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«Io e Ricci, la più longeva simbiosi della satira»

Lorenzo Beccati non si vede mai, ma è popolarissimo. Forse non di nome, ma per la voce, che è quella del Gabibbo di Striscia la notizia, di cui è autore storico. Genovese di nascita, residente ad Alassio, la città di Antonio Ricci con il quale lavora da quarant’anni, Beccati si sta ritagliando uno spazio anche come scrittore di thriller storici, grotteschi, gialli. L’ultimo romanzo, pubblicato da Oligo editore, s’intitola Uno di meno, ed è ambientato nella Genova del 1600.

Quando e perché ha cominciato a scrivere?

Quando facevo cabaret nei teatrini con il mio gruppo, i Cospirattori, scrivere era una necessità. Parliamo degli anni Settanta. Visti i buoni risultati, altri comici mi hanno chiesto di farlo per loro. Ho collaborato a lungo con Gigi e Andrea e Pistarino. Ci sono autori che suggeriscono idee e fanno una scaletta. Io e Ricci siamo della vecchia scuola, ligi al copione parola per parola. Una puntata del Drive in era una roba di 50-60 pagine. Siccome poi ho sempre amato i libri, a un certo punto ci ho provato.

Perché romanzi storici?

All’inizio erano libri umoristici… Poi ho cominciato a incuriosirmi alla storia di Genova, ai carruggi… Ho scoperto il 1600, il secolo delle Repubbliche marinare e della nascita delle banche. Ho consultato testi antichi, frequentato gli archivi di Stato e ora mi sento a casa in quell’epoca. Uno dei primi romanzi, Il guaritore di maiali, vendette discretamente ed è stato tradotto in Germania. Così, ho proseguito.

Dietro la trama di fantasia c’è molta documentazione?

La base è la storia reale. Nell’ultimo romanzo c’è un Doge durato appena 40 giorni, il dipinto di Bernardo Strozzi della ragazza che spiuma le oche, «il genovesino», un tipo di coltello… Un attore scrive il monologo e poi improvvisa. Anche nel romanzo storico c’è ambiguità, realtà e fantasia si mescolano come nella comicità. Nelle note finali preciso cos’è reale e cos’è finzione.

Quando trova il tempo di scrivere?

Durante l’anno sarebbe impossibile. Ma d’estate, ad Alassio, cedo raramente al piacere del mare e mi dedico alla scrittura.

Serve a decantare lo stress del lavoro di autore tv?

Diciamo che è un lavoro più interiore, mentre quello di Striscia è collettivo, di condivisione di testi che innescano il monologo del comico o chiudono i servizi. Striscia è centrata sull’attualità, io mi rifugio nella storia. Sono diversi anche i tempi: pochi minuti in tv, orizzonti ampi nei romanzi. Anche se i miei non sono bestseller, ho un pubblico di fedelissimi. Ultimamente capita spesso che qualcuno di loro mi chieda di firmare copie dei miei primi libri.

Con la letteratura cerca la visibilità che il lavoro di autore non dà?

Assolutamente no. Innanzitutto perché come autori si è conosciuti. E poi, se mi fosse interessata la visibilità, avrei potuto continuare a fare il cabarettista. Mi è più congeniale stare dietro le quinte. Infine, interpretando il Gabibbo sono conosciuto pur non apparendo. Anche Antonio, che sul palco era molto bravo, quando s’impose Beppe Grillo scelse di cambiare vita e concentrarsi sui testi. Dal Drive in a oggi sono passati quarant’anni: salvo pochissime eccezioni, come autori si dura di più dei comici.

È molto duraturo anche il suo matrimonio professionale con Ricci.

Ci siamo conosciuti in vacanza, ma non ci siamo subito frequentati. All’inizio degli anni Settanta Antonio si esibiva con sua sorella Cecilia nel teatrino di Piazza Marsala a Genova. C’erano anche Paolo Poli e Paolo Villaggio. Io iniziai al Teatro Instabile, si chiamava così in polemica con lo Stabile di Genova e anche perché ci cacciavano spesso. C’erano Tullio Solenghi e Beppe Grillo… Non avevo ancora 18 anni.

Come arrivò a Drive in?

