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Festival scapezzolato, Paoli definitivo, Fiorello critico

Pagelle della serata finale del 73° Festival di Sanremo

Festival di capezzoli. Voto: 1

È il trionfo del kitsch. Come considerare gli abiti di Chiara Ferragni? Quello del monologo. E quelli della serata finale. «Una scultura» dorata che ripete le sue anemiche tettine, ornata(?) da una sottoveste turchese (colori dell’Ucraina). E anche l’altro che riproduce i capezzoli e i fianchi. Tutta roba che pialla ogni attrattiva. E che il sangue, anziché farlo, lo gela. Raggelanti anche le versioni scapezzolate di Rosa Chemical e Madame.

 Depeche mode, mah. Voto: 6

I più popolari e longevi interpreti di musica elettronica del mondo. Quarant’anni di carriera da quando la band è nata. Lacuna mia, non la conoscevo. Trovo significativo che, in un momento così, abbia intitolato Memento mori l’ultimo album. Per il resto, non posso dire che l’esibizione mi abbia entusiasmato, forse proprio perché presentata con troppa enfasi. Mi ha trasmesso una certa freddezza, com’è di una musica un filo robotica. E mi sembra che anche il pubblico dell’Ariston sia rimasto tiepidino. Forse anche a causa di qualche stonatura.

Gino Paoli, mostro sacro. Voto: 10

Con i suoi 88 anni può dire e fare ciò che vuole. Giacca bianca e Ray-ban azzurri, accompagnato dal grandissimo Danilo Rea (se si ha carisma bastano un microfono e un pianoforte), canta Una lunga storia d’amore, Sapore di sale e Il cielo in una stanza. Serve altro? Sì, prima di raccontare un paio di aneddoti su Morandi e Little Tony, dice la sua sul Festival. «È una gabbia di matti». Stefania Sandrelli nella sua casa al mare ha una gazza che dice solo questo: «Gabbia di matti, gabbia di matti. Volevo portarla qui e metterla su un microfono». Lapide.

La limonata di Rosa Chemical. Voto: 1

Baciando in bocca Fedez al termine della sua esibizione fa felici tutti. I Ferragnez innanzitutto, che hanno modo di dimostrare ai loro figli sintonizzati da casa che sono una coppia aperta, moderna e impegnata nella promozione dei diritti della comunità Lgbtq. E soddisfa anche Ama, che aveva suo figlio due poltroncine più in là rispetto a dove il cantante twerkava sul pacco di Fedez. Il conduttore teorizza che non ci sono etichette: «Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna». Dunque, tutti contenti. O no?

Fiorello, coscienza critica. Voto: 9

Il migliore, come sempre. Le sue incursioni all’Ariston da Via Asiago scoperchiamo le ipocrisie. «Domani i dirigenti andranno tutti a casa, però è stupendo. Devo dire che è una puntata tranquilla, serena. Vi siete guadagnati la prima pagina dell’Avvenire. Pensate se Rosa Chemical avesse fatto la scena che ha fatto con Fedez con gli artigiani della qualità seduti sul divano». Poi chiede notizie del direttore dell’Intrattenimento prime time, Stefano Coletta: «Inquadratemelo. Fatemelo vedere per l’ultima volta. Hai controllato i testi di Gino Paoli?», lo provoca. «Dopo Rosa Chemical, Achille Lauro sembrava Cristina D’Avena». Altra lapide su Sanremo 2023: «Neanche il bar di Guerre stellari».

 

 

 

Strepitosi gli highlander, Fedez sempre infantile

Le pagelle della seconda serata del 73° Festival di Sanremo

Al Bano, Ranieri, Morandi highlander. Voto: 9

Un pezzo di storia della musica italiana. Finora il loro medley è il momento top del Festival. Più popolari dei tre tenori, più intonati dei Pooh della sera prima, molto più trascinanti dei Black Eyed Peas. Uno su mille ce la fa, Perdere l’amore, Nel sole, tanto per limitarsi nelle citazioni, sono must assoluti che hanno galvanizzato il pubblico dell’Ariston, tutto in piedi a cantare e ballare.

Francesca Fagnani, carta vincente. Voto: 8

Una che sa stare al mondo. Ha indossato l’Ariston come un guanto. Giusta nei tempi e nei toni. Dove la metti fa il suo, quando deve presentare i cantanti, quando deve cazzeggiare con Ama e Gianni, quando arriva il monologo che gestisce con sagacia, misura e pieno controllo dei contenuti. Il dialogo con i ragazzi del carcere minorile di Nisida e l’esortazione ad accendere i riflettori sul rapporto tra la scuola e gli adolescenti marginali lasciano il segno.

