Tag Archivio per: Ronaldo

«Al nostro calcio malato serve la cura Armstrong»

Sarebbe il leader perfetto del Paj, Partito anti Juventus. Che lui correggerebbe in Pcp, Partito calcio pulito. Un partito che ha un certo seguito tra le tifoserie, un po’ meno sui media ufficiali che, pur con mille, giuste prudenze, ci informano sull’inchiesta che la Procura di Torino ha aperto sui bilanci della Juventus football club. Gag a parte, Paolo Ziliani è il massimo fustigatore del malcostume (juventino) nel gioco più amato dagli italiani. Laureato in psicologia a Padova, inizia come giornalista al Guerin sportivo, passa al Giorno, dov’è autore di un’esilarante rubrica sui cronisti di Novantesimo minuto. Infine approda a Mediaset. Attualmente collabora con il Fatto quotidiano, vive buona parte dell’anno a Cascais, in Portogallo, e nel 2020 ha pubblicato Cristiano Ronaldo nel paese degli Agnelli (Indiscreto), un libro che aveva previsto molte delle accuse di cui si legge in questi giorni.

Ziliani, lei è il giornalista sportivo meno stupito del mondo?

«Potrei rispondere di sì, per farmi bello, ma direi una bugia. Salvo pochi casi clinici, 99 giornalisti sportivi su 100 sanno perfettamente cos’è successo e cosa succede nel calcio italiano. Semplicemente, di norma preferiscono raccontare Alice nel paese delle meraviglie».

Che cosa aveva previsto di ciò che sta accadendo alla Juventus?

«Io non prevedevo: osservavo e scrivevo. Senza prove, perché non sono un magistrato e non posso intercettare, perquisire, mettere cimici. Ma faccio un esempio. Oggi i pm torinesi contestano alla Juventus la galassia di “club amici”, parola di Arrivabene, come Sampdoria, Sassuolo, Atalanta, Empoli, Udinese che colludono con la Juventus in giochi di mercato spericolati e altro. Bene. Nel luglio 2020 scrivevo per il Fatto quotidiano di Audero acquisto più costoso della storia della Samp, di Mandragora acquisto record per l’Udinese, di Sturaro per il Genoa, di Zaza per il Sassuolo, di Orsolini per il Bologna, di Cerri per il Cagliari. Tutti giovani pagati alla Juventus come fuoriclasse. Di pezzi-denuncia come questo ne ho scritti cento».

Tra plusvalenze fasulle, manovre occulta-stipendi e scritture private, come quella di Cristiano Ronaldo, quali sono i reati più gravi?

«Tutti. Quelli finanziari perché la Juventus, truccando sistematicamente i bilanci, ha falsato ogni stagione il principio dell’equa competizione. Agnelli comprava chi voleva, Higuain, Ronaldo, De Ligt, Vlahovic, mentre la concorrenza cedeva i campioni senza poterli sostituire; e i reati etici, imperdonabili. Per dire, Fabio Paratici faceva la campagna acquisti per la Juventus, ma condizionava anche quella di Atalanta, Sassuolo e altri club. Chiedo: c’è uno scudetto pulito nei nove vinti dalla Juventus dal 2012 al 2020?».

Il peccato originale di questa seconda inchiesta è stato l’acquisto fuori misura di CR7?

«Direi che l’operazione Ronaldo, che tra ammortamento e stipendio costava 81 milioni a stagione, ha portato tutti alla disperazione anche perché la squadra giocava male e naufragava regolarmente in Champions, il sogno a occhi aperti di Agnelli. Ma era scandaloso tutto, Alex Sandro che guadagna 6 milioni, Arthur che ne guadagna 7».

Come funziona la carta privata di Ronaldo, che adesso chiede il pagamento di quasi 20 milioni?

«Nel marzo 2020, in pieno Covid, la Juventus raccontò la balla dei giocatori che rinunciavano a quattro mensilità per un risparmio a bilancio di 90 milioni. Ma non era vero, tre stipendi sarebbero stati pagati poi a fari spenti, fuori bilancio. La manovra venne ripetuta anche l’anno dopo e quando Ronaldo nell’agosto 2021 se ne andò era creditore di 19,9 milioni. Della carta-Ronaldo hanno parlato con terrore alcuni dirigenti intercettati; ora il portoghese è venuto allo scoperto chiedendo il pagamento pattuito. Quello che ieri era il messia della Juventus, oggi potrebbe essere colui che le dà il colpo di grazia».