Scrivevo i testi di Pistarino e Ricci mi chiese di collaborare con continuità. Era il settembre del 1984, da allora lavoriamo gomito a gomito.

Che esperienza è lavorare con uno così?

È imparare da un genio, da una persona che va a caccia della verità. Anche quando montiamo i servizi, c’è sempre grande rigore. Ricci è uno che la satira ce l’ha «pronta beva», come diciamo noi.  Conosce i meccanismi della comunicazione come nessun altro. Satira e comunicazione sono una vena inesauribile nella quale gli autori hanno grande possibilità di inventare e creare satira.

Mai pensato di fare nuove esperienze?

E perché mai? A qualcuno può sembrare che esageri, ma il lavoro a Striscia è appagante.

Conducete una vita monacale.

Iniziamo alle 9,30 e finiamo alle 21,30, dopo la messa in onda. L’indomani ricominciamo da capo, come le casalinghe. Dove sono gli inviati, cosa scrivono gli autori, a chi porta il Tapiro Valerio Staffelli… Stiamo sempre sul pezzo, il telefono non si spegne mai. Arrivano centinaia di segnalazioni al giorno.

Anche nei migliori matrimoni ci sono incomprensioni e contrasti: voi?

Discussioni su lavori da correggere, quelle sì. Ma screzi veri mai. C’è grande rispetto tra persone che si vogliono bene. Se non fosse così, all’età che abbiamo e non avendo figli potremmo anche separarci…

Qual è stata la soddisfazione più grande come autore?

Impossibile dirlo perché è un lavoro gruppo. Non lo potrebbe dire nessuno. Abbiamo fatto tante campagne importanti, da Vanna Marchi alle mascherine anti Covid, ma è tutto condiviso.

Come dividerebbe le percentuali del successo di Striscia la notizia: genialità di Ricci, lavoro di squadra, documentazione…

La direzione e la capacità di Antonio conta per il 50%. La ricerca maniacale della verità il 20%. L’appoggio del pubblico e le segnalazioni esterne il restante 30%. Il contributo della gente è importante per trovare le notizie e partire con le campagne o i tormentoni.

Cosa fate quando arrivano le segnalazioni?

C’è un gruppo di persone che le vaglia e fa le prime verifiche. Poi incarichiamo gli inviati sul territorio di approfondire. Il 90% delle segnalazioni è vero. Infine, c’è il lavoro degli autori, una dozzina in totale.

Quanto conta il talento e quanto l’applicazione?

Il talento non si insegna, l’applicazione sì. Bisogna stare sul pezzo, lavorare di lima. Ci sono anche gli impiegati della risata perché la battuta, in fondo, è una formula matematica. Ma è il talento a fare la differenza.

Ricci legge i suoi libri?

È il primo a riceverli e in pochi giorni mi dà il suo giudizio. Non ama i gialli, Il pescatore di Lenin è il suo preferito. Una volta mi ha preso in castagna su un cantante lirico che avevo descritto come tenore, invece era un baritono.

Ha già in mente il prossimo?

Mi sono incuriosito al filetto alla Voronoff, scoprendo che Serge Voronoff fu un famosissimo chirurgo e sessuologo, un uomo molto ricco del secolo scorso. Si era occupato del ringiovanimento sessuale maschile attraverso l’innesto dei testicoli di scimpanzè. Ha vissuto in un grande castello a Ventimiglia fino al 1939, quando fu costretto a fuggire in America. Tornò a guerra finita e rimise a posto il castello bombardato. Ora è un bad&breakfast di lusso.

Ha mantenuto i rapporti con il gruppo di comici dei primi anni?

Con Grillo non ho mai avuto rapporti diretti. Ogni tanto vedo quelli del Drive in, seguo gli spettacoli di Solenghi, di Pistarino, di Sergio Vastano e leggo i libri di Enzo Braschi. Mi manca molto Giorgio Faletti.