Fedez, il moccioso che non cresce. Voto: 2

Passa il tempo, cambia il mondo, lui resta tristemente immobile nel suo infantilismo. Canta «Se va a Sanremo Rosa Chemical scoppia la lite, forse è meglio il viceministro vestito da Hitler», prima di stracciare la foto del sottosegretario Galeazzo Bignami a una manifestazione giovanile di cui si è già più volte scusato. Poi provoca per l’ennesima volta il Codacons. Ha il merito di essersi assunto la responsabilità delle sue azioni. Non dovrebbero mancargli i fondi per pagare le querele.

Pegah Moshir Pour e Drusilla Foer. Voto: 8

Più che giusto ricordare i diritti negati in Iran. Parlare di persone in carcere, donne violate e impossibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero dopo l’elogio dell’articolo 21 della Costituzione era doveroso. Lo hanno fatto le persone giuste e con i toni giusti. Abbiamo ancora nella memoria gli eccessi e i livori di Rula Jebreal; Pegah e Drusilla lo hanno fatto con garbo, eleganza e senza retorica. Doti che giovano alla causa.

Rosa Chemical, Achille Lauro de noantri. Voto: 4

Il voto è la media tra testo, musica e look. Il rapper si presenta con occhiali da sole, bustino in pelle e piercing a volontà. La sua Made in Italy cita Vasco, Celentano e Leonardo. Canta il poliamore: «Ti piace/ Che sono perverso e non mi giudichi/ Se metterò il rossetto in ufficio lunedì/ Da due passiamo a tre/ Più siamo e meglio è». Il ritornello orecchiabile e ben ritmato diventerà un tormentone. Copia sbiadita di Achille Lauro.

Angelo (troppo) Duro per l’Ariston. Voto: 5

Lo stand up più caustico e il teatro più mainstream sono mondi troppo lontani per incontrarsi. Si sapeva che era spietato e divisivo. Il contesto fa il testo. Lui fa sold out in teatri dove il pubblico sa chi va a vedere. Amadeus lo fa uscire all’una meno dieci dopo aver invitato i telespettatori a cambiare canale. Ha rivendicato il primato della trasgressione: non ha tatuaggi, è astemio e sta con una donna da 14 anni. I matrimoni «salvati» dalle puttane sono uno di quei paradossi da sbandata sul ciglio del precipizio.

 

Achille Lauro è il volto identitario del Festival

Achille Lauro non poteva mancare nemmeno stavolta, e fanno cinque edizioni consecutive. Tre da concorrente e due come superospite. È lui il volto identitario del Festival di Sanremo anni Venti. Una vetrina modaiola di fluidità e gender in varie gradazioni che ha sostituito la kermesse patronale, il luna park tuttifrutti di un tempo. Adesso il frutto principale è questa salsa queer. Sanremo segue il costume, ma qualche volta lo anticipa e lo influenza a suon di musica e polemiche, ugole e predicozzi, canzonette e politica. È così fin dal Ragazzo della via Gluck e Chi non lavora non fa l’amore (Adriano Celentano, 1966 e 1970), e da Una vita spericolata (Vasco Rossi, 1983), per citare le prime. Da La terra dei cachi (Elio e le storie tese, 1996) e Non è l’inferno (Emma Marrone, 2012), per avvicinarci al presente. Sanremo era Sanremo. Condito di superospiti internazionali, da Josè Feliciano, anche in gara, a Madonna, da Michail Gorbaciov a Mike Tyson e John Travolta, che per brevi comparsate procuravano salassi alle casse della Rai e overdosi di polemiche sull’uso del denaro pubblico. Il concorso era trasmesso in Eurovisione e c’era chi diceva che tutto il mondo ce lo invidiava. Domenico Modugno, Claudio Villa, Gianni Morandi, Celentano, Laura Pausini vendevano alla grande anche all’estero, e senza il complesso di essere italiani. Anzi, magari proprio per quello. Oggi no. Oggi, nell’èra della globalizzazione, sebbene declinante, i generi musicali perlopiù li importiamo. Comunque, Sanremo era quella roba lì. Epperò negli ultimi anni abbiamo assistito a una curiosa metamorfosi. Con innesti crescenti di progressismo, il nazionalpopolare è mutato in mainstream. Ben più di una correzione linguistica, un passaggio culturale. Dalla prospettiva nazionale a quella globale, dalla tradizione del Belpaese al pensiero unico sul vassoio dell’intrattenimento di tendenza. Il nuovo linguaggio deriva dalla frammentazione dei generi? L’Ariston si adegua e offre la vetrina.

Dicevamo di Achille Lauro, nome d’arte(?) di Lauro De Marinis. Quando si è presentato in gara, le sue dimenticabilissime canzoni navigavano nelle retrovie della classifica, puro pretesto per le messinscene, le mise transex, gli scandaletti di polistirolo pour épater le bourgeois. La sua ultima esibizione aveva simulato un battesimo. Roba farlocca. Tanto che, stuzzicato da Fiorello che l’anno prima, con una corona di spine sul capo, aveva duettato con lui, l’Osservatore Romano aveva dispensato delusione: «Volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo. Da questo punto di vista difficilmente dimenticheremo la recita del Padre Nostro, in ginocchio, di un grande artista rock come David Bowie. Non ci sono più i trasgressori di una volta».