John Elkann sapeva, come scrive Dagospia, o ha fatto dimettere il Cda per evitare gli arresti al cugino Andrea Agnelli?

«Elkann sapeva e gli andava bene tutto, perché quelli della Real Casa pensano solo ai propri interessi. Ha però sottovalutato il delirio di onnipotenza che si è impossessato del cugino Andrea facendolo uscire di senno. Il senso d’impunità tipico di quella stirpe ha fatto il resto. Ora Andrea Agnelli è stato buttato a mare».

Cosa le fa pensare la citazione di Nietzsche usata dall’ex presidente: «E quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non potevano sentire la musica»?

«Siamo alla patologia; non per niente i magistrati parlano di “contesto criminale di allarmante gravità”. Con Agnelli sono avvenute cose immonde: la ’ndrangheta che gestisce la curva, il tifoso-collaboratore finito giù da un ponte in piena inchiesta, gli striscioni su Superga introdotti allo stadio, l’esame farsa di Luis Suárez, l’idea abortita della Superlega con tradimento dei 245 club dell’Eca da lui presieduta, l’orrido scandalo di oggi. Una danza macabra».

De Ligt e De Sciglio hanno confermato l’esistenza dell’accordo per il rinvio degli stipendi. De Sciglio potrà giocare ancora nella Juventus?

«Non glielo auguro. La tifoseria, quella che in piena Calciopoli ringraziava Luciano Moggi, Antonio Giraudo e Roberto Bettega con lo striscione “Il fine giustifica i mezzi: grazie Triade”, ha già iniziato a linciarlo al grido di infame, sbirro e traditore. Spero che il ragazzo possa andarsene a giocare altrove, per il suo bene».

In Cristiano Ronaldo nel paese degli Agnelli denuncia il comportamento compiacente dei media italiani. È iniziato con l’arrivo di CR7 in Italia o viene da più lontano?

«Comportamento compiacente è un eufemismo. Nel libro cito a piene mani, a centinaia, esercitazioni di adulazione e servilismo – capolavori nel genere – da far impallidire l’Istituto Luce. I media italiani nei tre anni di Ronaldo sono stati, come da sempre, disgustosi».

C’è connivenza anche da parte di altri organismi e istituzioni?

«Si potrebbe chiedersi se ci sono Paesi in cui scudetti e titoli sono ricordati col nome di un arbitro piuttosto che di un campione. Non ci sono. Noi abbiamo invece gli scudetti di Bergamo, Ceccarini, Tagliavento, Orsato, le Champions di Calvarese, le Supercoppe di Mazzoleni, sempre con la Juventus protagonista e beneficiata. Una combinazione che ha dell’incredibile».

Il 26 ottobre del 2021 lei ha postato una foto su Twitter con sua moglie e suo figlio e ha smesso di cinguettare fino a pochi giorni fa: cos’era successo?

«È una ferita grande: difficile parlarne. Diciamo che la parte marcia del mondo del calcio, dopo avermi portato in tribunale una dozzina di volte, allenatori, dirigenti, arbitri, giocatori, capi Ufficio Inchieste eccetera, ha pensato bene di scatenare sulla mia famiglia la più classica delle shitstorm, infamità che niente avevano a che fare con la mia sfera professionale. Barbarie pura».

Ora ha ripreso l’attività social perché è meno minacciato?

«L’ho ripresa perché oggi stanno emergendo le illegalità e gli scandali che per anni ho denunciato quasi in totale solitudine. Nelle carte di Torino non c’è nulla di cui non abbia scritto. Ora attendo l’esito dei processi fiducioso in quello penale, meno in quello sportivo della giustizia Fjgc, come l’ho ribattezzata dopo il caso Suarez, e ho riaperto il libro. Ultimo capitolo, poi lo chiuderò».

Che lei sappia, anche altri colleghi sono stati monitorati?

«Ho lavorato a Mediaset con Maurizio Pistocchi e lui è stato un altro bersaglio di questo calcio in cui i giornalisti liberi hanno vita difficile».

La sua crociata anti Juventus è una monomania?