 

Panorama, 27 aprile 2022

«Insegno a scrivere con l’aiuto di Brian Eno»

Giulio Mozzi è nato a Camisano Vicentino nel 1960 e vive a Padova. Dopo il liceo, grazie a un corso per dattilografi, è entrato in Confartigianato. Nel 1989 si è fatto assumere come magazziniere alla Libreria internazionale Cortina. Dal 1993 ha iniziato a tenere corsi di scrittura creativa. In quello stesso anno ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti. Nel 1996 La felicità terrena è finalista al premio Strega. Dal 1997 la scrittura e «attività collegate» diventano la sua professione. È stato consulente di importanti case editrici, da Theoria a Einaudi, attualmente lo è di Marsilio. Ha fondato Vibrisselibri, bollettino di letture e scritture online, creato la Bottega di narrazione e scoperto o consacrato alcuni tra i maggiori talenti narrativi degli ultimi anni (tra loro Tullio Avoledo, Leonardo Colombati, Vitaliano Trevisan). Su YouTube si trovano sue lezioni e bizzarri video come Tutta la verità su Giulio Mozzi, 90 secondi in cui scorrono avvertenze e titoli di coda senza che si veda un’immagine o si legga una nota biografica.

Siccome a volte risponde con un’altra domanda, intervistarlo è un gioco enigmistico, una caccia al tesoro con tante retromarce. Come lo è la lettura di Oracolo manuale per scrittrici e scrittori, sagace saggio, appena pubblicato da Sonzogno, sull’arte della narrazione, e composto da 200 massime stampate in grassetto sulla pagina di destra e brevemente spiegate su quella di sinistra.

Perché il suo libro non ha le pagine numerate?

«Perché sarebbe stato brutto da vedere. Il suo modello non sono altri libri, ma un mazzo di carte».

Com’è nata l’idea?

«Un giorno, sul treno diretto a Venezia per andare in Marsilio, riflettevo sul fatto che per le mie lezioni uso le Strategie oblique di Brian Eno e Il piccolo libro delle risposte di Carol Bolt. Sono curiosi manuali i cui suggerimenti, anche se non immediatamente utili, fanno pensare. Perché non fare qualcosa del genere per la letteratura di narrazione? mi son detto. In casa editrice Patricia Chendi mi ha subito incoraggiato. La sera a casa, in un’unica sessione di lavoro, ho buttato giù 170 pagine di massime».

Senza sbirciare le Strategie oblique?

«Tutt’altro. Per coerenza, ho pescato dal mazzo e mi è uscita questa carta: “Preparazione lenta… esecuzione veloce”. La mia preparazione sono 25 anni di scuola di scrittura e le massime sono uscite in poche ore. Quanto più sono “vuote”, tanto più sono versatili. Il segreto è nel fatto che il lettore si accosta con atteggiamento confidente a un gioco che mette in moto l’immaginazione».

L’Oracolo manuale serve per incoraggiare o per dissuadere alla scrittura?

«Serve per mettere alla prova. Poi è il lettore, potenziale scrittore, a decidere».

Non sono troppi gli scrittori o aspiranti tali in circolazione?

«Qual è il criterio per determinarlo? L’incremento nel numero dei lettori e degli scriventi è una conseguenza dell’alfabetizzazione universale. Se qualcuno pensa che sia un male sono problemi suoi».

Ci sono quasi più scrittori che lettori in Italia.

«Li ha contati? Se no, è una supposizione priva di sostanza».

Ha sostanza il fatto che pile di libri restino intonsi negli scaffali e che l’Italia abbia un indice di lettura tra i più bassi d’Europa?

«Sono problemi dell’industria editoriale non degli scrittori».

Quanti vivono davvero di scrittura?

«Non conosco le dichiarazioni dei redditi dei miei colleghi. Tanti vivono di attività connesse, io per primo. Non è scritto da nessuna parte che la scrittura debba essere una professione di cui campare. Ha senso che lo sia per i giallisti, gli autori di noir o di fantascienza, per altri generi ce l’ha di meno».

Le scuole creano scrittori d’allevamento?

«Bisognerebbe prendere un po’ di libri scritti da persone passate per le scuole e vedere se è davvero così».

Secondo lei?

«Non lo so perché è un lavoro che non ho fatto. Si dovrebbero considerare i libri scritti, non solo quelli pubblicati, perché su questi interviene il lavoro degli editori».

