva opposta alle normali trasgressioni. Io lo ero se andavo in chiesa, al punto che lo facevo di nascosto dai miei. Il battesimo fu un’imposizione su mio padre di mia zia che mi aveva educato fino allora. Lui, come contropartita, impose un padrino ferocemente anticlericale».

E la comunione?

«Fu una mia scelta. Avevo già incontrato proprio a scuola la fede, grazie a un sacerdote che mi aveva avvicinato ai vangeli di cui ero digiuna. Mi si era aperto un mondo. Come madrina di cresima mia madre m’invitò a scegliere un’amica cui ero affezionata e io indicai la sorella di Pannella. Vivevo una situazione ambivalente: immersa in un mondo laicista e antireligioso, ero sotterraneamente attratta dal cristianesimo. Quando gli chiesi il permesso di accedere alla comunione, da siciliano più che da laico e radicale, mio padre disse che per una donna non era male essere cattolica».

Quanto ha pesato nella sua vita la vicenda di sua sorella Simonetta, abbandonata nell’incubatrice e mai più ripresa dai suoi genitori?

«È una vicenda tragica, difficile da elaborare. Un fatto che ho ricostruito dolorosamente negli anni. E che comprende una riflessione che, partendo dalla mia famiglia, coinvolge il pensiero oggi dominante».

Qual è questo pensiero?

«L’idea che la vita non sia la costruzione della coscienza, ma la ricerca della realizzazione attraverso l’assolvimento dei propri desideri. Io auspicavo che questa ricerca di libertà venisse accompagnata dalla responsabilità personale. Invece, non fu e non è così. A causa di quella cultura, nessuno si incaricò della sopravvivenza di mia sorella. Ma non do colpe ai miei genitori».

Ci vuole molta misericordia.

«Anche il mio affidamento alla zia e l’anoressia successiva nacquero in quella cultura. Mio padre e mia madre erano persone generose, calde, affettivamente ricche. Ci adoravamo. Non porto rancore ai miei genitori. Sono grata perché lo sono stati, anche se nessuno dei due avrebbe voluto esserlo. Ma quell’individualismo può lasciare  intorno a sé morti e feriti. Nel caso di mia sorella, letteralmente».

Dall’appoggio alla clinica gestita da Adele Faccio e Giorgio Conciani alla sua posizione di oggi sull’aborto cos’è successo?

«Si è capovolto un mondo. Da ciò che erano all’epoca la condizione della donna, il diritto di famiglia e la discriminazione degli omosessuali c’è stato un rovesciamento totale. Ho seguito questo percorso rimettendo al centro i veri bisogni dell’uomo sui quali m’illuminò Pier Paolo Pasolini quando previde il tradimento degli intellettuali progressisti che avrebbero accolto i diritti civili in un contesto di “ideologia edonistica e falsa tolleranza” escludendo “ogni reale alterità”».

Come riemerse la fede che non aveva più coltivato?

«La fede c’era, chiusa in un cassetto dove l’avevo accantonata come elemento incongruo al contesto. Riemerse durante la malattia di mia madre. Standole vicino mi ritrovai a pregare».

Perché lasciò il Partito radicale?

«Quando mia madre si è ammalata mi stavo già allontanando dal Pr e da Pannella. Non mi riconoscevo nella svolta ideologica che avevano intrapreso».

Si può essere femminista e cattolica allo stesso tempo?

«Certamente. Il cristianesimo pone le basi culturali della pari dignità delle donne, nella differenza».

Quest’ultima sottolineatura serve a non identificare femminismo e livellamento dei sessi?

«Il femminismo è composto da molte correnti, io appartengo a quella della differenza, che in Italia è stata maggioritaria. Il corpo sessuato è il punto di partenza per valorizzare la differenza. C’è ingiustizia quando due persone uguali sono trattate in modo diverso, ma anche quando due persone diverse sono trattate in modo uguale».

Perché oggi la regolarizzazione dei figli di coppie omosessuali è al centro dell’agenda politica?

«Perché si cerca di occultare il problema dell’utero in affitto».

Perché è importante?

«Perché la maternità viene spezzettata e svilita. Esiste un mercato transnazionale della maternità e dei bambini per cui ci possono essere fino a tre madri».

Quali sono?

«La madre sociale, che alleverà il bambino, la madre genetica che dà gli ovociti, e infine quella che presta l’utero. Nella maternità surrogata si prende sempre l’ovocita da una donna e l’utero da un’altra».