«Nel 1983 lavoravo al Giorno di Milano una mia inchiesta, in coppia col collega Claudio Pea, sulla partita combinata Genoa-Inter 2-3, diede vita all’apertura di un’inchiesta penale a Genova, magistrato Roberto Fucigna, sulle scommesse clandestine fatte da tesserati sul pareggio poi saltato e a un’inchiesta sportiva. Per salvare dalla B per illecito Inter e Genoa la Figc introdusse per l’occasione la formula dell’assoluzione per insufficienza di prove non contemplata dall’ordinamento sportivo. L’Italia aveva appena vinto il Mundial ’82, ci ho scritto un libro – Non si fanno queste cose a 5 minuti dalla fine – mi permetto di dire: da leggere. Non ce l’ho con gli juventini, ma con i disonesti».

Se la Juventus è la punta dell’iceberg vuol dire che se si tocca la società torinese cade tutto il sistema?

«Se la Juventus viene punita, ma punita davvero, il sistema del calcio italiano rinasce. Oggi facciamo pena, per non dire schifo, al mondo».

Il fatto che ci siano altri club coinvolti è la conferma che il sistema calcio fatica a reggersi sulle proprie gambe?

«I club coinvolti sono quelli che gravitano nella galassia juventina. La fatica a reggersi sulle proprie gambe è solo di chi non è capace di amministrare i propri conti. Per esempio, oltre alla Juventus, il Barcellona, guarda caso due club che vogliono la Superlega. Il Bayern Monaco, al contrario, benissimo amministrato e vincente in Europa, chiude i bilanci in attivo da  29 anni».

Che cosa rischia la Juventus?

«Di andare fuori dall’Europa per un paio di anni. In quanto a noi, sarebbe importante radiare Agnelli e Paratici e far ripartire la Juventus dalla serie D. Se poi la famiglia Agnelli liberasse il club dalla sua morsa secolare, allora potremmo davvero parlare di rinascita del club».

Il modello di giustizia sportiva cui rifarsi sono i sette Tour de France tolti a Lance Armstrong perché vinti da dopato?

«Sì, ma non succederà».

Sapeva che Zdenek Zeman era tifoso juventino?

«Sì. E soprattutto che è un uomo onesto».

Lei vive molti mesi dell’anno a Cascais: com’è il mondiale del Portogallo visto dal Portogallo?

«È dai tempi di Eusebio che non c’era una fioritura di campioni come oggi. I portoghesi sono un popolo umile: i loro idoli giocano all’estero e ritrovarli insieme in nazionale a un mondiale per loro è una festa. Comunque vada».

E quello di Cristiano Ronaldo?

«Di Ronaldo si sono stufati anche qui. È sui giornali più per i suoi abusi edilizi e per le discutibili gesta extra calcio che altro».

Massimiliano Allegri può essere l’uomo della rinascita?

«Assolutamente no. Per lui è bravo chi vince e fesso chi perde. Con questi presupposti non si va da nessuna parte».

Molti tifosi bianconeri staranno patendo: cosa direbbe loro?

«Che all’origine di tutte le disavventure c’è il motto “Vincere è la sola cosa che conta”. Come direbbe Fantozzi, una cagata pazzesca».

 

La Verità, 10 dicembre 2022

«Bravo Mancini, ma non si vince tanto senza bomber»

Dài, fammi le domande». Con l’entusiasmo e la vitalità che lo accompagnano a 83 anni, José Altafini gioca all’attacco anche nelle interviste. «Sto guidando, ma possiamo provare. Aspetta che metto il bluetooth…».

Dove sta andando?

«A Bergamo, per un appuntamento di lavoro. Collaboro con un’azienda che produce campi in erba sintetica».

Alla sua età ha bisogno lavorare?

«Gandhi diceva che l’uomo deve lavorare fino all’ultimo respiro. E poi, quando sto fermo, mi annoio. Il mio ufficio è l’auto, guidare mi dà un senso di libertà come dice quella canzone di Fabio Concato, Guido piano. Appena sono in macchina mi sento un altro, mi allontano dai casini. È il mio modo di vivere, sono andato dieci volte da Torino a Malaga».

Viaggio bello lungo.

«Quasi duemila chilometri. Ho una zia che vive lì e faccio un po’ di vacanza, la Spagna mi piace. Da quando c’è la pandemia non ci sono più andato. Scusa, non è che stai scrivendo il mio coccodrillo?» (ride).

Macché coccodrillo. Come mai vive ad Alessandria?

«A Torino non stavo così bene. Alessandria è strategica per andare in Liguria, in Toscana, a Torino e Milano».

Un paio di settimane fa è andato in un paesino della provincia di Rovigo per ricevere la cittadinanza onoraria.