Ho condiviso un tweet che diceva: «Sono l’unica persona che conosco che non ha scritto un libro e non si è fatta un tatuaggio»: meglio un brutto libro scritto in meno e un bel libro letto in più?

«Il fatto che ci siano i divorziati non significa che sia insensato innamorarsi. Quanta gente ogni giorno cucina per sé, per la famiglia, per gli ospiti senza essere uno chef? Togliamo alla scrittura l’aurea che l’avvolge, è una cosa normale come cucinare o fare due chiacchiere al bar. Dopo di che ogni scritto avrà la circolazione che si merita. L’industria deve selezionare e pubblicare opere belle o di successo per pagare gli stipendi. Meglio ancora se sono sia belle che di successo».

Come le venne l’idea di creare una scuola di scrittura nel 1993?

«Me lo chiesero quelli del circolo Arci Lanterna magica, non ci avevo pensato io. Sono il rampollo di una famiglia colta, ho sempre parlato italiano e scritto bene. A scuola la principale differenza tra chi scriveva bene e chi male era il reddito, ma gli insegnanti dicevano che la scrittura è un dono, c’è chi ce l’ha e chi no».

Invece, non è un dono?

«Sì, della cultura di famiglia e del reddito. Sono figlio di biologi, non di letterati. Siccome la scuola ha abdicato a questo compito, bisognava che qualcuno se lo assumesse. Da quando ho iniziato a insegnare le cose sono cambiate e anche la scuola è tornata a preoccuparsi della scrittura».

Quanto sono determinanti le radici e il posto in cui si nasce?

«Mi ricordo bambino, seduto sul tappeto del salotto di casa a Sottomarina di Chioggia. I miei genitori leggevano il Corriere della Sera, Epoca e Grazia, mio fratello maggiore il Corriere dei piccoli, mia sorella Michelino e io Miao. La televisione arrivò tardi, ascoltavamo molta musica e la mia aspirazione era crescere per cominciare a leggere Michelino, poi il Corriere dei piccoli…».

Come scopre talenti letterari?

«Le racconto un aneddoto. Il 30 aprile 1988 lavoravo ancora in Confartigianato ed ero a Roma per un convegno. Un pomeriggio libero entro in una libreria e m’incuriosisce un libriccino di poesia: l’autrice è romana ed è nata nel 1970, perciò ha pubblicato quei versi a 17 anni. Vado alla Sip per consultare la guida telefonica trovando che in città solo otto persone hanno il suo cognome. Dopo un’ora sto bevendo il caffè offerto dalla madre. Lei rincasa poco dopo, è stata dalla parrucchiera per prepararsi al diciottesimo compleanno per il quale la zia le ha regalato quella pubblicazione da un editore a pagamento. All’inizio è diffidente davanti a un estraneo piombato in casa… Ma da lì comincia un rapporto epistolare che dura tuttora, migliaia di lettere. Lei è Laura Pugno, poetessa e scrittrice entrata nella cinquina del Campiello e direttrice dell’Istituto di cultura italiana di Madrid. Queste vicende mi appagano».

Perché?

«Perché quando leggo qualcosa di bello mi appassiono e cerco di stabilire un rapporto. Non mi sono mai particolarmente emozionato per la pubblicazione dei miei libri, ma la prima volta che ne ho preso in mano uno che avevo patrocinato mi sono fatto un pianto».

Cosa intendeva dire quando, intervistato da Pangea, ha confessato che la sua migliore qualità «è aver smesso di scrivere»?

«I giocatori d’azzardo più abili sono quelli che sanno fermarsi al momento giusto. Negli anni precedenti avevo pubblicato molti racconti e mi sembrava di aver finito. Così mi sono cimentato con altri generi».

Come in 10 buoni motivi per essere cattolici?

«Sì. Dopo una conversazione con una persona che, pur professandosi cattolica praticante, sosteneva che la Chiesa non annunciava la resurrezione della carne, con Valter Binaghi – già autore di Re nudo, convertito e grande amico – abbiamo deciso di scrivere questo libello. Avevamo realizzato che il cristianesimo è la religione più sconosciuta d’Italia».

Coraggiosi, chissà che reazioni.

«Un po’ di rumore e qualche discussione con Michela Murgia».