Perché?

«Innanzitutto per evitare contenziosi. Se la madre gestazionale fosse anche la donatrice dell’ovocita, nel caso ci ripensasse e volesse tenersi il bambino, sebbene abbia firmato un contratto di cessione, per qualunque corte sarebbe difficile sostenere che non ne ha diritto. Separare le due funzioni serve a impedire controversie».

E l’unico motivo?

«Ce n’è un secondo. Per l’ovocita, che trasmette il Dna, la scelta del committente avviene in base alle caratteristiche genetiche che si desidera abbia il bambino, mentre la donna che porta avanti la gravidanza viene selezionata con altri criteri».

Una pratica razzista?

«Si sceglie sul catalogo il colore della pelle, degli occhi, dei capelli, la statura, il quoziente d’intelligenza. Lascio a lei dire se sia un comportamento razzista. In questi cataloghi le persone bianche hanno un costo superiore».

La battaglia condotta dai sindaci riguarda in prevalenza le coppie di donne per le quali non necessariamente si ricorre all’utero in affitto.

«I sindaci sono pubblici ufficiali e la nostra legge stabilisce due modi di filiazione, biologico o adottivo. Non ce n’è un altro».

Come ci si regola nei casi di due donne con un figlio del precedente matrimonio eterosessuale?

«Seguendo la legge italiana tutti i bambini avrebbero una mamma e un papà. Quando le coppie tornano da pratiche di fecondazione non consentite nel nostro Paese, la registrazione del genitore biologico è automatica. Da quel momento il bambino gode di tutti i diritti, come accade per le mamme single. Non vedo in piazza madri single, con un figlio non riconosciuto dal padre o vedove. Eppure, se si vuole il riconoscimento del nuovo compagno o compagna, anche loro devono seguire la procedura adottiva in casi speciali».

Il governo è accusato di fare scelte ideologiche.

«Il governo in carica non ha fatto nulla di nuovo. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha chiesto che venisse rispettata la legge in vigore. Che è sempre la stessa, e la sinistra ha avuto tutto il tempo per cambiarla, ma non l’ha fatto. La sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione del 30 dicembre 2022 recita: “L’automatismo del riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore di intenzione sulla base del contratto di maternità surrogata e degli atti di autorità straniere che riconoscono la filiazione risultante dal contratto, non è funzionale alla realizzazione del miglior interesse del minore, attuando semmai quello degli adulti che aspirano ad avere un figlio a tutti i costi”».

Perché il Parlamento europeo ha approvato un emendamento che invita l’Italia a regolarizzare i figli di coppie omogenitoriali?

«È un pronunciamento solo politico perché il certificato europeo di filiazione dei figli fatti all’estero con la maternità surrogata è stato bocciato dal Parlamento italiano. Ma anche dal Senato francese, con l’esplicita motivazione che favorirebbe l’utero in affitto».

Perché vi ricorrono più di frequente le coppie eterosessuali?

«Le coppie etero possono mascherare il ricorso alla maternità surrogata. Ma è un mercato da estirpare sia che riguardi coppie omo che eterosessuali».

Cosa pensa del caso di Anna Obregon, l’attrice che è ricorsa all’utero in affitto nel quale è stato impiantato un ovocita fecondato dal seme del figlio morto?

«Non mi piace dare giudizi sui comportamenti personali. Vorrei dire però che casi del genere saranno sempre più frequenti e inevitabili, se si continua a considerare ogni desiderio individuale un diritto».

Con Elly Schlein segretaria del Pd si profila un lungo periodo di scontro?

«In passato al Parlamento europeo non ha votato un emendamento contro l’utero in affitto. Vedremo come si comporterà il Pd di fronte alla proposta di Carolina Varchi di Fdi che, pur senza aggravare le pene, chiede di perseguire la maternità surrogata anche se praticata all’estero».

A fronte dell’espandersi della cultura dei diritti il recupero di un’antropologia tradizionale è una battaglia di retroguardia?

«È una battaglia di avanguardia e di salvaguardia. Il rifiuto di queste pratiche e di questa cultura non deriva innanzitutto da un giudizio etico, ma dalla necessità di conservare l’esperienza umana con tutta la sua ricchezza e tutti i suoi limiti».

 

La Verità, 8 aprile 2023