«Sì. A Giacciano con Baruchella, dov’è nato mio nonno paterno. È la seconda onorificenza che prendo, l’altra me l’hanno data a Caldonazzo, dov’è nata la nonna materna».

Perché vuole che le sue ceneri siano sparse nel Po?

«Tanti dicono che vogliono farle gettare in mare, ma io ho sempre vissuto vicino ai fiumi. E allora voglio che siano sparse nel Po, così arrivano in Polesine e al mare. E magari fino in Brasile».

Si sente più italiano o brasiliano?

«Mi sento un uomo del mondo. Sono nato là e sono un patriota, ma in Italia ho vissuto tante belle cose, ho conosciuto l’amore. L’Italia è gemella del Brasile, ha la stessa indole, l’allegria, la gente affettuosa».

Ad Alessandria è nato Gianni Rivera con il quale vinse la Coppa dei campioni del 1963. La doppietta contro il Benfica sono i gol più importanti della sua carriera?

«Sono importanti perché hanno portato la prima vittoria europea di una squadra italiana. Come per il Brasile che ha vinto cinque mondiali, ma quello del 1958 è il più importante. Ci fu una festa fantastica perché la Seleção aveva perso la finale del 1950 con l’Uruguay. Quando arriva il momento delle coppe mostrano spesso quei gol. Per fare il secondo ho rubato la palla a Rivera che l’aveva intercettata a centrocampo, ma io ero più avanti e sono corso verso la porta».

Era più veloce di Rivera?

«Lo disse anche Cesare Maldini. I difensori del Benfica non sono riusciti a prendermi, come i contadini che non riuscivano ad acciuffarmi dopo che avevo rubato le arance».

Ha giocato con Milan, Napoli e Juventus: dove si è trovato meglio?

«Ho sempre amato il calcio. Volevo giocare nella squadra della mia città, Piracicaba, che militava in serie A. Fare il calciatore e restare vicino agli amici. Invece Dio mi ha premiato ancora di più. Sono arrivato al Milan a vent’anni e ho vinto scudetto, Coppa dei campioni, classifica cannonieri. A Napoli non ho vinto niente, ma con Sivori mi divertivo. Allo stadio c’erano sempre 80.000 persone, in trasferta 10.000. A 34 anni sono andato alla Juventus perché volevo giocare di nuovo la Coppa dei campioni. Mi sono divertito in tutti tre i posti».

Come mai ha giocato anche nel Chiasso?

«L’ultimo anno alla Juventus avevo deciso di fermarmi e di giocare solo un mese nella squadra italiana di Toronto. Invece venne il presidente del Chiasso che mi propose un anno nella serie B svizzera. Misi delle condizioni: “Mi alleno con la Juventus e vengo da voi per la partita”. Accettarono e il Chiasso fu promosso. A chi ama il calcio non importa se gioca in serie A, B o C».

È stato compagno di grandi numeri 10: Pelè, Rivera, Sivori.

«Ho giocato con tutti i grandi, Garrincha, Didì, Liedholm, Zoff, Capello, Bettega. Quando arrivai al Milan di Maldini e Schiaffino dissi che ero venuto per imparare. A 38 anni partecipai alla partita Anderlecht contro Resto del mondo per l’addio al calcio di Paul Van Himst, il Pelè bianco. L’attacco del Resto del mondo era formato da Amancio, Eusebio, Altafini, Pelé e Cruijff».

Perché Pelè è il più grande?

«Rasentava la perfezione. Era veloce, giocava bene di testa, destro e sinistro erano uguali al 100%. Chi ha giocato con lui non può paragonarlo ad altri».

S’impose con la ginga, che cos’era esattamente?

«Era una tecnica della capoeira. Ma è un’invenzione di quel film che lui usasse la ginga. Una falsità insieme ad altre».

Tipo?

«Che sua madre lavorava a casa mia perché io ero di famiglia ricca. Non abitavo neanche nella sua città ed ero povero quanto lui. Ero suo amico, tra noi non c’era rivalità come insinua il film. Lo ammiravo allora come adesso».

Come mai suo zio le fece da procuratore?

«In Brasile c’erano già i procuratori, in Italia no. Mio zio fu uno dei primi e mi ha assistito per il contratto con il Milan».

Ha fatto qualche errore o lei è stato troppo poetico nella gestione dei soldi?

«Non è questione di essere troppo poetico. In un anno non guadagnavo quello che oggi si guadagna in un mese. I contratti erano lordi, con le tasse al 42%. Con quello che restava dovevo aiutare la mia ex moglie. L’altro sbaglio è stato il contratto in cruzeiro che si svalutò subito».