I romanzi che restano nascono da una tecnica o da esperienze forti, conflitti, solitudini, ossessioni?

«Rispondo a una domanda che non mi ha fatto: la tecnica è insegnabile e può essere oggetto di un’attività didattica, tutto il resto è educabile e può essere oggetto di una pedagogia».

La pedagogia c’entra con l’essere, la didattica con l’esercizio.

«Il lettore di romanzi dà credito a una storia che sa essere inventata. L’autore di romanzi dà credito a una storia che inventa o almeno trasfigura».

Qual è la sua diagnosi sullo stato di salute dell’italiano?

«Ogni lingua evolve. La natura sintetica della lingua italiana è stata stabilita attraverso atti di governo. Mentre constatiamo che c’è un’osmosi interessante tra italiano e dialetto, la capacità di assorbire le lingue di chi viene in Italia – romeni, albanesi, asiatici – è piuttosto ridotta».

In compenso, grazie alla tecnologia e alla pubblicità, ormai parliamo tutti l’italenglish.

«Che nell’italiano entrino parole di altre lingue non è né un bene né un male, ma un dato di fatto. Poi c’è il gusto personale, per il quale io stesso tendo a sfrondare – francesismo – certi neologismi di uso comune e di scarsa efficacia. Ma non si possono fare leggi per impedire l’uso di parole straniere. Alessandro Manzoni parlava in milanese e in francese, ma la lingua in cui scriveva era un’altra. Possiamo accusarlo di aver contribuito alla distruzione del lombardo perché scriveva in una lingua inventata da lui con influssi di fiorentino?».

Quali sono gli ultimi grandi romanzi italiani?

«Direi Il quinto evangelio di Mario Pomilio, da poco ripubblicato, Tanto gentile e tanto onesta di Gaia Servadio, primo romanzo postmoderno scritto in Italia, e La messa dell’uomo disarmato di Luisito Bianchi, romanzo resistenziale teologico di 800 pagine. Li prediligo per l’innovazione formale e per la potenza della storia. Sono estranei al canone novecentesco, ma questo non è un problema mio».

 

La Verità, 28 aprile 2019

Piperno: «La letteratura non c’entra con le idee»

Fuori diluvia e io e Alessandro Piperno stiamo parlando da oltre un’ora in un bar semibuio di Mantova quando, abbassando ancora il tono della voce, lui confida: «Adesso vorrei essere una zanzara per ascoltare cosa si dicono quelle due ragazze al tavolo di fronte. Oppure, senza bisogno di metamorfosi, sarei curioso di sapere chi è il nostro barista, se è contento di esserlo, se voleva fare un altro lavoro, che vita interiore ha, che lutti ha sopportato. Non trovi che sia interessante? Anche al ristorante, di solito, sono sempre più attratto da quello che sta accadendo agli altri tavoli piuttosto che al mio. Questo m’incuriosisce e c’entra con il mio lavoro: le storie, le persone».

Incontro Piperno al Festival della letteratura, prima della sua conversazione su Philip Roth, che considera il più grande scrittore vivente. Piperno insegna Letteratura francese all’Università di Tor Vergata. Nel 2012 ha vinto il Premio Strega con Inseparabili – Il fuoco amico dei ricordi. Ha scalato le classifiche vendendo centinaia di migliaia di copie. Ha appena pubblicato Il manifesto del libero lettore (Mondadori), un saggio che rivela enorme padronanza della letteratura classica, familiarità con le creature che la popolano, ironia sui tic dell’editoria. Eppure non se la tira. Anzi, appare sempre un po’ spaesato e timoroso di qualche pericolo incombente. Come quello che avvertono molti dei suoi personaggi.

È qualcosa che ha a che fare con la tua cultura ebraica?

«Non so. Sicuramente ha a che fare con alcuni artisti ebrei con i quali mi sento di condividere il talento artistico, oltre ad alcune idiosincrasie. Il mondo mi fa paura. Sto per andare a parlare di una cosa che amo davanti ad alcune centinaia di persone che pagano il biglietto e vorrei avere la spavalderia che vedo in alcuni miei colleghi. Invece ho soltanto timore».