Insomma, in quel lembo di Liguria si fatica a pensare in grande. A osare veramente. Ci hanno provato Rula Jebreal con un monologo in difesa delle donne violentate e Roberto Saviano ha voluto ricordare il trentennale dell’uccisione di Giovanni Falcone con tre mesi di anticipo. Nel 2020, con una libera interpretazione del Cantico dei cantici, definito il libro «più bello, più santo, più importante della Bibbia», Roberto Benigni ha sdoganato tutte le forme di amore, quella «dell’uomo con la sua donna, la donna con la sua donna, l’uomo con il suo uomo». Perché, alla fine, si casca sempre lì, nella moltiplicazione dei sessi e nell’amore non binario, come si dice.

Sotto la supervisione di Stefano Coletta, prima come direttore di Rai 1, poi come responsabile della sezione Intrattenimento della tv pubblica, Sanremo si è travestito da festival queer, disseminato di baci gay, unghie smaltate e trucco pesante per entrambe i sessi (e speriamo che la comunità Lgbtq non insorga). Se prendiamo i vincitori delle edizioni frequentate da Lauro, due volte ha vinto Mamhood (nel 2022 con Blanco) e una i Måneskin, poi tornati come ospiti l’anno scorso. E il vecchio luna park è sembrato un Gay pride per famiglie. Arcobaleno, naturalmente.

Erano gli anni dei governi guidati da Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e Mario Draghi, con il Pd a dare sempre la linea (tranne la breve parentesi gialloverde). Erano gli anni del dibattito sul ddl Zan, di genitore 1 e genitore 2, dell’asterisco e dello schwa proposti, e spesso adottati, nei documenti pubblici… Non che siano stati definitivamente archiviati. Tuttavia, dalle parti di Palazzo Chigi l’aria è cambiata. Invece in Rai ancora no. Basta guardare i programmi d’intrattenimento, certe rubriche pomeridiane di Rai 1 e Rai 2, le giurie degli show della rete ammiraglia… Finora l’avvento di Giorgia Meloni e del governo «delle destre» non ha fatto girare il vento nemmeno tra i fiori e le pailettes della kermesse canzonettara. Al suo fianco, il conduttore e direttore artistico ha voluto, sì, il rassicurante Gianni Morandi, amato sia dalle nonne che dai giovanissimi («Da grande voglio essere come lui», confidò Blanco sul palco di un anno fa). Ma fedele al mainstream modaiolo, ha chiamato l’«imprenditrice digitale» Chiara Ferragni e la pallavolista non binaria Paola Egonu (e chissà perché nessuno invita mai Miriam Sylla, anche lei di colore e pure capitana dell’Italvolley femminile).

Intanto Madame ha dovuto cambiare il titolo della canzone in Il bene nel male (al posto di Puttana), prima di essere indagata per una storia di vaccini falsi e piegarsi al volere comune: senza polemiche la colonnina dell’Auditel non s’impenna. Dopo aver detto che non ci sarebbero stati ospiti perché già tanti erano i cantanti in gara, man mano che ci si avvicinava al giorno d’inizio, Amadeus ha annunciato Black Eyed Peas, Piero Pelù, Francesco Renga, Nek… E, sempre in modalità allineamento, si è parlato di Volodymyr Zelensky in videocollegamento nella serata finale.

Di sicuro c’è che i cantanti in gara saranno 28, ventidue big più sei giovani, così le serate termineranno quando albeggia, tutta salute per lo share. A naso, il cast del 73° Sanremo, dal 7 all’11 febbraio, è tranquillo. C’è la quota star da stadio con Marco Mengoni e Giorgia, il trash dei Cugini di campagna, la nutrita fetta anni Novanta con Anna Oxa e i Modà, senza dimenticare le reunion di Articolo 31 e Paola e Chiara. Ci sono «i figli di» Leo Gassmann e Lda (di Gigi D’Alessio), i big da classifica Lazza, Elodie e la già citata Madame, la quota di musica indie con Colapesce Dimartino e Coma Cose, che bissano la partecipazione dell’anno scorso, come Tananai che, giunto ultimo, può migliorare ma non è detto. Non s’intravedono troppe trasgressioni fasulle. Però occhio a Rosa Chemical che somiglia non poco ad Achille Lauro, speriamo solo nell’aspetto. Nell’incertezza, si è pensato bene di convocare anche l’originale. Hai visto mai che se ne sentisse la mancanza.

 

Il Timone, febbraio 2023