Tornasse indietro che cosa non farebbe?

«Molte cose. Ho fatto 309 gol, avrei potuti farne un centinaio in più. Sarei più consapevole e rispettoso delle società per le quali gioco. Ero un ragazzino e di qualcosa sono pentito, ma in quel momento ero felice».

Questo è molto brasiliano.

«Basta pensare a Ronaldinho e Adriano. Se fossi stato loro assistente avrei saputo consigliarli. Ti ricordi Edmundo o Animal quando giocava nella Fiorentina? Spariva per il Carnevale. Se dà i consigli giusti il procuratore può far guadagnare tanti soldi ai suoi giocatori».

Ora è una figura poco popolare.

«Ci sono mamme e mogli che prendono decine di milioni di commissioni sul contratto del figlio o del marito».

Poi c’è il caso di Gigio Donnarumma.

«A volte i procuratori provocano la rottura con la società per far vendere il giocatore e guadagnare».

Mino Raiola segue anche Zlatan Ibrahimovic, un grande campione che ha giocato in tutti i grandi club, ma a forza di cambiare non ha mai vinto la Champions.

«Per la bravura di certi procuratori si vedono cose strane. Cristiano Ronaldo alla Juventus è costato un patrimonio e non ha vinto la Champions. Dani Alves a 38 anni è tornato al Barcellona. Una volta presidenti come Andrea Rizzoli, Angelo e Massimo Moratti, Dino Viola e Paolo Mantovani rispondevano dell’andamento della società perché mettevano i loro soldi. Ogni acquisto era verificato. Oggi comandano i manager che se ne vanno con la società in deficit e prendono lo stesso la liquidazione».

La sua carriera di commentatore avrebbe potuto durare di più?

«Penso di sì, ma in Italia a volte si guarda più all’età che alla competenza. Raimondo Vianello prima e adesso Maurizio Costanzo dimostrano che conta di più la competenza. La Rai ha accantonato Bruno Pizzul che sarebbe ancora migliore di tanti giovani. Io ho lavorato in tutte le televisioni. Ho cominciato a Telealtomilanese con Luigi Colombo, poi sono andato a Telemontecarlo. Siamo stati i primi a fare la telecronaca a due voci».

Ha inventato il golaço.

«L’ho importato dal Sudamerica. Il telecronista deve fare spettacolo. Quando ero a Sky una volta Fedele Confalonieri mi chiese: “Josè, oggi che manuale di calcio usi?”. “Presidente, perché non mi chiama a Mediaset?”. Ma quando incontrai il direttore dello sport mi disse che non poteva prendere uno della mia età perché non avrebbe saputo come giustificarlo a Pier Silvio. Berlusconi ha aiutato tanta gente, non me. Ma non sono indispettito, la mia è una vita bellissima…».

Le telecronache di oggi le piacciono?

«Alcuni commentatori sono preparati, ma non hanno fantasia. Io dicevo che dove giocava Roberto Baggio nascono i fiori».

Come mai nel giro di tre mesi la Nazionale ha perso il filo del gioco?

«Mancini sta facendo un bel lavoro, però manca un po’ di esperienza. Ci siamo adagiati sugli allori, è tipico dei giovani. Anche a me è capitato, ma ho avuto la fortuna di incontrare campioni e uomini veri. Ricordo che giocavo nel Palmeiras e adoravo Zizinho, nazionale della Seleçao 1950. In una partita eravamo avversari, lui a 38 anni, io ragazzino. Prendo la palla a centrocampo e lui mi atterra, ma allunga la mano e mi aiuta a rialzarmi: “Scusa ragazzo, dovevo farlo”. La semplicità e la modestia non s’impara sui libri».

Quella semplicità c’è ancora?

«Non c’è più. Ultimamente ho rivisto Baggio e ci siamo abbracciati. Con Cristiano Ronaldo non sarebbe possibile. È ammiratissimo, ma distante. I campioni di oggi sono blindati, ci sono gli sponsor, gli agenti, gli uffici stampa. Noi quando uscivamo da Milanello passavamo in mezzo alla folla…».

In Italia ci sono troppi stranieri e si fatica a far crescere i nostri talenti?

«Anche in Europa. Quanti giocatori di colore ci sono? Senegalesi, congolesi, ivoriani… non tutti valgono il prezzo. Tanti stanno in panchina e non entrano mai, li prendono per far girare i soldi».