Philip Roth. Per Piperno «il più grande scrittore vivente» (AP Photo)

Philip Roth. Per Piperno «il più grande scrittore vivente» (AP Photo)

Potrebbe essere solo timidezza o la preferenza a stare dietro le quinte?

«Mi sento sempre sotto il giogo di un’intimidazione. Per strada, se una persona mi viene incontro, la prima cosa che penso non è: è un lettore che mi ha riconosciuto o qualcuno che mi chiede un’informazione stradale, ma è qualcuno che viene per farmi del male. Hai presente quei cani che sono stati picchiati e quando provi ad accarezzarli si ritraggono d’istinto? La letteratura è il solo ambito in cui sono libero di esprimermi in modo spregiudicato senza temere di essere spavaldo».

Sei figlio di madre cattolica e padre ebreo. A volte la differenza si coglie nei dettagli: quando entra in chiesa il cattolico si toglie il cappello mentre l’ebreo lo indossa. Tu preferisci indossarlo, hai scelto la ritualità sulla libertà?

«Quel mondo lì mi ha sempre interessato di più. Però sono impastato della cultura cattolica di mia madre, dei suoi sensi di colpa, delle sue intimidazioni morali. Ho anche frequentato una scuola cattolica. Se c’è qualcosa di malsano è proprio l’impasto delle due cose che forse era meglio tenere lontane. Il milieu in cui si svolgono le mie storie somiglia al mondo di mio padre, i demoni che le dominano invece vengono dal mondo di mia madre».

Com’è nata l’idea di questo Manifesto del libero lettore?

«Qualche anno fa, parlando di classici con Antonio Troiano e Piero Ratto del Corriere della Sera, saltarono fuori le fulminanti sintesi di grandi libri di Giovanni Raboni. Pur senza essere Raboni penso di poterlo fare, osservai, anche se non con la sua concisione estrema. Mi piace spiegare qualcosa, non solo suggestionare. L’idea è che è più interessante vedere la narrativa dal punto di vista di chi la fa. Credo si capisca di più di calcio ascoltando Beppe Bergomi che Fabio Caressa».

Impossibile fare patti con i gusti dei lettori?

«Lo è per me e non mi ha mai importato. È impossibile negare di rivolgersi a una certa platea. Ma se questo ti spinge a essere retorico, compiacente, caramelloso o consolatorio il gioco non vale la candela. Soddisfatti e rimborsati non è il mio modo di lavorare».

C’è una predisposizione per meglio assaporare le delizie della narrativa?

«Credo che, come la poesia, la narrativa sia innanzitutto un’esperienza sensuale. Perciò sono convinto che qualsiasi forma di generalizzazione sia un modo infantile di viverla. Tutto ciò che intellettualizza un’esperienza di fruizione artistica è infantile. Mi irrito quando m’interrogano sugli elementi sociologici di un libro. Credo che la letteratura non c’entri niente con le idee e i grandi temi. La narrativa è fatta della bizzarria di certi personaggi, del profilo di un protagonista, dei suoi tic, di un cognome strano… Quando sento dire “questo libro è l’emblema della crisi americana” mi cascano le braccia. Ho voluto esplicitare questo sentimento».

Nel tuo «paese della narrativa» si avverte una certa allergia per critici, uffici stampa, agenti…

«È un’insofferenza che non riguarda solo l’industria editoriale con la quale ho rapporti sporadici. Frequento poco i colleghi e difficilmente i giornali scrivono su di me. Ho sempre avuto questa idiosincrasia verso ciò che è istituzionale e che nel corso degli anni ho visto spesso naufragare. Al liceo non sopportavo i programmi tradizionali: I promessi sposi e Dante insegnati in quel modo gridano vendetta. All’università m’irritavano i colleghi che sentenziavano su certe metodologie critiche come fossero dogmi religiosi. Nell’editoria mal sopporto gli scrittori che pontificano. Sono un tipo mite e nonviolento, però difendo il mio modo di vedere le cose con una certa forza e, spero, arguzia».

Otto scrittori di cui non sai fare a meno: Marcel Proust, Gustave Flaubert, Stendhal, Lev Tolstoj, Vladimir Nabokov, Italo Svevo, Charles Dickens, Jane Austen. Se dovessi sceglierne uno solo?