È per questo che attaccanti come Gigi Riva, Pierino Prati e Pippo Inzaghi stentano a emergere?

«Dobbiamo plasmare un centravanti che si faccia rispettare anche con il fisico, come Ibrahimovic. Balotelli potrebbe, ma non ha la testa».

Lei aveva potenza e astuzia, qual è la dote principale di un bomber?

«Il goleador ha l’istinto. Inzaghi non partecipava alla manovra, CR7 neanche, eppure… Pelè giocava con la squadra, quando aveva la palla sul destro teneva il difensore a sinistra e viceversa. Una volta ho detto a Riva: “Se avessimo giocato con questi palloni e questi campi, quanti gol avremmo fatto?”».

Chi è l’allenatore che le piace di più?

«Il migliore del mondo è Guardiola. In Italia Trapattoni, Capello e Lippi sono stati molto bravi».

Il suo pronostico per lo scudetto?

«Si decide a marzo. Ci sono tante variabili, i giocatori infortunati, gli allenatori che sbagliano. Per me l’Inter è più forte dell’anno scorso. Poi bisogna vedere se il Milan riesce a gestire i giovani e il Napoli tiene. La Juventus mi sembra troppo indietro. Ma tu devi dirmi una cosa…».

Prego.

«Questo non è coccodrillo, vero?».

 

La Verità, 20 novembre 2021

«Alleno in paradiso, ma nessuno mi ha seguito»

Insegnare calcio alle Maldive. Francesco Moriero da Lecce, di anni 52, è il tecnico più invidiato del mondo. I motivi dell’invidia però non sono la qualità della sua squadra, le ambizioni di conquista di trofei prestigiosi, il contratto supermilionario con relativi benefit. L’invidia lo insegue per la sede di lavoro: l’atollo tropicale. Dopo la sconfitta con l’India, costata l’eliminazione dalla coppa d’Asia, la federazione maldiviana ha pensato a lui come commissario tecnico della nazionale. Così, la meta turistica più ambita del globo è diventata l’ultima tappa del vagabondaggio dell’ex giocatore di Lecce, Cagliari, Roma, Inter e Napoli. Del resto, ora è un allenatore giramondo, già passato per l’inferno della Costa d’Avorio e il purgatorio della Svizzera. «Pronto? No, non sono il mister, sono un suo assistente. Sta facendo le visite mediche… Richiami fra un paio d’ore».

Buongiorno, mister Moriero. Allora non è vero che è andato da solo in paradiso…

«Invece sì. Emilio (Mignoli ndr) l’ho trovato qui, è venuto a prendermi all’aeroporto. Adesso mi aiuta con la lingua locale. Si è instaurato questo rapporto lavorativo e amichevole. Con lui posso integrarmi meglio».

Anche gli allenatori sostengono le visite mediche?

«Certo. Poi ho fatto le foto per il permesso di soggiorno e gli altri adempimenti burocratici».

Emilio è tutto il suo staff?

«La federazione ha i suoi collaboratori e a me va bene lavorare con loro. Più avanti vedremo. Quando ci siamo accordati ho preparato i bagagli e sono partito».

Diceva della lingua…

«Con l’inglese mi arrangio, ma non tutti lo capiscono. E siccome già l’8 novembre abbiamo un torneo nello Sri Lanka conviene riuscire a spiegarsi bene subito».

I suoi calciatori sono professionisti?

«Semiprofessionisti. Lavorano e poi si allenano».

Lo sa che è uno dei coach più invidiati del mondo?

«Sono arrivato in un paradiso. Ho allenato in posti dispersi e ora sono fortunato a essere qui. I maldiviani sono simpatici. Ma non bisogna perdere di vista che sono venuto a lavorare e che la gente si aspetta molto. Sono invidiato… anche da persone che stanno sul divano. Almeno dieci collaboratori hanno rifiutato di seguirmi perché è troppo lontano».

Un posto bellissimo, che richiede anche sacrifici?

«Esatto. Anche se mi considero fortunato».

Che cosa serve per buttarsi in una sfida così?

«Disponibilità a mettersi in discussione, a mettersi in gioco. E voglia di creare qualcosa di proprio. Io sono sempre stato attratto dalle sfide difficili. Chi è abituato ai super stipendi e alle comodità è più frenato».

Quanto pesa la lontananza dalla famiglia?

«Pesa. A Lecce ho tre ragazzi, mia moglie e i genitori. Hanno la loro vita. Certo, la sera quando torno in camera mancano. Ma loro sono contenti perché sanno che lo sono io, perché faccio il lavoro che mi piace. E mi appoggiano al 100%. Se fossero qui magari si aspetterebbero più attenzioni di quelle che riuscirei a dare».

Come si è concretizzata la proposta?

«Da più di un anno avevo in mente di andare all’estero. In Italia non c’è pazienza. Ti chiedono di far crescere i giovani, ma dopo due pareggi ti mandano via. Pensi a Eusebio Di Francesco a Verona o a Leonardo Semplici a Cagliari, esonerati dopo poche giornate. Sì, il mestiere di allenatore è anche questo. Però…».

Com’è arrivato lì?

«Il mio amico Nuno Gomes, ex giocatore della Fiorentina, mi ha segnalato questa possibilità».

Fa il procuratore?

«Sì. Ho parlato con il presidente della federazione e ci siamo accordati per un anno. Anch’io devo conquistarmi la fiducia».

Era già stato lì in vacanza?

«No. L’impatto è stato fantastico. Fin dall’aereo mi sono accorto di quanto sono fortunato. Poi all’aeroporto ho trovato grande accoglienza da chi mi conosceva come calciatore. Spero di soddisfarli anche da allenatore».

Punterà su un gioco offensivo?

«Senza dimenticare che il calcio è equilibrio».

In che cosa devono migliorare i calciatori maldiviani?

«Soprattutto nella tattica, di cui in Italia siamo maestri. Ho trovato entusiasmo e disponibilità a imparare».

S’ispira a qualcuno in particolare?

«Grazie a Dio un po’ di carriera l’ho fatta. Il punto di riferimento è Carlo Mazzone che mi ha insegnato a comportarmi dentro e fuori dal campo. Ho imparato anche da Marcello Lippi e da Gigi Simoni, bravo a gestire il gruppo e grande motivatore. Poi il modo d’impostare il calcio è personale. Si prende spunto dai tutti: Pep Guardiola, Luciano Spalletti, Mourinho… Anche da Roberto Mancini, che ha dimostrato che in Italia ci sono tanti talenti».

Qual è il suo obiettivo?

«Trasmettere il mio calcio. E fare meglio di chi mi ha preceduto. A febbraio avremo le qualificazioni per i mondiali del Qatar con Cina, Giappone, India che sono più attrezzate di noi. Sono ambizioso, ma anche realista».

Com’è la sua giornata?

«Qui alle 6 del mattino c’è già un sole che spacca le pietre. Al mattino guardo i video dei miei giocatori e delle squadre che affronteremo. Al pomeriggio ci sono gli allenamenti».

Vive in albergo?

«Sì, a Hulhumale, dieci minuti da Malé, la capitale. Ma sto cercando casa. Ho una vista mare fantastica».

Già fatto qualche bagno?

«Purtroppo non ho ancora avuto il tempo».

Tornando all’invidia, lei dimostrava di non averne quando, dopo le prodezze di Recoba e Ronaldo, lucidare il loro scarpino. Si riteneva un gregario?

«Gregario no, umile sì. Come calciatore non mi sentivo inferiore a nessuno. Sono sempre stato un uomo di spogliatoio, a servizio dei compagni. All’Inter quel gesto divenne di moda e servì a fare gruppo».

Un calciatore umile, ma di talento e capace di gol spettacolari in rovesciata come in Coppa Uefa contro il Neuchatel Xamax e con la nazionale di Cesare Maldini.

«Il talento dev’essere a servizio della squadra e far divertire la gente».

Ai mondiali del 1998 in Francia rubò il posto ad Angelo Di Livio.

«Ero pieno di entusiasmo. Il sogno di ogni ragazzo è indossare la maglia della nazionale in un mondiale. Per testarmi Maldini mi convocò per l’amichevole con il Paraguay».

E lei segnò una doppietta.

«Quando il sogno si avvicina devi cambiare marcia».

Nella foto del profilo whatsapp è con Ronaldo il fenomeno. Avevate intesa anche fuori dal campo?

«C’era intesa con tutti. Sa, quelle annate che nascono bene… Con Ronnie c’era un rapporto speciale. A vent’anni era già il numero uno al mondo e riusciva a trascinarti. Con Zanetti, Zamorano, il Cholo Simeone, Galante e Colonnese abbiamo fatto la chat dei Ragazzi del 97/98… Hanno promesso che verranno a trovarmi alle Maldive».