«Con la testa sceglierei Tolstoj, con il cuore Proust».

Proponi 35 ritratti di personaggi, da don Abbondio a Philip Marlowe, da Mickey Sabbath a Raskol’nikov, con i quali mostri di avere grande familiarità.

«M’indispettisce il fatto che don Abbondio sia considerato l’emblema della vigliaccheria, Raskol’nikov del risentimento giovanile e via così. Credo che queste figure vadano prese con lo stesso piglio con cui si affrontano le persone reali. Perciò ne parlo come fossero mio suocero o mio fratello».

La letteratura può essere una realtà virtuale, autosufficiente, un rifugio, un mondo parallelo?

«Ecco cosa rispose Roth nel 1984 a una domanda simile di un giornalista del Nouvel Observateur: “Anche l’arte è vita, isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita”, ma soprattutto la cosa più bella, “lingua è vita”. Per sua stessa essenza la realtà è un dato soggettivo. Per me un personaggio letterario può essere più reale del mio panettiere».

I personaggi letterari puoi metterli su uno scaffale quando chiudi un libro, le persone le hai davanti. Nel primo caso sei tu che decidi tutto, nel secondo no.

«Tutti viviamo con dei fantasmi che gli altri possono considerare finti. Come le persone che non ci sono più o la persona amata che non hai mai incontrato. Questa è vita esattamente come quella di chi ha un rapporto coniugale normale e non è vero che lo puoi chiudere quando vuoi. C’è interazione tra ciò che avviene là dentro e ciò che avviene qua fuori. La letteratura è uno strumento per comprendere la vita e la vita lo è per comprendere la letteratura».

Segui qualche scrittore italiano in particolare?

«Un amico che stimo molto è Leonardo Colombati. Poi Walter Siti, Michele Mari, Sandro Veronesi. Con Leonardo ho rapporti stretti, con Walter li avevamo prima che andasse a vivere a Milano… Non credo che la narrativa se la passi così male».

Roberto Saviano?

«Mi ha molto interessato. Non per il suo impegno politico, ma per la forza dell’immaginario che possiede e che è notevole».

Quando scrivi?

«La mattina presto. Mi sveglio alle 5 e mezza, un caffè e mi metto a lavorare».

Non di notte?

«Di notte non connetto. Per alzarsi alle 5 bisogna andare a letto presto».

Proustianamente parlando.

«Sì, ma la similitudine si ferma all’orario di coricarsi».

Che rapporto hai con i social e il web.

«Zero. Ho giusto la mail».

Piperno: «Sono drogato di Game of thrones»

Piperno: «Sono drogato di Game of thrones»

E con la televisione?

«Sono videodipendente. Seguo anche il trash delle diete delle messicane che si sposano. Poi sono drogato di serie, dalle più sofisticate alle più cialtrone. Mad man, I Soprano, Good wife, adoro Game of thrones. Guardo i talk show, incazzandomi parecchio perché ho sempre la sensazione che tutti scelgano una posizione pretestuosa in base alla convenienza del momento».

Sorpresa: segui la politica.

«Sono uno da maratone e dibattiti su La7 o altrove. Fatico a identificarmi con un politico, direi che sto in un sistema valoriale ed elettorale vagamente progressivo e progressista. Però non è la politica la mia dimensione. Ritengo che Mickey Sabbath può dire cose più vere di Matteo Salvini».

Hai già in mente il prossimo libro?

«S’intitolerà Ipocrisia e lo sto già scrivendo. Sarà molto lungo e in prima persona. Farò i conti con una parte della mia vita che ho sempre tenuto a bada».

A una collega del Foglio hai confidato: «La mia è una vita di rimessa». C’è qualcosa che lenisce il tuo nichilismo?

«Quando la mia compagna legge le mie interviste non mi riconosce e dopo poche righe le abbandona perché c’è una discrepanza con la vita che facciamo. La luce viene dalla vita stessa: quella che conduco ha i suoi lati edonistici, il cibo, il sesso, la natura. Non percepisco l’accezione negativa del nichilismo. Anche se sono convinto che la vita non abbia un senso, cerco di viverla nel miglior modo possibile. E, a volte, la trovo gradevole».

La Verità, 10 settembre 2017