Lei e Ronaldo uscivate insieme la sera?

«No, lui era scapolo, io avevo già famiglia. Giusto qualche cena in casa. Stavamo insieme dalle 10 del mattino alle 7 di sera».

Dopo l’Inter e due anni al Napoli ha smesso. Com’è finito ad allenare l’Africa Sports National, in Costa d’Avorio?

«Gliel’ho detto: se non sono cose difficili non mi piacciono. Mi ero iscritto al corso allenatori con Antonio Conte, anche lui di Lecce e amico fraterno. Però non volevo iniziare subito in serie A o serie B, ma capire se potevo fare questo mestiere. Andai a Nizza a vedere una partita della Costa d’Avorio. Il presidente della federazione mi disse: “Se un giorno vorrai allenare la nazionale, prima devi fare esperienza in un club per capire le nostre abitudini”. Mi presentarono il proprietario della squadra di Abidjan, che m’invitò ad andare lì».

La Costa d’Avorio è il Paese di Didier Drogba, Yaya Touré, Franck Kessie…

«Ma ad Abidjan non c’era niente. Squadra, strutture… Mi portai un piccolo staff e iniziai a fare centinaia di provini. Quando vincemmo il campionato me ne andai perché mi aveva chiamato il Lanciano che militava in Lega Pro. La squadra e il presidente vennero a salutarmi all’aeroporto, molti erano commossi».

Se le Maldive sono il paradiso la Costa d’Avorio è stata l’inferno?

«È stata un’esperienza formativa. C’erano ragazzi che per venire agli allenamenti alle 11 si alzavano alle 6 e prendevano tre pulmini. Rimediavano un euro per mettere insieme colazione, pranzo e cena, ma avevano sempre il sorriso. Alla prima partita c’erano tre spettatori, quando andai via ce n’erano 60.000».

Un ricordo di Abidjan?

«Il Paese attraversava momenti difficili, camminavo in mezzo ai militari. Stavamo speso barricati in casa».

Dopo qualche stagione in Lega Pro e in B è andato a Lugano, posto agli antipodi della Costa d’Avorio.

«Dalla Lega Pro portai il Crotone in B. Poi al Frosinone, ma fui esonerato a quattro giornate dalla fine. A quel punto, Enrico Preziosi, che voleva portarmi al Genoa, mi ingaggiò per il Lugano che era terz’ultima nella B svizzera. Arrivai secondo, sfiorando la promozione. Quando Preziosi vendette il Lugano ad Angelo Renzetti decisi di lasciare. A Lugano era tutto preciso, organizzato, puntuale. E un po’ fastidioso».

Come mai nel 2015 si è candidato in Puglia con Forza Italia?

«Mi è stato proposto. Volevo creare una cittadina dello sport per togliere i ragazzi di Lecce dalla strada, farli stare in un ambiente sano, e far stare tranquille le famiglie».

Fu eletto?

«Presi tanti voti, ma non abbastanza. Per uno sportivo è dura».

Fu criticato?

«No. La gente sa che non ho ambizioni personali. Lo ha constatato anche durante il lockdown quando, con Fabrizio Miccoli, abbiamo creato gli Angeli di quartiere e aiutato le famiglie povere di Lecce. Su Instagram abbiamo messo all’asta le maglie e i ricordi. Hanno partecipato tanti campioni, da Zanetti a Bergomi a Totti…».

Poi con Miccoli è andato ad allenare la Dinamo Tirana, in Albania.

«Durante la pandemia non c’erano offerte e noi volevamo tenerci attivi. Ma lì è durata poco, non c’erano i presupposti per lavorare bene».

Tanti coach hanno allenato e allenano all’estero, da Carlo Ancelotti a Fabio Capello, da Conte a Maurizio Sarri. Molti sono andati in Cina…

«Gli allenatori italiani sono apprezzati. Poi ci sono i giramondo. Walter Zenga ha ottenuto grandi risultati. Gianni De Biasi ha allenato l’Albania, adesso è in Azerbaigian. Marco Rossi dopo la Honvéd allena l’Ungheria».

Quanto spera di restare in paradiso?

«Dipende da tante cose. Anche per la federazione avere un allenatore che viene dall’altra parte del mondo è qualcosa di anomalo. Devo conquistarmi la riconferma. Chissà, poi magari parlerò con i miei…».

 

La Verità, 30 ottobre 2021